Una importante discussione
Le “Sette tesi sull’auto-organizzazione” proposte dalla rivista LEF affrontano temi che vengono discussi in varie parti del mondo. In forma avanzata nel Chiapas degli zapatisti e nel Rojava dei Confederalisti Democratici curdi, esse si sono altresì incarnate in alcune politiche messe in atto in Catalogna in quest’ultima decade. E potremmo citare in questo ambito anche la rete, decentralizzata in nuclei locali, del movimento Black Lives Matter, diffusosi negli Stati Uniti a partire dal 2013.
Qui in Brasile (dove risiedo da più di due decadi), esperienze che vanno nella direzione dell’autorganizzzazione crescono dai tempi dei primi Forum Sociali Mondiali di Porto Alegre all’inizio del secolo. Si sono sviluppate poi con le politiche pubbliche dei governi Lula-Dilma (2003-2016), tendenti a promuovere dinamiche partecipative ad ampio raggio, educazione informale dialogica, Economia Solidaria, cooperativismo e associativismo nell’ambito dei Movimenti Popolari, agricoltura familiare agroecologica (anche funzionale al successo della riforma agraria), preservazione ambientale, territoriale, pluriculturale, delle comunità ancestrali.
Più in generale, risulta evidente che una proposta di azione antagonista autorganizzata non può (più) limitarsi alle tradizionali attività prettamente “politiche” di discussione teorica, di studio e approfondimento, di formazione storica, ideologica, di organizzazione di lotte e manifestazioni di protesta, rivendicazioni, difesa dei compagni e compagne, difesa del territorio, occupazioni di spazi, presidi, appoggi a lotte specifiche di lavoratori, di studenti, ecc.
Per far sì che un gruppo, un collettivo, riesca a consolidare una struttura e una organizzazione in forma autonoma e autogestita all’interno di una comunità, i soggetti coinvolti devono occuparsi necessariamente anche di realizzare forme di attuazione in ambito economico, attività che generino risorse – di beni e/o servizi – e che entrino nel flusso di sostenimento del nucleo costituito e diano sussistenza sia ai bisogni individuali di ciascuno che al gruppo stesso.
Per quanto riguarda il mio personale sentire, la sintesi che meglio inquadra l’oggetto della discussione proposta si concentra nei principi espressi nei brani seguenti:
“L’auto-organizzazione possibile del nostro tempo è chiamata a una stringente dialettica di ‘separazione’ e ‘sostituzione’ degli istituti consolidati della società capitalistica, e costruisce perciò un obiettivo dualismo non solo di potere, ma proprio di società. In concreto, si tratta di una autorganizzazione che poggia sulle situazioni determinate e sugli ambiti territoriali specifici; e che si raccorda, come ‘insieme’, in forma non verticale ma reticolare. Se si preferisce, somiglia a una sorta di “confederalità sociale di prossimità”, nella quale confluiscono pratiche solidaristiche, conflitti sociali, proposte di riassetto delle relazioni umane attorno ai temi che attengono ai corpi, agli affetti, alle culture e alla natura. In sostanza, l’autorganizzazione di cui stiamo parlando è una critica pratica, giorno per giorno, degli assetti capitalistici e, contemporaneamente, un cammino reale che aiuti a rompere, nell’immediato, la frammentazione e l’isolamento che contraddistinguono il mondo contemporaneo, e che cominci a far argine vero, nella società e non solo nei discorsi, contro la barbarie, l’individualismo e la solitudine. Non si tratta di un passaggio semplice. La sfida si gioca tutta sulla capacità di articolare le pratiche di mutualità solidaristica come risposta efficace a bisogni effettivi; e sta nell’accompagnare tali pratiche con la lotta e la concreta resistenza popolare. E questo occorre farlo soprattutto intrecciando le vertenze nel mondo del lavoro con gli ambiti di vita quotidiana, al fine di sviluppare sentimenti altruistici e contesti di solidarietà” (Tesi n.4).
