È aperto alla partecipazione diretta di tutti i nostri lettori e tutte le nostre lettrici l’appuntamento della redazione di LEF di sabato 4 settembre 2021.
Dalle ore 10:00 alle 19:00, presso la sede dell’Associazione Ya Basta di Scisciano (NA), spezzando insieme il pane, discuteremo del senso e della direzione di un agire fatto di segni; del significato che può avere un piccolo guscio di noce in questa nostra epoca spietata, che ha così ruvidamente svelato la pesantezza del limite come tradimento della promessa della fine della storia.
Uno – La pratica della riflessione
La riflessione sulla pratica appare sovente un’attività impropria in questo nostro tempo, che ha fatto della combinazione globale dei segni – parole, immagini, suoni – la principale colonna portante della prassi produttiva e sociale. Ed impropria effettivamente lo diventa, se viene praticata come pura ‘presa di distanza’, senza la consapevolezza che l’atto dell’osservare non è senza conseguenze neanche nella scienza più apparentemente oggettiva, poiché gli oggetti, sia nell’immensamente piccolo che nell’immensamente grande, subiscono concretamente, essi stessi, l’osservazione.
Occorre, in sostanza, che la riflessione sulla pratica coincida quanto più possibile con la pratica della riflessione, come parte, essa stessa, della ‘città futura’ cui tendiamo.
Ma per arrivare ad una tale coincidenza dovremo prendere alcune precauzioni. Sono quelle che ci suggeriscono, dopo aver attraversato il tempo e lo spazio di secoli e di oceani, gli zapatisti: costruire, non distruggere; convincere, non vincere; servire, non servirsi; obbedire, non comandare; rappresentare, non soppiantare; proporre, non imporre.
In altre parole, va ribaltato il paradigma del “messaggio dall’alto”, dell’intelligenza esterna che dona la luce. Proprio questo potrebbe essere il senso della marcia della formica nel deserto: la riflessione non come attività dell’osservatore esterno, ma come azione diretta, immediatamente politica.
E col profondo senso del limite di quel che siamo: come singole persone, come collettivo, e più in generale come classe sociale. E, ancora di più: come specie tra le altre specie viventi, dentro il sottile fragile diaframma della biosfera, su un pianeta che, a sua volta, è appena un minuscolo granello di sabbia su una spiaggia inimmaginabilmente vasta.
Due – l’imbroglio della dialettica
La dialettica è uno strumento potente di comprensione, ma è anche, dialetticamente, un bell’imbroglio. Ce l’hanno presentata come chiave risolutiva per il futuro, e tanti di noi si crogiolavano, in gioventù, nella certezza del sol dell’avvenire.
Addirittura, si poteva stare sulla riva del fiume ad attendere il cadavere del nemico. Tanto il sistema si rompeva da solo: per le sue contraddizioni interne (le ‘forze produttive’ che disarticolano i rapporti di produzione), per le crisi di sovrapproduzione e per la tendenza, ciclo dopo ciclo, alla putrefazione.
Il capitalismo, insomma, era un morto che non voleva morire. A noi toccava solo favorire la fine di quell’agonia e aspettare con pazienza che finalmente il sistema tirasse le cuoia. O anche prendere, con un esercizio della forza minimo, il potere, per “accelerare il corso della storia” e costruire il mondo e l’uomo nuovo.
Ma la giovinezza passa, ahinoi, troppo presto. E assieme alla gioventù se ne vanno anche tante certezze, tra cui proprio quella dei meccanismi automatici della storia. E così con sorpresa (davvero non ce l’aspettavamo) e con dolore (per gli anni che, inesorabilmente, sono passati) abbiamo scoperto che il materialismo storico non ha niente a che vedere con il determinismo: l’eleganza della danza delle negazioni successive si può ammirare solo “dopo” e non serve a fare previsioni. La dialettica non è uno strumento per antivedere ciò che succederà, ma solo per comprendere ciò che è successo.
