Tonino Casolaro: sulla guerra e sulla Resistenza

Antonio Casolaro, il compagno Tonino, non è più tra noi. Vogliamo qui ricordarlo con la prima parte di un suo ampio scritto apparso sulla rivista “Officina” nel marzo 1992, e oggi sorprendentemente attuale.

Chi scrive, nel 1944 si trovava in Toscana; era scappato, insieme alla famiglia da Napoli dopo il bombardamento del 4 agosto 1943, quando per destino favorevole la bomba che avrebbe dovuto colpire la propria abitazione cadde inesplosa, trascinandosi un’ala del palazzo e lasciando intatto, ma pericolante, il resto. A Napoli il 25 luglio era passato con stupore e sconcerto tra la gente. Parecchi erano smarriti e si chiedevano il perché di tanti tormenti, di tante sofferenze, di tanta fame. Qualcuno incominciava a chiedersi anche di chi fosse la colpa…

La nuova realtà di sfollati, in una zona a mezzadria e a colonia, era molto diversa da quella abituale, e travolse immediatamente tutti. C’era un’attesa quasi messianica da parte delle famiglie contadine durante le “veglie” (così erano chiamate le riunioni che si tenevano a partire dal mese di novembre, il più delle volte nelle stalle) Non si faceva altro che parlare della fine della guerra e dell’organizzarsi contro i fascisti e i tedeschi, i quali nel loro ripiegamento verso il Nord uccidevano e deportavano animali e uomini. Su tutto aleggiava il “Vento dell’Est”, cioè il ricordo della rivoluzione russa come nuovo ordine politico-sociale e la speranza di un’imminente fine degli iniqui patti della mezzadria e della colonia. Di veglia in veglia, tra una casa colonica e l’altra, si ripetevano sempre le stesse cose, arricchite ogni volta di nuovi particolari sulla formazione delle Brigate partigiane e sulle loro vicende; si discuteva anche delle misure da prendere non solo nei confronti dei “lealisti”, ma anche di coloro che cominciavano a prepararsi per il salto della quaglia.

Proprio nei confronti di chi, per vent’anni, con autentica cattiveria aveva spadroneggiato riducendo alla fame decine e decine di famiglie, massacrate dal durissimo lavoro dei campi (senza, per molti, nemmeno l’ausilio delle macchine), l’ira e la volontà di “fare i conti” era prioritaria e determinata. Donne e uomini di qualsiasi età ripetevano, riandando nei ricordi alle angherie subite, i nomi di chi doveva essere punito. Negli occhi e negli sguardi poteva leggersi l’amarezza, la collera profonda per la quotidiana violenza subita da parte della razza padrona e dai lacchè del potere da essa costruito. Qualcuno a voce alta e qualcun altro con più timidezza, persino paura, o forse per fatalistico senso del subire come per condanna di nascita, facevano i nomi, quasi liberandosi di un’angoscia, di un peso sopportato per anni. Il fattore, il podestà, il prete compromesso … erano quelli i nomi che ricorrevano, erano quelli i personaggi con i quali al momento opportuno bisognava fare i conti.

Così era il clima, e più avanti si andava, più l’organizzazione del Partito comunista progrediva; assieme ai vecchi socialisti, che riprendevano a ritrovarsi e operare anch’essi in modo unitario per la liberazione definitiva. Venivano discusse le strategie per l’insurrezione finale. A volte capitava che qualche dirigente o qualche compagno che manteneva i collegamenti e che aveva partecipato a qualche riunione precedente, non venisse: con rabbia e dolore si apprendeva che era caduto nelle mani fasciste perché denunciato o tradito. E in questa attesa, al termine di ogni riunione il pensiero di tutti era sempre lo stesso: “i fascisti la devono pagare”.

Nella primavera del 1944 i tedeschi, con la complicità dei fascisti, avevano ucciso centinaia di abitanti inermi a Castelnuovo dei sabbioni, Civitella, Bucine, Cortona, Meleto; paesi vicinissimi, gente conosciuta, con cui esistevano legami di amicizia e spesso di parentela. Fu questa certamente la goccia che fece traboccare il vaso: l’avversione nei confronti dei fascisti era totale e bisognava operare di conseguenza.

Occorre anche dire che buona parte dei “camerati”, anche quelli ancora in vista, fiutando il vento della possibile resa dei conti, o tentavano di allontanarsi oppure, con precoce “folgorazione sulla via di Damasco”, si convertivano al moderatismo e alla tolleranza, confidando nella forza mediatrice e moderatrice della Chiesa. E che i fascisti tentassero di entrare nelle costituenti nuove forze moderate è palesemente documentato, per esempio, dalla lettera dell’8 luglio 1944 scritta da Pavolini a Mussolini sulla situazione del territorio fiorentino e di quello della provincia di Siena: “Capoluogo e paesi della provincia – a parte la presenza quasi puramente figurativa, presso i comandi germanici, del solo capo provincia Chiurco – sono rimasti a lungo in balia di se stessi, in una demoralizzante carenza delle istituzioni repubblicane e fasciste e con una anticipata reviviscenza dei vecchi partiti … La causa direttamente determinante fu, a Siena come altrove, lo squagliamento dei carabinieri e dell’esercito, lo sfaldamento della Guardia …” (in F. W. Dekin, Storia della Repubblica di Salò, Einaudi, Torino 1963, p. 679).