“Il che implica, detto in breve, che coloro che hanno già maturato consapevolezza delle ingiustizie del mondo evitino di predicare semplicemente la solidarietà e la pratichino per primi. […] Va recuperata la carica sovversiva di quella parola, perché essa è un preciso programma d’azione politica. È una visione non strumentale del mondo ed una concezione non individualistica dei rapporti umani. Proprio come ci insegnano gli zapatisti: “La caridad es humilliante porque se ejerce verticalmente y desde arriba; la solidariedad es horizontal e implica respeto mutuo”. Essere solidali, quindi, tra eguali e diversi, in alternativa alla guerra tra poveri, al razzismo e al darwinismo sociale. In armonia con la nostra Terra e nel rispetto della natura” (Tesi n.5).
“Ci manca tutto, non ci serve niente”
È il concetto simbolo dell’autonomia di una comunità. Ed è anche il principio su cui si basa l’educazione dialogica, che rispetta l’educando, promuovendo l´apprendimento autonomo e maieutico.
Nella sua “Pedagogia dell’autonomia” (1996), Paulo Freire suggerisce che l’educando deve essere stimolato a pronunciare lui stesso in maniera autonoma la parola che nomina la realtà che lo circonda e non invece ricevere nozioni inculcate dal supposto educatore che sopraggiunge da una realtà esterna invasiva e spesso “coloniale”.
Il soggetto educando non deve essere visto insomma come un vaso vuoto da riempire con le parole già da altri precedentemente pronunciate. Solo così sarà possibile che egli partecipi autenticamente al suo processo di formazione e più tardi possa concretamente esprimersi come soggetto autonomo e sovrano nella società e nella politica, esercitando il diritto di decidere del proprio destino.
“E’ difficile ridurre all’obbedienza chi non ama comandare” (J.J.Rousseau)
Dal punto di vista di una comunità, di un gruppo, di un collettivo, un concetto fondamentale per il conseguimento di una reale autonomia è il seguente assioma: “Non copiarlo dagli altri, crealo. Non comprarlo fuori (nel mercato), costruiamolo dentro (la comunità)”.
Altro concetto fondamentale, inoltre, della pratica dell’autonomia e dell’autogestione, è la necessità di relazioni orizzontali in rete con gli altri, tra i soggetti coinvolti nell’agire collettivo, e poi, di conseguenza, della propria comunità con le altre.
In un passaggio cruciale della tesi n.6 su citata, si parla di “pratiche di mutualità solidaristica come risposta efficace a bisogni effettivi”. Per dare un contributo alla riflessione sulle possibilità, le modalità e la sostenibilità di tali pratiche, credo sia interessante valutare lo sviluppo delle esperienze implementate in Brasile nell’ambito dell’Economia Solidale.
Reti di Economia Solidale: l’esperienza del Brasile
In Brasile si sono sviluppate numerose attività di economia informale al fine di far fronte alla povertà ed all’esclusione dalla produzione, provocate dal modello economico selettivo e marginalizzante. Nel corso degli anni, una parte di queste iniziative, sottolineando con sempre maggior insistenza i valori etici ed ecologici, si è trasformata, in diverse regioni, in attività di economia popolare e solidale.
Le pratiche di economia solidale in Brasile hanno una lunga tradizione, benché non abbiano da sempre tale nome. Alla fine degli anni ‘90 nasce l’organizzazione di Reti Solidali come strumento di affermazione di un’altra economia, basata sulla distribuzione della ricchezza, sull’integrazione tra consumo e produzione (con conseguente valorizzazione dell’autogestione) e sulla sostenibilità ambientale e sulla solidarietà. In queste reti, se ben strutturate, i produttori guadagnano di più ed i consumatori spendono meno, perché, limitando i passaggi intermedi e ricostruendo le filiere produttive, le Reti riducono notevolmente i costi e, quindi, il prezzo dei prodotti finali.
