L’IPCC. l’International Panel on Climate Change, creato dalle Agenzie delle Nazioni Unite UNEP (United Nation Environmental Program) e WMO (World Meteorological Organisation) nel 1988, è composto da scienziati esperti di clima e ha il compito di redigere periodicamente delle relazioni sulle conoscenze scientifiche relative al cambiamento climatico, ai suoi impatti ed alle iniziative da intraprendere per fronteggiarlo.
È attualmente in corso di ultimazione il sesto Rapporto IPCC (cd. AR6). Nel frattempo, il 6 agosto scorso, è stata pubblicata la prima parte di questo lavoro, che aggiorna significativamente alcuni precedenti dati del precedente report, datato 2013 (cd. AR5).
Quello che dicono gli scienziati
In estrema sintesi, rispetto al Rapporto IPCC del 2013 il nuovo documento rileva che:
- le emissioni di gas serra sono ancora cresciute, raggiungendo nel 2019 la concentrazione di 410 parti per milione (ppm) per la CO2 e 1866 parti per miliardo (ppb) per il metano; il livello di concentrazione dei principali gas serra è il più elevato degli ultimi 800.000 anni;
- la temperatura media globale del pianeta nel decennio 2011-2020 è stata di 1.09° C superiore a quella del periodo 1850-1900; nel corso degli ultimi 50 anni la temperatura media è cresciuta ad una velocità mai registrata negli ultimi 2000 anni;
- il livello medio dell’innalzamento del livello del mare fra il 1901 e il 2020 è stato di 20 cm, ad una velocità mai sperimentata negli ultimi 3000 anni; nell’ultimo decennio si è verificata una riduzione dell’estensione dei ghiacciai del pianeta mai registrata negli ultimi 2000 anni;
- non vi è dubbio alcuno che il riscaldamento globale osservato è causato dalle emissioni di gas serra di origine antropica.
Con riferimento all’ultimo punto, sarà davvero interessante leggere cosa l’IPCC scriverà nella seconda parte del Rapporto, di prossima pubblicazione.
Secondo alcune indiscrezioni, in questa parte – che sarà incentrata sulle strategie di mitigazione, cioè sulle iniziative da intraprendere per ridurre il riscaldamento globale –, gli scienziati affermeranno esplicitamente che, proprio al fine di evitare il superamento dei limiti planetari e la conseguente catastrofe climatica ed ecologica, sia necessario allontanarci dal modello capitalista imperante. Le indiscrezioni dicono che sarà messa nero su bianco anche una pesantissima verità: se vogliamo contenere l’aumento delle temperature, ormai c’è poco o nessuno spazio per un’ulteriore crescita economica.
Chi è causa del disastro climatico, potrà mai costruire la soluzione?
Mettendo da parte – per un attimo – questo aspetto, concentriamoci sulle buone notizie contenute nel Rapporto dell’IPCC: “siamo molto più sicuri del fatto che azzerando le emissioni nette si arresterà anche il contributo umano al surriscaldamento” si legge.
Questo significa che possiamo ancora fermare il cambiamento climatico ed i suoi devastanti impatti; certo servirà uno sforzo collaborativo ciclopico, che passerà necessariamente per una modifica di alcuni aspetti tipici della nostra società, soprattutto nell’economia. Ma è uno sforzo possibile e doveroso.
L’Agenzia Internazionale per l’Energia (AIE), tipica espressione della lobby delle multinazionali fossili, a maggio di quest’anno ha dichiarato che dovremmo puntare all’azzeramento nel bilanciamento delle emissioni (cd. emissioni nette zero: saranno consentiti solo i livelli di emissioni che il pianeta riesce ad assorbire) e che per ottenere questo risultato bisognerà operare “forti riduzioni nell’uso del carbone, del petrolio e del gas. Il percorso è difficile ma fattibile, e porterebbe grandi benefici alla prosperità e al benessere delle persone, fornendo un’opportunità per limitare il surriscaldamento a 1,5 gradi”.
Che significa? Che il sistema capitalistico, fortemente basato sulle energie fossili, è ora disponibile ad adeguarsi?
Il problema è che non bastano poche parole annegate nei documenti cartacei. Occorrerebbero fatti concreti. Che però non ci sono.
