Alcune precisazioni sullo slogan “pace, pane, terra”

di Giovanni Pierozzi

Il primo punto che vorrei sottoporre all’attenzione collettiva, a proposito dello scontro tra le grandi potenze, sono le ragioni economiche del contrasto tra gli imperialismi sviluppatosi da venti, venticinque anni a questa parte. Ritengo, in particolare, che occorra prestare maggiore attenzione a quanto è successo negli ultimi decenni in Cina.

Di fatto, la Cina si è costruita come potenza mondiale evitando totalmente gli errori della vecchia Unione Sovietica. Si è linearmente aperta al mercato globale, conseguendo posizioni di dominio e accettando sul mercato esterno le leggi capitalistiche internazionali; parallelamente ha stabilito al proprio interno norme molto rigide di gestione della produzione, dei cicli produttivi e della manodopera, sicché abbiamo assistito a un curiosissimo fenomeno: alla scelta dei Paesi cosiddetti “occidentali”, in primis gli Stati Uniti d’America, di aprire pienamente le transazioni internazionali alla Cina, con la speranza di riempire il mercato cinese con le proprie merci e i propri investimenti, non ha corrisposto alcuna vera ‘reciprocità’ delle dinamiche di scambio.

Oggi la Cina può vendere senza problemi in America, in Italia e negli altri Paesi dell’Occidente, come noi, almeno in teoria, potremmo tranquillamente vendere in Cina. Solo che, sul piano reale, pressoché nessuno dei prodotti che dall’Occidente si indirizzano verso il gigantesco mercato cinese è effettivamente in grado di competere con quelli realizzati sotto la spinta delle ferree regole del capitalismo cinese. E se alla fine la produzione occidentale fisserà a 100 i prezzi, perché non può scendere ulteriormente, succederà immancabilmente che i cinesi riusciranno a vendere a 10.

E forse è bene precisare che se l’Occidente vende meno della Cina e arranca sui mercati, non è a causa di una particolare cattiveria, e neppure di una particolare disonestà commerciale dei competitors cinesi. Basta guardarsi intorno per capire l’espansione globale della produzione cinese. Siamo letteralmente circondati da merci di qualsiasi tipo (di bassa, media e alta tecnologia): l’industria cinese, costantemente sostenuta dalla Banca Popolare di Cina, la banca di Stato, riempie continuamente il mercato mondiale con robe che prima erano semplici copie, poi bellissime copie e adesso sono prodotti del tutto originali.

Non è un mistero per nessuno che i cinesi siano ora modernamente organizzati e dispongano di centinaia di efficienti Università e strutture di ricerca. Non è un mistero che nel 5G mondiale siano i principali attori, e rischino addirittura di essere tra poco gli unici produttori di hardware per le comunicazioni. Proprio sul nuovo 5G, ad esempio, hanno ben pochi competitor, e neanche americani: la Ericsson svedese, la Nokia norvegese. I grandi nomi americani delle telecomunicazioni mobili sono semplicemente scomparsi in questa ultima ‘guerra commerciale’. E se nessuno sente parlare di vera competizione sul 5G, di un 5G Motorola in competizione col 5G di Huawei, è per il semplice motivo che non esiste più una linea produttiva americana in questo campo. Motorola fa oggi altre cose.

In effetti, dal punto di vista economico, sono solo due le superpotenze mondiali: gli Stati Uniti da un lato e la Cina dall’altro. Sia come tecnologia e sia come rapporti economici e finanziari a tutti i livelli. Soprattutto sono loro che detengono le tecnologie più avanzate. La Cina, lo ripeto, non è un gigante alla maniera della vecchia Unione sovietica, che aveva le bombe atomiche e lasciava andare in malora tutto il resto. Al pari, e forse più degli USA, i cinesi spaziano dappertutto: possono andare su Marte come possono vendere, per riprendere l’esempio di prima, il 5G a tutto il mondo.

Per giunta, hanno applicato una regola di conquista del mondo attraverso i soldi anziché con le armi. Non risulta che la Cina sia oggi coinvolta in conflitti. Il che non significa che sia assente dallo scacchiere mondiale, ma vi opera con uno stile molto preciso di ‘nuovo imperialismo’. Tende a controllare, di fatto, diversi Paesi del Terzo Mondo con la tecnica del cosiddetto “scambio mutualmente vantaggioso”: io vi costruisco le strade e voi mi date accesso alle fonti energetiche del vostro paese. È un imperialismo molto interessante da analizzare. E, poveretto chi ci capita, si rivela anche straordinariamente efficace. In breve: è metodologicamente diverso, ma assolutamente identico, nei risultati, al suprematismo americano.