A partire dal 1998 si è allargato rapidamente il dibattito sulle reti nel campo dell’economia solidale. In ambito nazionale abbiamo assistito alla fondazione della Rete Universitaria di Incubatrici Tecnologiche di Cooperative Popolari (che garantisce assistenza tecnica e infrastrutture temporanee per l’organizzazione e il consolidamento di cooperative), e anche alla creazione della Agenzia di Sviluppo Solidale del sindacato CUT, Centrale Unica dei Lavoratori (con lo scopo di “coniugare reti di economia solidale con strategie di sviluppo sostenibile” e di favorire l’organizzazione di cooperative di credito diffuse sul territorio).
Da parte sua, l’Associazione Nazionale dei Lavoratori di Imprese Autogestite, che raggruppa imprese che dopo un fallimento sono state riattivate sotto il controllo dei lavoratori, ha dato avvio a Reti di Scambi commerciali e di Conoscenze, integrando tra loro realtà produttive di cui già si occupava. Merita un’attenzione particolare la Rete Brasiliana di Socioeconomia Solidale che, lanciata nel 2000, ha diffuso in tutto il paese la strategia di organizzazione di Reti Solidali.
Le diverse reti realizzano attività di collaborazione e di partenariato in seminari, fiere, incontri e in varie altre occasioni. Viene mantenuta una costante mappatura delle organizzazioni, dei prodotti e dei servizi su scala nazionale; si è costruito un sistema di ricerca via web che permette una facile individuazione di prodotti e servizi solidali in diverse regioni del paese.
Sono disponibili servizi di e-commerce. La circolazione di informazioni attraverso i forum elettronici, pubblicazioni con circolazione nazionale, scambio di tecnologie e la condivisione di materiale didattico e di analisi hanno contribuito notevolmente alla diffusione delle pratiche di economia solidale in diverse regioni. Anche iniziative di interesse regionale e locale si sono consolidate con il moltiplicarsi delle reti, dei forum e dei gruppi di lavoro in diversi stati: sono state realizzate fiere, organizzate botteghe e promosse, tra l’altro, attività educative.
Si moltiplicano corsi, seminari, collettivi di formazione che contribuiscono alla diffusione ed alla qualificazione di queste pratiche. Tra le iniziative di successo si elencano le organizzazioni di cooperative di acquisti collettivi, che coinvolgono centinaia di famiglie e che rendono gli acquisti in media il 20% meno costosi di quelli sul mercato convenzionale. In alcuni casi circa la metà dei prodotti commercializzati attraverso queste cooperative proviene da altri produttori solidali, coi quali si integrano sotto forma di rete ed ai quali assicurano l’assorbimento della produzione.
Le Reti di Economia Solidale: dinamismo, suggerimenti e strategie
Ogni rete, in linea di principio, possiede tre caratteristiche fondamentali:
a) gli elementi di cui è costituita;
b) le connessioni tra questi elementi;
c) i flussi che raggiungono i vari elementi attraverso le connessioni, con la possibilità che tali flussi siano sbloccati, rialimentati, trasformati o interrotti dagli stessi elementi che costituiscono la rete.
Di conseguenza, lo sviluppo concreto di una rete equivale a:
• effettuare la mappatura delle organizzazioni e delle persone interessate a partecipare alla rete;
• stabilire collegamenti permanenti tra queste organizzazioni e persone;
• attivare flussi e scambi reciproci (comunicazione, compra vendita, finanziamento ecc.) in modo da sviluppare sinergie costruttive.
Relativamente agli elementi costituenti, quanto più dettagliata sarà la mappatura della domanda (prodotti finali, processi di trasformazione e altre risorse), delle offerte in grado di soddisfarla e delle risorse che possono essere utilizzate collettivamente per diversificare la produzione e rendere più agile il flusso delle merci e dell’informazione, tanto migliori saranno le condizioni per elaborare un progetto collettivo di sviluppo strategico della rete, nel rispetto dell’autonomia di ogni partecipante.
