Le domande

di Fernando Iannetti

A 18 anni di distanza si coglie con nitidezza il grande vuoto lasciato da Fernando Iannetti, filosofo e militante che ha attraversato con passione e partecipazione le lotte e le sconfitte delle classi popolari nella seconda metà del XX secolo.

Indirizzato alla ricerca da Aldo Masullo, Nando Iannetti ha collaborato con Galvano della Volpe, Lucio Colletti e Henri Lefebvre sui nodi decisivi del marxismo critico. Ma ha anche ragionato sulle caratteristiche del Mezzogiorno d’Italia con Claudio Napoleoni e lavorato sui temi del linguaggio e dell’inconscio con Jaques Lacan, Gilles Deleuze e Felix Guattari. Prigioniero politico, poi assolto, nelle carceri speciali, è stato anche operatore volontario con i detenuti, politici e non, alternando l’insegnamento di Storia della filosofia all’Università di Salerno con un’apprezzata attività di psicanalista.

Ma Nando è stato soprattutto un comunista intrinsecamente eretico, capace di porsi e porre domande difficili, e però sempre accompagnandole con proficue piste di ricerca e approfondimento.

Ci manca davvero la sua intelligente ironia, la sua tenera determinazione. Ci manca tantissimo la sua vastissima cultura e la sua assoluta disponibilità all’ascolto.

Al pubblico di LEF, proponiamo una breve pagina dal libro, ottimamente curato da Giovanni Sgrò, “Derive del desiderio e metamorfosi del soggetto” (editore Cronopio, Napoli 2012), che raccoglie quattro saggi di Iannetti e due sue splendide poesie.

Qui riportiamo il paragrafo introduttivo del quarto saggio (Derive del desiderio: l’incanto dei narcisi contemporanei nella società senza padre).

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Che ne è del soggetto? Del soggetto capace di progettare – sognare oltre -, inventare il tempo nuovo, rammemorare passato, attraversare il presente sapendolo come storia comune, e desiderare con l’altro sempre e sempre di nuovo?

Che ne è dell’io, quando l’angoscia chiede riparo soltanto nella ripetizione senza frattura, e la salvezza soltanto nell’appagamento immediato del bisogno si nasconde, che pre-tende subitanea sazietà?

Che ne è del tempo, e della nostra finitezza, quando questa si perde entro il paesaggio stregato del mondo delle merci e della loro spettacolarizzazione, quando l’alienazione dell’uomo e del suo lavoro tende a diventare perdita secca e senza risarcimento possibile del tempo di vita, anche del tempo di non-lavoro, del cosiddetto tempo libero?

Come può ancora la vita dei singoli incrociarsi con quella della storia senza perdersi nella banalizzazione della quotidianità, nella impersonalità del “Si”? Senza disgustarsi, e porre a distanza da sé i modelli della vita adulta quotidiana, vita da rapaci servi, già da sempre approntati e adattati da una parte e dall’altra al dominio e alla mancanza di senso?

Perché pare che il tragico, che non è una malattia, non appartenga più alla nostra vita? da cui sembra essere fuggito con l’azzurro del cielo, e la sua forma pare ormai quella della banalità e della ripetizione, o della malattia da “curare”, quando l’antica insecuritas si presenta nella forma della mancanza di sicurezza (enfatizzata e moltiplicata dai media e dai politici ottusi e incoscienti), a cui unico riparo pare essere la pistola sotto l’ascella con i morti per le strade?

Dove fugge la memoria, la “trama dell’anima”, il ricordo? Che «è innanzitutto un ri-accordo che dalla dispersione genera unità, e nell’unità rintraccia quell’identità soggettiva e oggettiva che la ragione occidentale ha chiamato “io” e “mondo”». Sia l’Io che il Mondo «non sono dati di realtà, ma costruzioni della memoria»[i], appunto.