Secondo una ricerca del “Climate Accountability Institute”, i primi venti maggiori emettitori di gas serra al mondo sono tutte imprese che operano nel settore delle energie fossili.
E il “Carbon Majors Database” ha accertato che dal 1988 ad oggi, 100 grandi aziende – quasi tutte operanti nel settore fossile – hanno prodotto più del 70% di tutte le emissioni di gas serra nel mondo.
Il riscaldamento globale non è quindi una questione ambientale. Siamo abituati a guardare a questo tema applicando la prospettiva ecologica, ma dovremmo piuttosto dirigere il nostro sguardo al cuore del problema: il cambiamento climatico è una questione economica.
In altre parole, da un lato, iil drammatico andamento del clima è direttamente causato dal sistema economico capitalistico; dall’atro lato, le soluzioni sono ostacolate e rallentate dal sistema stesso.
Secondo un report della ONG britannica “Influence Map”, nel triennio successivo all’approvazione dell’accordo di Parigi (2016-2019), le cinque più grandi compagnie petrolifere al mondo – ExxonMobil, Royal Dutch Shell, Chevron, BP e Total – hanno investito più di 1 miliardo di dollari per finanziare campagne di branding e attività di lobbying atte a screditare l’emergenza climatica e veicolare le tesi negazioniste.
Non solo; la “Union of Concerned Scientists” ha raccolto e pubblicato alcuni documenti riservati di aziende e cartelli di produttori petroliferi che mostrano come per vari decenni le maggiori compagnie abbiano lavorato per distorcere e delegittimare le scoperte scientifiche sul clima, manipolare l’opinione pubblica e fermare le politiche ambientaliste dei governi di tutto il mondo.
Tra le multinazionali più attive nel finanziamento della disinformazione, vi è la ExxonMobil, la quale tra il 1998 e il 2005 ha speso 16 milioni di dollari per finanziare organizzazioni scientifiche al fine di realizzare ricerche che producessero esiti contrari alla natura antropogenica dei cambiamenti climatici. La Exxon, sempre secondo la documentazione rintracciata della “Union of Concerned Scientists”, sin dal 1981 era ben a conoscenza degli impatti che la CO2 ha sull’atmosfera, ma anziché rendere noti i suoi studi, ha deciso di occultarli e di finanziare scientificamente campagne di contro-informazione.
L’inganno del “climaticamente sostenibile”
Di recente, essendo diventato impossibile negare l’origine antropogenica del cambiamento climatico, le multinazionali fossili hanno adottato una nuova strategia che passa da un lato per il cd. greenwashing, dall’altro per la diffusione di fake news sulle energie rinnovabili.
Sotto questo ultimo aspetto, particolare rilievo hanno i post sui social. Nell’ultima ricerca pubblicata da “Influence Map” sono state analizzate più di 25000 pubblicità sponsorizzate nel 2020 su Facebook provenienti da 25 tra aziende, associazioni di categoria e gruppi di pressione, per una spesa complessiva di oltre 9 miliardi di dollari.
Tutte aventi come scopo primario la disinformazione sulle energie rinnovabili.
Quanto al greenwashing, ebbene esso è una vera e propria piaga ed è il nuovo Dio delle multinazionali fossili, la soluzione (secondo loro) all’emergenza climatica.
Il greenwashing, declinato nell’ambito dell’emergenza climatica, può essere definito come la strategia usata per far apparire un’azienda (oppure un singolo prodotto) come “climaticamente sostenibile”, mentre in realtà non lo è.
Insomma, una versione aggiornata, riveduta e corretta della “pubblicità ingannevole”.
Oggi non possiamo fare un passo che siamo presi di mira dal greenwashing, attraverso campagne comunicative di marketing sempre più aggressive che mirano a negare l’evidenza.
Fateci caso. Il gas e la benzina sono tutte a basso impatto climatico. La bistecca è quasi ad emissioni zero. I voli aerei sono ad emissioni nette più che zero. Il piano industriale di ENI (il maggior emettitore di gas serra italiano) ha bassissimi impatti climatici…
D’improvviso, qualunque cosa si faccia non è più dannosa per il clima. Sarà tutto vero?