E quanto maggiore sarà il numero di persone, organizzazioni, imprese, cooperative, etc, che partecipano alla rete e che sono disposte a tenere un comportamento collaborativo con conseguente vantaggio di tutti (di se stessi e degli altri), tanto maggiore sarà la possibilità di sviluppo della rete.
La rete, poi, sarà tanto più solida quanto più sarà in grado di integrare le differenze, pur preoccupandosi di salvaguardare i principi etici ed ecologici che la caratterizzano.
L’obiettivo fondamentale delle Reti di Economia Solidale è quello di ricostruire in maniera alternativa, solidale ed ecologica le filiere produttive:
(a) producendo nella rete tutto quello che le comunità che ne fanno parte consumano ancora dal mercato capitalista (alimenti, prodotti finiti, materie prime, servizi, ecc.);
(b) correggendo i flussi di valore ed evitando di rialimentare la produzione capitalista (cosa che succede quando imprese solidali comprano beni e servizi di imprese capitaliste);
(c) creando nuovi posti di lavoro e distribuendo il reddito, attraverso l’organizzazione di nuove imprese solidali che soddisfino le esigenze delle proprie reti;
(d) garantendo le condizioni economiche necessarie all’esercizio delle libertà pubbliche e private, eticamente esercitate.
Il fatto di reinvestire collettivamente l’eccedente del reddito permette di ridurre progressivamente la quantità delle ore del lavoro di tutti i partecipanti, ampliando il tempo libero, il benessere e i livelli di consumo di ogni persona.
La viabilità di questa alternativa post-capitalista dipende dalla diffusione del consumo solidale, dal reinvestimento collettivo degli eccedenti e dalla collaborazione solidale tra tutti. In una rete, le organizzazioni di consumo, commercio, produzione e servizi si mantengono in connessione permanente di flussi di materiali (prodotti, materie prime, ecc.), di informazioni e di valori, che circolano attraverso la rete. Pertanto, quando reti locali di questo tipo vengono organizzate, le stesse operano nel senso di rispondere a specifici bisogni immediati della popolazione, come il lavoro, un aumento della capacità di consumo, educazione, riaffermazione della dignità umana delle persone e del loro diritto al benessere, allo stesso tempo in cui lottano contro le strutture di sfruttamento e dominio responsabili della povertà e dell´esclusione sociale, e cominciano a mettere in atto un nuovo modo di produzione, di consumo e di convivenza, nel quale la solidarietà è il perno centrale della vita sociale.
Le Reti di Economia Solidale perciò:
(a) permettono di integrare diversi attori sociali in un movimento organico con forti potenzialità di trasformazione;
(b) rispondono a bisogni immediati di questi attori, impiegando la loro forza lavoro e soddisfacendo le loro domande di consumo, in tal maniera affermando ogni singolarità e diversità;
(c) negano le strutture capitaliste di sfruttamento del lavoro, di espropriazione del consumo e di dominazione politica e culturale;
(d) mettono in atto una nuova maniera pos-capitalista di produrre e consumare, e di organizzare la vita collettiva affermando il diritto alla differenza e alla singolarità di ogni persona, promuovendo in forma solidale le libertà pubbliche e private esercitate eticamente.