Del resto, non c’è niente di misterioso: la storia, in ultima analisi, è storia di lotta tra classi sociali, cioè tra insiemi di persone costituiti attorno ad una posizione comune nel rapporto con i mezzi di produzione. Ma non è come un braccio di ferro tra due contendenti. Ci si mette insieme, si diventa un ‘solo corpo’, solamente in determinate specialissime condizioni. Generate sempre, o quasi sempre, da un “accidente” della storia.
E, peraltro, da solo l’incidente non basta nemmeno: c’è bisogno della volontà e della capacità di “cogliere l’occasione”.
Almeno, ad occhio, finora è stato così.
Tre – il miracolo e la fragilità
In un piacevole e ormai vecchio librone di divulgazione scientifica – la “Straordinaria storia della vita sulla terra” -, i due Angela (Piero e Alberto) rapportando l’intera storia della Terra ad un anno di 365 giorni calcolavano la durata della presenza dell’uomo (homo sapiens sapiens): la sua vicenda sarebbe limitata agli ultimi 10 minuti prima della mezzanotte del 31 dicembre.
In sostanza, il primo minuto del 1° gennaio di questo ipotetico anno risalirebbe a 4 miliardi di anni fa. E solo alla sua metà i primi globuli di grassi comincerebbero ad essere permeabili all’acqua e ad alcune sostanze in essa disciolte e a gonfiarsi fino a sdoppiarsi. Protetti nel profondo del mare dai raggi solari, non vivi e neppure disponibili a morire, comincerebbero a riprodurre cloni di se stessi. Non ci sarebbe ancora la morte, piuttosto avremmo una sorta di vita che si prolunga senza soluzione di continuità.
Ma ci vorrà un altro miliardo di anni per vedere i primi filamenti di RNA, i primi organismi unicellulari e via via i primi processi di specializzazione interna alla cellula, la riproduzione sessuale e, dunque, la morte, che aprirà la strada ad una straordinaria accelerazione dell’evoluzione, con l’aggregarsi di cellule, simili a spugne o a morule, ed il loro progressivo specializzarsi prima in funzioni, poi in organi sempre più complessi, fino ai sistemi nervosi, tipici della vita animale e al cervello.
Per dirla con i due divulgatori, “Il DNA delle nostre cellule discende dal DNA primordiale e colleziona molti dei geni che si sono dimostrati vincenti (…) il “transfer RNA umano, per esempio, è quasi identico a quello del moscerino dell’aceto. Possediamo addirittura alcune sequenze di DNA in comune con le piante”.
Questa identità è osservabile “del resto anche in un altro modo: durante lo sviluppo embrionale”. Tutti gli esseri animali partono da un uovo fecondato che si suddivide e che dà origine ad una morula (cioè ad un ammasso simile ad una mora). L’uovo inizialmente vive senza ossigeno (come i primi batteri di due miliardi di anni fa nei mari primordiali). Successivamente lo sviluppo embrionale attraversa varie fasi che “ricapitolano” i vari momenti dell’evoluzione: quello del pesce (anche nell’embrione umano appare, ad un certo punto, persino un abbozzo di branchie), quello del rettile, quello dell’antico mammifero. L’ontogenesi (il processo di sviluppo di un singolo organismo) ricapitola la filogenesi (il processo evolutivo di un gruppo sistematico di animali o piante).
In questa straordinaria ricapitolazione è scritta la grandezza della vita, il suo “miracolo”, ma anche la sua fragilità.
Intanto, perché la sua origine è davvero un caso complicato: l’incrocio di milioni di fattori ha permesso a quei frammenti di carboidrati grassi di cominciare a riprodursi meccanicamente in fondo agli oceani primordiali; e dopo un miliardo di anni, altri milioni di incroci hanno spinto quelle primitive alghe verdi azzurre a inquinare di ossigeno (prodotto di scarto del loro respirare) l’atmosfera primordiale.
Un miracolo, perché è successo che dalla combinazione casuale di quei fattori è inaspettatamente emersa una catena proteica in grado di registrare le mutazioni casuali, conservando quelle vincenti: come se miliardi di miliardi di combinazioni casuali delle lettere dell’alfabeto avessero alla fine prodotto la “Divina Commedia”, senza che vi fosse un Dante che la scrivesse.