Che i carabinieri, notoriamente filomonarchici, e l’esercito, costituito in buona parte da coscritti di leva e da ufficiali di complemento, se la squagliassero, era prevedibile agli occhi di Pavolini, segretario del Partito Fascista. Lo sfaldamento della Guardia Nazionale Repubblicana era invece il segno tangibile di come i fascisti stessero già pensando al dopo, e a nascondere se stessi e le loro malefatte.

È dunque comprensibile che nei quotidiani scontri che si susseguirono in quel territorio, la resa dei conti fosse gestita non solo con le modalità istituzionali delle organizzazioni facenti capo al ai CLN – verso le quali spesso gli ex camerati tentavano la mediazione attraverso la chiesa -, ma anche su un piano più individuale: venivano colpiti quei personaggi che, all’interno del potere e attraverso il potere fascista, avevano attuato concreti disegni criminali di persecuzione e super-sfruttamento nei confronti dei contadini e del proletariato delle città. E che ciò accadesse, lo si constatava chiaramente dalle sentenze “anonimamente” emesse ed eseguite, e dai morti che di tanto in tanto venivano trovati tra i campi o sui cigli delle strade. Mai, per ricordo personale, vi fu da parte di quei contadini, anche privatamente parlando, un accenno di critica per quelle esecuzioni. Anzi, proprio dal racconto individuale si scoprivano i misfatti dei giustiziati.

Del resto, c’era la guerra, e il nemico per noi non era lo straniero contro il quale i soldati italiani erano stati mandati a combattere. Non lo era per comunisti e socialisti, che avevano fin dall’inizio combattuto il fascismo; ma non lo era più nemmeno per la gente comune, che era stata costretta dalla fame, dagli stenti e dall’oppressione a schierarsi contro il fascismo. I nemici erano proprio i fascisti; e il fatto che fossero italiani contava ben poco.

Quando discutevamo della ritirata dalla Russia, non veniva solo dalle avanguardie e dai comunisti l’idea che fosse una fortuna che la guerra la si stesse perdendo.  “ … la Wermacht è stata fermata a Stalingrado … Continua l’assedio di Leningrado …” le notizie arrivavano con molto ritardo, quando era possibile si ascoltava radio Londra, e a ogni vittoria dei sovietici si tirava un sospiro di sollievo. La guerra si giocava tutta lì: se tedeschi e italiani avessero superato Stalingrado, la situazione si sarebbe spostata troppo a favore dei nazifascisti.

Oggi viene presentato come un fatto assurdo, ma allora non lo era. Si sperava di perdere. Lo speravano, anche se con la morte nel cuore, gli antifascisti, i quali sapevano bene che purtroppo al fronte non vi erano solo mascalzoni in orbace, ma anche ragazzi pieni di idee nuove, contadini, operai, gente nostra, che non erano andati in Russia per combattere “per il Duce e per il Re”, ma che ci si era trovata, spinta dall’infame caso di essere nata in un momento sbagliato. E lo sperava la povera gente, stanca di un regime di oppressione, dove i padroni avevano mano libera e dove non ci si poteva opporre. Tutti intuivano che la sconfitta dell’Italia avrebbe indebolito il fascismo e reso possibile l’insurrezione.

In una guerra, a perderci – si sa – dall’una e dall’altra parte è sempre la povera gente. E certo anche i soldati italiani andati fin lì erano povera gente, finita nelle fosse comuni, uccisa dalle pallottole, dal gelo, dalla fame, dalle condizioni inumane di una prigionia in un paese, come la Russia, distrutto, ridotto alla miseria più nera, e stretto in una morsa di ghiaccio. E tra loro molti, soprattutto durante la ritirata, incominciavano finalmente a capire di stare dalla parte del torto, di essere aggressori, e che perciò avevano avuto contro non solo un esercito, ma un popolo intero.

È anche vero che tra loro non furono pochi quelli che si rifiutarono di eseguire l’ordine impartito dai comandanti tedeschi e italiani di non fare prigionieri e di uccidere durante i combattimenti quante più persone possibile, anche se ferite, anche se impossibilitate a difendersi. Era così la “campagna di Russia”: e noi che qualcosa l’avevamo intuita dalle notizie rubate alla radio clandestina, noi che poi sapemmo tutto al ritorno dei primi disertori e che conservammo come una reliquia il volantino bilingue lanciato sopra le linee italiane dall’Armata Rossa in cui si invitava alla diserzione, noi accogliemmo con gioia sia il ritorno dei soldati italiani, sia la definitiva e determinante sconfitta delle truppe tedesche e italiane in Russia.

Questi ricordi sono pian piano diventati in me tutt’uno con la storia: come momenti amari ma anche esaltanti, comunque strettamente legati e connessi alle tragedie del fascismo e della guerra. Così la Resistenza ha con gli anni cessato di essere il vissuto immediato e concreto nella mia fanciullezza ed è stata per me possibile collocarla dal punto di vista politico nella giusta luce: come un moto democratico, e non dunque una rivoluzione incompiuta, all’interno del quale i partiti che dettero configurazione e assetto alla Repubblica – la DC, il PCI, il PSI e gli azionisti – parteciparono a pieno titolo ognuno con la propria posizione, rappresentata poi, in forma mediata ma riconoscibile, all’interno della Carta Costituzionale.

Acqua passata, si direbbe. E invece…

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