Cooperative: un’alternativa di organizzazione popolare
I porcospini (di Schopenhauer)
C’erano una volta, all’inizio dei millenni della vita sul pianeta Terra, i porcospini. Vivevano in pace fino a che non arrivò l’era glaciale. L’intenso freddo fece sì che alcuni si accorsero che lo sopportavano meglio se si approssimavano ai propri simili: vicini, il calore scambiato da uno con l´altro mitigava le sempre più basse temperature. Il freddo aumentava e frotte di porcospini cominciarono velocemente a stringersi ad altri per acquisire un poco di calore indispensabile per non morire di freddo. Questo rapido accalcamento cominciò a creare problemi – soprattutto ai porcospini nel mezzo, i cui vicini cominciavano a pungerli con i loro aghi; così i colpiti cominciarono a rivoltarsi e tutti si spinsero di nuovo lontani gli uni dagli altri, per non poter sopportare le punture dei vicini che li stavano uccidendo. Ma – di nuovo lontani, senza il calore dei compagni – i porcospini ricominciavano a morire di freddo. Così nel mezzo dell’era glaciale i porcospini, a poco a poco, con pazienza, si riposizionarono, vicini alla giusta distanza per non pungersi e non morire di freddo. L’era glaciale è passata da tempo e i porcospini sono sopravvissuti e sono sempre là.
Nel corso di secoli di storia, le persone hanno cercato le più svariate forme di convivenza che facilitassero la loro vita e offrissero migliori condizioni di sopravvivenza. Tuttavia, il sistema capitalista, implementato circa 200 anni fa, ha comportato, come una delle sue caratteristiche più contundenti, la competizione individualizzata negli affari e nella sopravvivenza. La ricerca dell’accumulazione di beni e ricchezze in modo privato è venuta a mano a mano, diventando “naturale” nei rapporti umani; e questi, invece di migliorare, sono stati sempre più seriamente compromessi.
Per questo è indispensabile, più che mai, riscattare, rinnovate in modo permanente, le idee di partecipazione, di relazione, di lavoro collettivo, in cui la fraternità, la solidarietà e la buona vita per tutti siano essenziali. È importante riaffermare i vantaggi delle relazioni umane, i benefici dell’aiuto reciproco, la speranza in una società in cui ognuno si realizzi come persona, con gli stessi diritti e le stesse possibilità. In contrasto con il sistema capitalista, le persone più lungimiranti hanno spesso cercato di sviluppare forme di solidarietà e di lavoro collettivo e, a tal fine, hanno cercato di sperimentare nel corso degli anni nuove organizzazioni, per nuovi tempi.
Nel passato millennio, mestieri, corporazioni, sindacati, società, associazioni, mutue, sono stati (e sono ancora) mezzi e strumenti con i quali le persone, accomunate dalla stessa prospettiva o necessità, si sono incontrate e hanno sviluppato attività congiunte, produttive e non, per migliorare la propria situazione di vita. Più recentemente, le cooperative sono diventate, in molti casi la base organizzativa per un viaggio alla ricerca di una società più giusta ed egualitaria. Pertanto, il nostro obiettivo dovrebbe essere quello di riscattare gli aspetti più positivi del cooperativismo, approfittando delle sue potenzialità di configurarsi come un fondamentale strumento di trasformazione delle relazioni umane, della società e dell’economia.
“La stessa novità e rapidità del cambiamento sociale che li ha travolti ha incoraggiato i lavoratori a pensare in termini di una società totalmente diversa, basata sulla loro esperienza e idee rispetto a quelle dei loro oppressori. Sarebbe stata cooperativa piuttosto che competitiva, collettivista piuttosto che individualistica. Sarebbe stata “socialista”, e avrebbe rappresentato non l’eterno sogno di una società libera, che i poveri portano sempre con sé in fondo alla mente ma in cui pensano solo in rare occasioni di diffusa rivoluzione sociale, ma piuttosto una praticabile e permanente alternativa al sistema in vigore”. (Eric J. Hobsbawm, “L’Età delle Rivoluzioni”, 1971)
La solidarietà oggettiva della classe lavoratrice e degli oppressi in tutte le forme
“Da sempre, ciò che mi mantiene operativo e incapace di arrendermi è sapere che la lingua che parliamo – noi povera gente, fottuta – e che il sistema sogna che dimentichiamo è la solidarietà”.
