di Robert Havemann
È una biografia straordinaria e complicata quella di Robert Havemann, politico, scienziato e filosofo marxista, morto a settantadue anni, nell’aprile del 1982, agli arresti domiciliari in un minuscolo villaggio del Brandeburgo, nella DDR, la Repubblica democratica tedesca, la Germania orientale dell’epoca della guerra fredda. Aveva scelto di vivere lì nonostante fosse osteggiato dal potere che si proclamava “comunista”, e regolarmente perseguitato a partire dal 1956.
Nel 1964, all’indomani delle sue “scandalose”, affollatissime lezioni alla Humboldt-Universität di Berlino sulla filosofia della scienza (poi pubblicate in Germania Ovest col titolo Dialektik ohnr Dogma? Naturwissenschaft und Weltanschauung, e in italiano da Einaudi, con prefazione di Cesare Cases: Dialettica senza dogma. Marxismo e scienze naturali), veniva espulso dal Partito e licenziato dall’università, dove da anni dirigeva il prestigioso Istituto di chimica fisica. La motivazione fu l’aver concesso un’intervista ad un giornale della Germania Ovest. Continuò a criticare il regime, e nel 1976 venne processato e messo agli arresti domiciliari.
Non era la prima volta che conosceva la prigione. Durante il periodo nazista era stato condannato a morte per la sua attività cospirativa contro la dittatura hitleriana e si salvò solo perché era già allora uno scienziato importante per i suoi studi sulle proprietà magnetiche delle sostanze e sulle reazioni chimiche indotte dalla luce nella materia. I nazisti pensarono che quei suoi studi potessero tornare utili allo sforzo bellico e gli allestirono un laboratorio nella prigione, rinviando la sua esecuzione di mese in mese.
Oggi quasi nessuno lo ricorda. Ed è un peccato.
Pensiamo perciò di fare una cosa utile per le nostre lettrici e i nostri lettori proponendo alcune pagine dal libro “Un comunista tedesco”, edito in Italia da Einaudi nel 1980. Si tratta di un’intervista a distanza, raccolta dal giornalista tedesco occidentale Manfred Wilke nel 1978. Allora, dopo l’espulsione dal Paese del suo amico Wolf Bierman, Havemann era rimasto l’unico intellettuale dissidente di fama mondiale nella DDR. Seppure agli arresti domiciliari, non gli veniva impedito di ricevere posta. Così, il giornalista inviò per iscritto le domande e Havemann rispose alla stessa maniera. Ne nacque una bella e intensa autobiografia intellettuale, ancora oggi piena di vigore.
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Il nostro gruppo, che più tardi avrebbe preso il nome di Europäische Union, era naturalmente molto piccolo agli inizi. Si proponeva compiti molto limitati, essenzialmente quello di sistemare i clandestini. Avemmo, in particolare, cura di molti ebrei la cui vita era in pericolo: trovammo loro alloggi segreti, procurando loro documenti falsi. Avevamo conosciuto un funzionario della polizia giudiziaria che veniva da Wilhelmshaven e che stava spesso a Berlino a perdere i suoi soldi al casinò. Era molto avvilito, e per noi molto utile. Infatti, all’inizio della guerra, durante un bombardamento aereo inglese, l’anagrafe di Wilhelmshaven era andata distrutta e con essa tutti i documenti che vi si trovavano. Era perciò molto facile trasformare qualunque persona in un cittadino di Wilhelmshaven e fornirgli i relativi documenti; non c’era possibilità di controllo. Era ciò che faceva questo funzionario. Attraverso quest’uomo potremmo così fornire a molta gente carte d’identità e tessere di riconoscimento assolutamente autentiche. Non so a quanti abbiamo salvato la vita in questo modo …
Il lavoro vero e proprio come gruppo di resistenza cominciò quando Groscurth conobbe una dottoressa sovietica, capitata per motivi di lavoro all’ospedale Moabiter, dove egli lavorava. Groscurth seppe da lei che contro la sua volontà era stata portata in Germania dalle truppe tedesche e che era stata in uno dei campi di lavoro per stranieri ormai numerosissimi Germania. In questi Lager c’erano molti gruppi antifascisti, che cercavano contatto con gruppi tedeschi. La Europäische Union nacque dal lavoro congiunto fra i gruppi di lavoratori stranieri di questi lager e il nostro, che intanto avevamo potenziato e ampliato. Facemmo anche dei volantini, alcuni dei quali furono pubblicati dopo la guerra. E poiché ci eravamo procurati molte aderenze all’interno di comandi nazisti, potevamo anche informare tempestivamente i Lager di rastrellamenti che si stavano preparando. Diffondere informazioni e mettere in guardia persone fu la nostra attività principale fino al momento in cui fummo scoperti per colpa di una spia. La maggior parte dei tedeschi del nostro gruppo fu arrestato dalla Gestapo il 5 e 6 settembre 1943. In seguito, anche molti lavoratori stranieri vennero arrestati, e come noi condannati a morte.