La crescente preoccupazioni dell’opinione pubblica in merito all’emergenza climatica obbliga le imprese climalteranti a cambiare qualcosa; purtroppo, anziché modificare radicalmente il loro “business”, le aziende preferiscono finanziare campagne di greenwashing ed operare scelte industriali ingannevoli.
Lo scopo del greenwashing è lo stesso del negazionismo: evitare o quanto meno ritardare l’adozione delle misure necessarie per evitare un cambiamento climatico catastrofico.
Mentre il negazionismo colpisce in maniera diretta, il greenwashing è molto più subdolo, perché induce alla percezione alterata che la questione climatica sia affrontata (e quasi risolta).
Oggi persino le multinazionali fossili non adottano più posizioni dichiaratamente negazioniste; ma guardando i loro documenti, sembra che siano i paladini della rivoluzione verde e che, proprio grazie a loro, il problema del cambiamento climatico sta per essere risolto!
Il meccanismo della “compensazione”
Quando le multinazionali fossili vengono messe alle strette e la verità si fa strada, facendo saltare i veli e le ipocrisie del greenwashing comunicativo, ecco allora che spunta una nuova forma di greenwashing: è vero che i nostri prodotti emettono gas serra – ci dicono le aziende dei combustibili fossili climalteranti -, ma sono “carbon neutral” perché le emissioni prodotte vengono compensate.
In altre parole, le multinazionali fossili, invece di tagliare le proprie emissioni di gas serra, pagano qualcun altro per tagliare le proprie; oppure si inventano progetti (ad esempio tutela della foresta vergine in Africa) che generano crediti di carbonio.
Sì, perché questo è possibile e lecito. Nei trattati internazionali è previsto il molto discutibile principio della “compensazione”. Ma poi: chi li controlla questi meccanismi di compensazione?
Gli impatti delle emissioni climalteranti che provocano il riscaldamento globale sono immediati e certi; gli impatti dei meccanismi di compensazione non sono né certi, né immediati. Vanno dimostrati, ancorati a dati certi. Come è intuibile, quanta CO2 possa essere assorbita da una foresta è un calcolo più complesso di quanta CO2 venga concretamente prodotta dalla combustione della benzina.
Per essere efficace, il meccanismo di compensazione dovrebbe essere un fatto reale e non solo un enunciato. Ma la dimensione reale della “compensazione” è oggettivamente problematica.
Si considerino, per intenderci, le compensazioni legate ai progetti di protezione delle foreste: bisognerebbe non solo dimostrare quante emissioni possano essere assorbite, ma anche che la deforestazione non sia stata semplicemente spostata in un’altra area. Bisognerebbe inoltre garantire che il progetto durerà sufficientemente a lungo per arrivare all’assorbimento dei gas serra emessi (si tenga conto che gli alberi possono impiegare anche un secolo per assorbire le emissioni che dovrebbero compensare).
Insomma, i meccanismi di compensazione sono molto più utili ai grandi inquinatori che al pianeta.
Il punto è che l’attuale sistema capitalistico porta a considerare la tutela della stabilità climatica – e in generale la tutela ambientale – un mero “costo”. E siccome i costi sono nemici della crescita (parametrata sul PIL), l’azione efficace di contrasto al cambiamento climatico è per sua natura avversata dal sistema economico (che ha bisogno, per nutrirsi, della crescita).
Così, se proprio non possono fare a meno di porre in essere qualche iniziativa, le multinazionali preferiscono rivolgersi al greenwashing.
Tagliare le emissioni? Proprio no.
[…] È dunque inutile sperare di risolvere la crisi climatica senza mettere in discussione il sistema economico neoliberista (che ha prodotto le prime), così come è da ingenui pensare che le imprese che hanno provocato l’emergenza climatica siano le stesse che possano guidare la transizione ecologica, tema peraltro già affrontato su questa rivista. […]
[…] È dunque inutile sperare di risolvere la crisi climatica senza mettere in discussione il sistema economico neoliberista (che ha prodotto le prime), così come è da ingenui pensare che le imprese che hanno provocato l’emergenza climatica siano le stesse che possano guidare la transizione ecologica, tema peraltro già affrontato su questa rivista. […]