(Guilherme Terreri Lima Pereira, in arte Rita Von Hunty, 2021)
Nel brano su citato della tesi n.5, giustamente si afferma che “coloro che hanno già maturato consapevolezza delle ingiustizie del mondo evitino di predicare semplicemente la solidarietà e la pratichino per primi. […] Va recuperata la carica sovversiva di quella parola, perché essa è un preciso programma d’azione politica”.
Per ricollocare il valore della solidarietà alle origini del pensiero alternativo della nuova sinistra a cui facciamo riferimento, occorre rivisitare la teoria del Materialismo Culturale che lo scrittore e sociologo gallese Raymond Williams (1921-1988) arriva a formulare negli anni ’70.
Williams suggerisce elementi importanti per pensare a spazi di resistenza e, quindi, contro-egemonici, che possono iniziare a costruirsi dentro specifiche comunità e organizzazioni anticapitaliste: nei corsi di formazione permanente; nella produzione artistica e culturale; nel lavoro collettivo; nell’affermazione dell’etica della solidarietà. Un codice morale non formulato ma potente, basato su collaborazione fraterna, mutua assistenza, cooperazione e volontà comune di lottare per la giustizia.
Williams sottolinea l’importanza delle diverse concezioni delle relazioni sociali all’interno delle classi: la cultura della classe operaia si manifesta in termini di cooperativismo comunitario, mentre quella della classe media è caratterizzata dalla competitività e dall’individualismo. In altre parole, la borghesia è guidata da una forma di socialità individualistica, mentre la classe operaia concepisce le relazioni sociali basandosi sull’etica della solidarietà. Istituzioni democratiche, sindacati e forme di socialità popolare basate su tale etica sono il contributo di questa classe alla formazione di una cultura comune. Una cultura fatta di valori, pratiche e significati che possono essere condivisi da un’intera società – senza divisione in classi – basata sulla solidarietà oggettiva, poiché tutti gli esseri umani sono collegati nello stesso sistema sociale.
Su questo principio Williams fonda il suo punto di vista cruciale per pensare alla trasformazione sociale. Se lavoratori, studenti, femministe, e altri diversi gruppi antagonisti presenti nella società che subiscono l’oppressione culturale non individuano un punto comune attorno al quale lottare non ci saranno progressi significativi. Si tratta certo di sconfiggere i meccanismi specifici di oppressione che operano all’interno di ciascun settore; ma anche di trovare, in questa diversità di rivendicazioni, un’istanza intrisa di solidarietà oggettiva attorno alla quale tutti insieme devono lottare, affinché si ottenga il raggiungimento della sconfitta generale del sistema.
Reddito universale per una “nuova umanità”
Se è vero che “la sequenza consumo-libertà-identità-presente quasi sostituisce, almeno nei paesi più avanzati, la centralità novecentesca di lavoro–politica–collettività–futuro” e che – quindi – “nei Paesi a capitalismo maturo si sta realizzando il passaggio da una società globalmente orientata alla produzione a una società spasmodicamente protesa al consumo” (Tesi n.2); allora risulta evidente che la problematica rispetto a cosa e come consumiamo si configura come centrale in ogni strategia di contrasto all’ordine delle cose vigente e che miri al superamento delle relazioni sociali e umane di sfruttamento e subalternità imposte dal sistema capitalista.
Quindi se “dobbiamo lavorare in profondità anche su noi stessi, sul nostro bagaglio culturale, declinando con più coraggio l’idea del cambiamento” (Tesi n.2), si fa necessario mettere in campo un lavoro di riflessione e di studio, di educazione permanente, di formazione costante, orientati alla coscientizzazione rispetto al come svolgiamo il nostro ruolo economico (ed ecologico) nella comunità, alla consapevolezza rispetto a come spendiamo i soldi che abbiamo a disposizione (il nostro reddito), a cosa e come acquistiamo sul mercato, a quali strutture ci appoggiamo per gestire le nostre risorse finanziarie.