Gli interrogatori ebbero luogo alla Prinz-Albrecht-Strasse, dove fui portato anch’io e messo nella cella 24, nello scantinato. Durarono fino a metà novembre, cioè circa due mesi e mezzo. Mi era chiaro fin dall’inizio, naturalmente, che la pena alla quale saremmo stati condannati era una sola. Potevo quindi tenere un atteggiamento molto netto. Quelli della Gestapo cercavano in continuazione di suscitare in me delle speranze. Chi mi interrogava diceva sempre: «Non finirà mica col girare con la testa in mano!» E io replicavo: «Beh, voi condannate a morte la gente solo perché ascolta radio nemiche, e lei può ben immaginare che io non contesto di avere ascoltato attentamente le cosiddette emittenti nemiche».
All’inizio subivamo naturalmente dei maltrattamenti, provano sempre con questi mezzi come prima cosa. Ho subito pensato che fosse sbagliato reagire in qualunque modo ai maltrattamenti. Da altri ho saputo in seguito che coloro che reagivano venivano maltrattati ancora di più. Io, al contrario, dicevo a quelli che mi picchiavano e mi torturavano che i loro tentativi di procurarmi dolore erano ridicoli, perché in certe condizioni psicologiche il dolore non si avverte nemmeno, tanto che a un soldato, in battaglia, una palla di cannone può portare via una gamba ed egli non rendersene conto finché non si accorge che improvvisamente non può più correre; e dicevo altri amenità del genere. Penso che fosse molto importante comportarsi in quel modo durante gli interrogatori della Gestapo: dovevo apparire loro senza paura e in qualche modo impressionarli. In simili situazioni è necessario che le persone alle quali viene perpetrata un’ingiustizia suscitino un enorme rispetto. Si possono così tenere in qualche modo gli aguzzini a distanza, e determinare in qualche misura il corso degli avvenimenti.
Mi forzavo sempre di capire che cosa la Gestapo era venuta a sapere dagli interrogatori degli altri membri del gruppo. Riuscii a formarmi un quadro, all’inizio naturalmente pieno di lacune, aggiungendo per via di congetture (certo, poco o nulla dimostrabili, ma comunque credibili) quello che mancava. Quando finivo di parlare, quello che mi interrogava era sempre molto contento, cosa che però di solito non durava troppo a lungo. Ciò che avevo detto era infatti spesso in stridente contraddizione con le dichiarazioni di altri prigionieri. Allora mi ammanettavano di nuovo e l’interrogatorio ricominciava, con la pistola sul tavolo, di nuovo senza sicura e col caricatore in mostra, e con altri simili tentativi di intimidazione…
Al termine dell’interrogatorio ci riportavano nel carcere di Brandeburgo, nella nostra qualità di detenuti sotto inchiesta. Là non ebbi mai alcuna notizia di un atto d’accusa. Il giorno prima di essere trasferiti a Berlino per comparire davanti al tribunale del popolo mi misero in mano un foglio: era un mandato d’arresto provvisorio. Non avevo ancora mai visto niente del genere. Mi si comunicava che ero in arresto sulla base di stringenti sospetti per attività di alto tradimento.
A Berlino – arrivammo a Moabit – venne da me un uomo che si presentò come difensore d’ufficio, con in mano un documento, l’atto di accusa, che potei solo sbirciare senza poterlo tenere in mano. Il processo fu una pura farsa. Il presidente era Freisler. Il mio difensore prese la parola solo una volta e cioè quando, terminato il procedimento, fu invitato a tenere il discorso di difesa. Disse soltanto: «I delitti del mio difeso sono così gravi che l’unica pena possibile è quella capitale». Poi si rimise a sedere, aggiustandosi in tasca i 1500 marchi che mio padre gli aveva dato nella speranza che potesse fare qualcosa per me.