Io penso, dunque, che se non consideriamo attentamente la contrapposizione USA/Cina sul versante dell’imperialismo economico verrebbe meno un tassello fondamentale per capire la stessa guerra in Ucraina. Peraltro, proprio a proposito di questa guerra, se si guarda un poco lo scacchiere mondiale appare abbastanza evidente come il mondo sembra dividersi in due parti, che del resto erano parti già note almeno una dozzina di anni fa: da un lato, gli USA, l’Inghilterra e l’Europa; e, dall’altro, non la Russia e la Cina semplicemente, ma l’insieme  dei Paesi che allora, 12 anni fa, tutti gli economisti occidentali chiamavano ancora “paesi emergenti” e li indicavano con la sigla BRIC, che sta per Brasile, Russia, India e Cina. Ebbene, questi Paesi, e diversi altri simili a loro, dove stanno, dove si collocano oggi rispetto alla guerra in Ucraina?

La divisione economica del mondo, messa in evidenza dallo stesso Fondo monetario internazionale nel 2010, è di fatto la stessa che si profila oggi. E, d’altra parte, in un Mondo che resta comunque diviso per interessi ed economie nazionali, se le  contraddizioni non si risolvono a livello di mercato, tenderanno spontaneamente ad evolvere, come ci ammaestra da secoli la storia, sul piano bellico. Tanto più che le ideologie nazionalistiche sono sempre attive e vogliose di attivarsi.

Io ritengo che come LEF, e come persone che intendono contrastare la guerra, dovremmo essere netti: nessun nazionalismo può essere definito, seppure tra virgolette, “simpatico”. Tutti i nazionalismi sono o motivo di guerra o motivo di risposta guerriera alle guerre cominciate da altri nazionalismi. Lo spirito nazionale ha certamente mobilitato le masse all’inizio delle lotte di liberazione, ma poi alla fine, poiché il nazionalismo di oggi si alimenta continuamente della cultura borghese e dell’economia capitalistica, è immancabilmente successo che anche i nazionalismi “più belli”, quelli che hanno avuto tutta la nostra solidarietà giovanile – esempio eclatante, il Vietnam – hanno proseguito la loro parabola ricostruendo proprio le ingiustizie del capitalismo, e sono ora aggressivi coi vicini.

Ovviamente, tutte le battaglie fatte a sostegno della lotta dei vietcong, io le rifarei stasera stessa. Ma ciò non toglie che si trattava di un nazionalismo che si scontrava con uno specifico imperialismo ed era supportato da un altro imperialismo, o social-imperialismo se si preferisce. Non può stupire, in sostanza, se sia poi diventato il Vietnam di oggi, che è tutt’altro dall’auspicato modello di società di “liberi e uguali”.

In queste settimane, poiché tra le loro file ci sono anche combattenti con la svastica, ci è venuto più facile individuare, nello spirito col quale gli ucraini si contrappongono alla Russia, la logica nazionalista; così come cogliamo nella jihad islamica l’integralismo nazional-religioso contrapposto all’occidentalizzazione imperialista. Ma, in effetti, gran parte delle lotte di librazione dei Paesi del Terzo Mondo hanno avuto come qualificazione principale il nazionalismo e non il socialismo. Ed è questo un dato importante per capire anche le dinamiche attuali, poiché in una guerra tendenzialmente mondiale, confluiranno molte spinte e molte ragioni. E noi dobbiamo saperle contrastare tutte.   