Ecco perché, prima di porre come priorità una lotta per un reddito universale, bisognerebbe avere la garanzia che le classi che verrebbero beneficiate da una tale politica pubblica abbiano la coscienza di gestire queste risorse elargite dalla comunità al singolo individuo in maniera coerente con l’obiettivo emancipatorio e non invece in modo da alimentare proprio quel circuito perverso dell’alienazione e della subalternità alle corporazioni invasive della nostra libertà e controllatici dei nostri desideri biologici indotti, sia a livello di beni materiali che immateriali (come ben allertava Baudrillard nel suo “Sogno della merce”, 1987).
La garanzia che l’individuo possegga gli strumenti per gestire i propri redditi e le proprie entrate finanziarie in maniera coerente con i suoi obiettivi di liberazione dalla subalternità al capitale è subordinata alla realizzazione di ampi e capillari programmi di formazione, di educazione al consumo, per lo sviluppo di consapevolezze rispetto a come agire per non consegnare le proprie risorse proprio nelle casse e nelle tasche di chi ci ha sempre sfruttato ed è pronto a farlo surrettiziamente in ogni momento ed in ogni circostanza (Coca-Cola, McDonalds, alimenti prodotti con l’uso di agrotossici, Nike e altri indumenti con loghi in voga prodotti con lavoro minorile, farmaci e altri prodotti e sostanze vizianti, assuefatori e induttori di dipendenze).
Per questo, soprattutto nelle società in cui non vi sia una diffusa presenza di grosse sacche di indigenza e di povertà assoluta, prima di elargire notevoli somme come reddito direttamente agli individui, credo sia necessario accantonare risorse a livello statale per la messa in atto di politiche pubbliche proattive, programmi di formazione collettiva, basati su incontri, corsi, seminari, officine, in cui si discuta, si dialoghi, ci si confronti con gli altri su temi legati al consumo, sui meccanismi di convincimento rispetto alla necessità di acquisizione delle merci, sulle strategie di imposizione di desideri indotti ed inculcati subliminarmente, di cui non abbiamo alcuna necessità.
Risorse pubbliche per il lavoro sociale di base e iniziative collettive
Se l’obiettivo è quello di “attraversare in campo aperto la contraddizione capitale/vita” e quindi se è vero che “agire sul piano dell’autorganizzazione delle resistenze e sul piano della autorganizzazione della solidarietà orizzontale significa, in effetti, praticare l’anticapitalismo e dar vita ad elementi parziali di contropotere. Significa dare forma a un embrione di “Paese nel Paese”, con un “fare comunità” alternativo al senso comune dominante, che impatti per davvero i luoghi reali, territorialmente definiti, dell’aggregazione – dai quartieri di periferia ai centri storici delle città ai piccoli centri di campagna -, puntando a farli vivere come luoghi di convivialità, di resistenze e di pratiche solidali […] alimentandosi di segmenti concreti di autorganizzazione orizzontale e di elementi fattivi di possibile transizione” (Tesi n.6); allo stesso modo, sembra secondario incanalare grosse somme di bilancio pubblico per garantire redditi universali elargiti in forma individuale, frammentata e atomizzata.
Ritengo invece che sia necessario pretendere che le attività di auto-organizzazione proposte siano promosse ed alimentate attraverso specifiche politiche pubbliche – garantite dall’investimento di concrete e permanenti risorse – che accompagnino le iniziative collettive, promuovano la cooperazione e le opportunità di autogestione, consentano e favoriscano il protagonismo politico partecipativo individuale e collettivo.
Che si possa contare sulla disponibilità di spazi pubblici dismessi, magari abbandonati e da rimodulare per riformularne l’utilizzo, oppure confiscati a soggetti e organizzazioni criminali.
Che vi sia accesso a specifiche linee di finanziamento a fondo perduto per l’acquisizione di locali e strutture private di aziende non più attuanti o delocalizzate, da ripristinare in forma di autogestione cooperativa da parte di gruppi aggregati di lavoratori.