E, però, questa incredibile vita rimane comunque costretta nel sottile e fragile guscio atmosferico che circonda il pianeta. Pochi chilometri verso l’alto prima del vuoto e poche centinaia di metri verso il basso. Uno spazio ridotto in un tempo ridotto, soprattutto per l’umanità: solo 10 minuti rispetto all’anno del paragone.
Quattro – la vita è adesso
È alquanto improbabile che il modo di produzione capitalistico produca l’estinzione dell’umanità. Ma se capitasse la questione non riguarderebbe il nostro pianeta.
“La terra (…) è vissuta benissimo senza che l’uomo fosse presente. Vi sono stati splendidi tramonti e albe, la Luna ha rischiarato torrenti e cascate, gli animali si sono rincorsi e hanno fatto all’amore, gli alberi sono cresciuti, i fiori hanno sparso al vento i loro profumi. La natura (potrebbe) benissimo continuare a fare tutto ciò senza di noi”.
E questo pianeta, a sua volta, è un granello di sabbia di una spiaggia che appare infinita, sebbene non lo sia, almeno nell’accezione che abbiamo di infinito nella matematica euclidea.
Potrebbe consolare l’idea che questo mondo ingiusto, tanti personaggi squallidi e le crudeltà che riserviamo al nostro prossimo, umano e non umano, sarebbero spazzati via, come immondizia.
Ma, come dicevamo sopra, a proposito della dialettica, niente è certo, neanche il passato. Figuriamoci il futuro.
E poi, volenti o nolenti, questo è il tempo in cui noi dobbiamo vivere.
Basta non prendersi troppo sul serio.
Cinque – chi vive non può fare a meno della storia
La vita è dunque molto più grande della storia. Ma alla vita noi umani possiamo arrivarci solamente attraverso la storia. Ed occorrerà saperlo fin dal principio che l’obiettivo del nostro cammino non sarà semplicemente di risolvere l’enigma delle nostre vicende. Sarà invece quello di riconsegnarci alla vita, trovando anche dentro di noi il respiro profondo dell’universo.
Se critichiamo dunque il capitalismo non è solo perché (pur se sarebbe già una ragione sufficiente) esso si sia rivelato profondamente ingiusto, crei sofferenze continue e comporti concreti elementi di catastrofe. Lo critichiamo anche, e soprattutto, perché al suo interno non c’è il respiro della vita.
La libertà che agogniamo, l’uguaglianza che progettiamo e la fraternità che assumiamo come base del pensare e dell’agire hanno senso, per noi di LEF, soprattutto in quanto elementi indispensabili nella costruzione dell’essere umano consapevole della sua potenza e della sua fragilità.
Una società più a misura degli esseri umani spingerebbe, cioè, per una autoformazione più piena dell’essere umano. Lo delineerebbe, per l’appunto, più umano, senza la voglia velleitaria di spadroneggiare sul mondo, ma unicamente teso a prendervi parte nel modo più naturale possibile.
La storia che vogliamo comprendere e sulla quale vogliamo intervenire rappresenta allora (o meglio: può rappresentare) lo sbocco positivo di quegli ultimi 10 minuti dell’anno. Di modo che i tempi che poi verranno non continuino ad essere appesantiti dalla innaturalità degli esseri umani.
Sei – un incontro a finale aperto
La pandemia di COVID-19 ci ha squadernato senza misericordia l’esistenza del limite. Ci ha detto che noi non siamo solo l’onnipotenza del pensiero. Siamo anche, e forse soprattutto, la fragilità della canna sferzata dal vento.
Al tempo stesso, questo rapido passaggio d’epoca e la fluidità improvvisa di tutti gli assetti che ci circondano fanno emergere con ancora più urgenza la forza della speranza, la forza del sogno utopico di una umanità finalmente capace di sentirsi tale.
Esattamente di questo intendiamo discutere nell’appuntamento del 4 settembre: delle linee di fragilità che ci attraversano e della forza dei desideri che comunque coltiviamo. Come farli convivere, come farli camminare nel mondo nella forma di idee, ma anche di gesti e azioni. E lo decideremo insieme, tutte e tutti.