A tal proposito, lo slogan “pace, pane, terra” va bene, ma dovremmo declinarlo in termini moderni, con riferimento all’attuale divisione dei mercati e del mondo del lavoro, che poi in realtà operano tutti allo stesso modo. Ad esempio, oggi c’è un controllo perverso, del tutto avulso dai bisogni reali, per quanto concerne l’alimentazione; e l’effetto di tale controllo è la grave carenza di alimentazione in larghe parti del mondo. Viviamo in un mondo in cui, per la logica stessa del capitalismo, non c’è affatto la necessità, e neppure la voglia, di costruire un controllo positivo sul ciclo della produzione alimentare, tale che almeno garantisca la sopravvivenza a tutti, seppure con lo squilibrio della sovrabbondanza per alcuni. Lo stesso controllo dei cereali – il vero e proprio ‘pane’, e non solo – viene usato da chi lo detiene come un’arma di ricatto. Inoltre, nella catena distributiva si determinano continue strozzature che impediscono non l’alimentazione equa, ma anche quella semplicemente ‘accettabile’.

Voglio dire, in altre parole, che tanto a proposito del ‘pane’, quanto a proposito della ‘pace’ e della ‘terra’ dobbiamo essere consapevoli del mondo ingiusto davanti a noi, che in partenza impedisce tanto la sufficienza alimentare, quanto il silenzio delle armi e l’amicizia umana con la Natura. E questo senza aggiungere che in un mondo diviso, schematicamente, tra il blocco del BRIC e affini, che ormai detengono forse più della metà del potenziale mercato globale, e gli Stati del blocco occidentale, ci sono più Paesi per ciascuna parte che hanno la bomba atomica. In quello occidentale: USA, Francia, Gran Bretagna e Israele, e nell’altro Russia, India, Cina. E ad essi si aggiungono il Pakistan e forse il Sudafrica, di incerta collocazione. Tutti con la bomba atomica.

Poi, ovviamente, c’è l’arsenale immenso delle armi cosiddette convenzionali, che però sono sempre meno convenzionali. Ed è proprio quello che viene eufemisticamente chiamato il mercato convenzionale delle armi ad alimentare incessantemente le guerre. Avviene perché il ritorno ciclico degli investimenti resta comunque fondamentale per la produzione capitalistica, e non si possono produrre le armi solo per fargli fare la muffa. Anzi, dobbiamo considerare con molta attenzione il fatto che proprio la produzione di armi rimanga uno dei settori trainanti di tutte le economie avanzate, ad Est come a Ovest; e che, più in generale, la produzione delle armi si situa saldamente, in modo organico, contro la battaglia per la pace, così come la filiera capitalistica dell’alimentazione si contrappone naturalmente al bisogno universale di “pane”.

Ma anche il terzo punto dello slogane “Pace, Pane e Terra” va affinato, poiché la parola “Terra” non significa solo ‘ambiente naturale’; e la stessa questione ambientale si intreccia con la questione energetica. Anzi, similmente alle dinamiche già viste per la ‘pace’ e per il ‘pane’, avremo una tendenza spontanea non solo in direzione della attuale “ingiustizia ambientale”, ma anche verso l’aggravamento costante delle tensioni sotto forma di corsa al controllo delle fonti energetiche. Quante già sono state le guerre scatenate per il controllo di gas, petrolio e minerali vari? Le stesse energie alternative non vengono affatto concepite come un vantaggio per l’umanità ma sono già ora terreno di conquista.

Voglio dire che quandanche ci fossero sufficienti fonti energetiche alternative, rimarrebbe comunque la corsa perversa, nell’attuale sistema sociale, al loro effettivo controllo e all’annientamento brutale della concorrenza. Commercialmente se possibile, con altri mezzi se necessario. D’altronde, allorché il cosiddetto ‘mondo occidentale’, simulando qualche scelta formalmente ecologista, ha duramente redarguito la Cina perché continuava ad inquinare, ha subito avuto da Pechino, così come da Nuova Dehli e altre capitali dei Paesi cosiddetti emergenti, una secca risposta: “Signori miei, per il vostro sviluppo voi avete inquinato per un secolo e mezzo. Con che diritto volete proibire a noi di farlo per un quarto di secolo?”

Insomma, per concludere, noi facciamo bene a indicare una chiara prospettiva di mobilitazione attorno allo slogan “Pace, Pane, Terra”. Ma dobbiamo accompagnarlo, pur senza porla come una discriminante, con una costante e intensa riflessione su quanto pesino, nell’attuale drammaticità del mondo, le contrapposizioni economiche continuamente e ovunque alimentate dal sistema capitalistico. E su come sia sostanzialmente impossibile un mondo più giusto e umano all’interno degli attuali assetti sociali.

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