Che siano stanziate in maniera permanente risorse specifiche per la mobilità gratuita, il vitto e l’alloggio necessari per realizzare incontri territoriali collettivi di integrazione e di articolazione politica, corsi, assemblee, officine e riunioni necessarie allo sviluppo di progetti cooperativi.
Quindi, riassumendo: più che per un reddito universale consegnato a cadauno individualmente, credo sia necessario lottare per ottenere garanzie di effettive opportunità di formazione permanente gratuita (meglio ancora se in forma collettiva e partecipativa); mobilità gratuita; disponibilità di abitazioni gratuite o a prezzi popolari; mense gratuite autogestite; elargizione di alimenti a prezzi popolari o in cambio di collaborazione volontaria alla produzione; accesso gratuito ai beni culturali, artistici e immateriali.
Riallacciare il matrimonio Estetica-Etica
Sono completamente d’accordo con l’affermazione per la quale “comunque ci si organizzi, la questione di fondo concerne non ‘ciò che si è’ ma ciò che concretamente si fa. […] Un tale impegno assumerà un valore storico adeguato all’oggi solo se si configurerà come uno spendersi effettivo e disinteressato nei processi reali, senza la finalizzazione del ‘riconoscimento’ di ciò che si fa, senza la richiesta implicita della ‘gratitudine’. Deve essere, cioè, un ‘fare società’ autentico, declinato in quanto luoghi ed azioni di aiuto reciproco, di conflitto e di democrazia diretta” (Tesi n.3).
Ciò significa che – come suggerisce Foucault (1977) quando afferma: “Preferite […] il flusso alle unità, i dispositivi mobili ai sistemi. Tenete presente che ciò che è produttivo non è sedentario, ma nomade” – dobbiamo avere sempre ben presente che, come esseri umani mortali che involvono con sé una data di nascita, una vita e una morte, “la meta è il viaggio”, l’obiettivo non è un ipotetico fine predeterminato da raggiungere un giorno nel futuro, ma il processo di costruzione delle lotte emancipatorie.
Il nostro “fine” sarà caratterizzato comunque dai “mezzi” che utilizziamo per tendervi. L’importante orizzonte “per cosa” lottiamo sarà plasmato dal “come” percorriamo il cammino della nostra emancipazione. Abbiamo urgentemente bisogno di riallacciare il matrimonio tra Etica ed Estetica, poiché – come amava ricordare il rivoluzionario Sartre: “Siamo quelli che affermano che i fini giustificano i mezzi, ma aggiungiamo una correzione indispensabile: sono i mezzi che definiscono i fini”.
Come giustamente sottolineato nella conclusiva tesi n.7: “in sostanza: costruendo embrioni di ‘contropotere’. Stiamo invitando, insomma, a camminare in direzione di un socialismo autorganizzato e libertario”. Un orizzonte che non è prestabilito, prescritto, in nessun manuale, ma che si configurerà nella forma che il processo stesso della nostra lotta e delle nostre attività collettive forgerà nel percorso del cammino. È illuminante in tal senso ciò che amava raccontare Galeano, rispondendo alla domanda «a cosa serve l’utopia?»: «Lei è all’orizzonte. Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare».
È necessario quindi cominciare a sperimentare esperienze di fuoriuscita dal capitalismo fin d’ora, che in esso ci troviamo immersi. Si tratta di un’impresa difficile, che sicuramente sarà costellata di errori e fallimenti ricorrenti (ma quanti ne ha affrontati e ne affronta il capitalismo?)
Qui in Brasile è molto popolare l’uso di un’espressione peculiare, che descrive questo tipo di prova titanica a cui spesso inesorabilmente ci troviamo di fronte, una sfida che abbraccia tattica e strategia insieme: “abbiamo la necessità di sostituire il pneumatico con l’autocarro in corsa”. E un’impresa del genere la possiamo sperimentare solo collettivamente, mettendo in campo tutto il nostro potenziale etico di solidarietà.