Costruendo Io e Mondo, la memoria dischiude quell’apertura al senso da cui è escluso l’animale che, senza memoria, e senza parola, non sa dire di sé e del mondo che lo circonda. È proprio la presenza della memoria, la temporalizzazione dell’esperienza – la sua storicità – che apre l’uomo alla ricerca del senso. Questa ricerca può accadere a due livelli, entro due modalità dell’umano comprendere: in terza persona, con i modi e le categorie della ragione; o in prima persona, con i modi e le categorie del patico, della passione. E la nostra storia, con quel che resta della storia del nostro mondo, possiamo coglierla attraverso l’appassionata prossimità ad essa – che da dentro ci costituisce -, che è prossimità al tempo che divora e al tempo che inventiamo, all’altro che domina ed esclude o sottomette, o che con noi lavora e immagina e lotta, che è prossimità appassionata al nuovo che avanza, pur attraverso il nostro soggettivo patire e il farsi impersonale della storia nei modi della legge economica, della legge politica, o del costume e dell’entusiasmo, o della disperazione rassegnata.

Qui solo, di nuovo, può ri-nascere l’esperienza del tragico e del senso; da questo luogo del soggetto che resta, e ha parola, ancora, la storia può essere considerata nella sua massima conflittualità, proprio nel luogo dove il tutto e i singoli si contraddicono e stridono dolorosamente, finché c’è ancora del soggetto, e l’alienazione – la perdita di sé o il soddisfacimento ottuso di “bisogni” naturalartificiali – non abbia ancora del tutto negato quel soggetto e la sua costitutiva paticità, e finitezza, e capacità di autotrascendimento verso l’altro, e verso il domani, almeno.

Adorno, criticando radicalmente la separazione tra sociologia e psicologia (come false scienze se costruite nella reciproca separatezza), aveva scritto: «La separazione di società e psiche è falsa coscienza; perpetua a livello categoriale la scissione fra il soggetto vivente e l’oggettività che governa sui soggetti, e tuttavia ne deriva»[ii]. Egli riteneva che fosse legittima tuttavia una ripartizione del lavoro scientifico tra sociologia e psicologia, a patto che venisse mostrato l’antagonismo obiettivamente esistente fra l’elemento sociale e l’elemento individuale: «nessuna sintesi scientifica futura potrà unificare ciò che per principio è scisso»[iii].

Da un lato abbiamo una scissione oggettiva tra individuo e società, dall’altro questa scissione si produce proprio come forma specifica di relazione, per cui l’individualità è costituita intimamente dalle forme dei rapporti sociali, e questi ultimi sono a loro volta costituiti dagli aspetti antropologici della vita degli individui, stratificati culturalmente e simbolicamente nel corso del tempo: gli uni e gli altri costituiscono la storicità dell’umano. Perciò si è potuto dire, nella VI Tesi su Feuerbach: «L’essenza umana non è qualcosa di astratto che sia immanente all’individuo [“l’essenza” che lo abiterebbe ne farebbe un Uomo, F. I.]. Nella sua realtà essa è l’insieme dei rapporti sociali».

Qui, in Adorno e in Max, troviamo un discorso fondativo di pratiche teoriche, di operazioni scientifiche. Un altro discorso, ma a questo richiamantesi, per meglio tentare di raccordare senso e non senso dell’umano esistere, per coglierne la dimensione di permanente drammaticità, ma anche di tragicità, è quello che lancia Rossana Rossanda, come un lamento, o un grido:

“In questa finitezza dell’io nel tempo e nello spazio sta l’elemento tragico, in senso proprio irrisolvibile, dell’impossibile identificazione tra persone e società, politico e personale. Nessuno dei grandi meccanismi che surdeterminano la mia esistenza, nessuno degli ingranaggi storici in cui sono irrimediabilmente inserita, darà ragione di me; essi non sono la mia identità. Ma non posseggo un’identità che non si poggi nella relazione di accettazione, rifiuto, mediazione con essi. Un valico insormontabile sta tra l’interpretazione che diamo della storia, come memoria e sapere il significante, e il vissuto di coloro che l’hanno attraversata; essa è sempre più e sempre meno delle biografie.”[iv]

Come si capisce bene, qui c’è una posizione per la quale la considerazione dei processi esistenziali dei singoli si compie solo se li articoliamo con la comprensione dei processi storico-sociali, e se siamo consapevoli tuttavia che in questi i primi non si esauriscono.

NOTE


[i] Umberto Galimberti, Psiche e téchne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 2004, p. 75.

[ii] Th. W. Adorno, Sul rapporto di sociologia e psicologia (1955 ), in Scritti sociologici , Einaudi, Torino 1976, p. 37.

[iii] Ivi, p. 42

[iv] R. Rossanda, Anche per me. Donna, persona, memoria dal 1973 al 1986, Feltrinelli, Milano 1987, p. 67.

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