Mi fu subito chiaro che per me c’era una sola possibilità di salvezza bisognava convincere in qualche modo i nazisti che io potevo essere loro utile per la guerra con il mio lavoro scientifico…
Accadde proprio così e ai primi di maggio del 1944 finalmente fu allestito un laboratorio per me, con fondi dell’esercito, nel penitenziario di Brandeburgo, dove mi trovavo. L’allestimento del laboratorio mi consentì di avere contatti con i miei compagni del Partito comunista, che da molti anni avevano organizzato un gruppo di resistenza all’interno della prigione, molto attivo e ben funzionante, e di cui ero a conoscenza anche prima.
Lavoravo regolarmente adesso nel laboratorio che rappresentava per me l’occasione concreta per salvarmi la vita. L’inizio del lavoro fu però offuscato da un avvenimento terribile: sentii dire che i compagni e gli amici condannati insieme con me erano stati giustiziati. Lo venni a sapere durante la cosiddetta ora di libertà. Durante quell’ora, da solo, venivo condotto da un funzionario della prigione in uno dei grandi cortili del penitenziario. Un po’ in alto, su una scala, c’era un altro di questi funzionari, e io passeggiavo lungo un corridoio pavimentato. Un giorno, mi pare il 9 maggio 1944, durante una di queste ore di libertà l’uomo della scala mi disse, mentre gli passavo accanto: «Beh, Groscurth se n’è andato». Fui preso dal terrore senza capire cosa volesse dire. Con Groscurth non avevo contatti da molto tempo. Al massimo dell’agitazione continuai a camminare, feci un altro giro e mi fermai ancora: «Cosa vuol dire andato?» Questi fece allora con la mano il gesto di tagliare la gola. Fu così che seppi …
Nel laboratorio avevo avuto il compito di elaborare un procedimento ad alta sensibilità per determinare la presenza di fluoro in quantità minime di materiale organico. Questa ricerca chimico-analitica, apparentemente innocua, aveva invece un grande interesse bellico: i nazisti disponevano infatti di un gas venefico che colpiva il sistema nervoso, e che era un composto del fluoro. Avevo già sentito parlare di questo terribile veleno, e poiché nella mia competenza rientrava anche questa ricerca, che aveva carattere di assoluta priorità, Wirth poté ottenere un rinvio della mia esecuzione di sei mesi, che più tardi venne prolungato di altri due mesi. Stranamente non provavo una reale paura …
La mia occupazione principale era quello di costruirmi un ricevitore a onde corte, di installarlo tra le mie apparecchiature scientifiche in modo da non farlo riconoscere, sedermi in un angolo sicuro con una cuffia e cercare di ricevere le notizie, quelle della Bbc, di intercettare i rapporti della Wehrmacht e anche Radio Mosca e altre trasmittenti clandestine, che si potevano sentire allora. Con quello che venivo a sapere feci un giornale che, con l’aiuto del gruppo del partito, si diffuse nel penitenziario attraverso vie prestabilite, e informò tutte le persone più importanti della nuova situazione della guerra e dei possibili sviluppi politici. La cosa era per noi di grande importanza: lo era soprattutto per il partito e per i prigionieri politici, perché così non si correva il rischio di essere trascinati in azioni sconsiderate, che potevano diventare molto pericolose, da quelle voci che si chiamano «voci di latrina». Avevamo ad esempio ricevuto notizie allarmanti dal penitenziario di Sonnenburg, dove un piccolo commando di SS aveva ucciso a freddo 700 detenuti politici all’arrivo delle truppe sovietiche.
Eravamo preparati a una simile evenienza: io avevo dato il mio aiuto per la fabbricazione di candele fumogene con adamsit, un gas tossico che provoca una forte irritazione del naso e delle vie respiratorie e che genera il panico in chi ne è colpito perché non capisce cosa gli sta succedendo. Avremmo potuto probabilmente organizzare una rivolta, forti di queste candele. Mi ero inoltre procurato del materiale esplosivo tra i miei prodotti chimici, con l’idea di far saltare il portone principale e quello che dava sulla ferrovia sotto il penitenziario. Costruii anche una macchina per il suicidio, che funzionava sulla base di cianuro di potassio e di acido, che liberava acido prussico. Grazie a Dio non dovremmo fare alcun uso di tutto ciò.