di Franco Fortini
Sul primo numero di “Linea d’ombra” del marzo 1983 (allora “trimestrale di narrativa” e non era ancora mensile), Goffredo Fofi pubblicò alcune pagine di Franco Fortini sotto il titolo Da un diario inesistente (1967-1970). Riproponiamo qui una bella pagina sulla cultura e sul rapporto tra docenti e allievi. Riteniamo che abbia una sua peculiare attualità non solo per la scuola di oggi, ma anche per le più complessive relazioni tra gli esseri umani.
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20 maggio 1969.
Cara Ezia,
nel suo ultimo tema lei ha scritto: “Mai un professore mi ha chiesto il vero perché di una mia impreparazione, mai si è interessato della mia vita. Nessun insegnante mi ha mai voluto bene. Se non si riesce a capirsi a scuola, lo si può fare in una fabbrica, in un ufficio, su di una spiaggia, in una sala da ballo?”.
Potrei dirle che un insegnante non è un padre, anche se lo somiglia; non è un innamorato, anche se dovrebbe averne il fervore; e che, soprattutto, non è un direttore di coscienze.
In una società schiavistica o aristocratica, il maestro, passeggiando in riva all’Illisso o in una sala delle Tuileries con quattro o cinque fedeli, avrebbe potuto interessarsi della loro vita e voler loro “bene”, come lei chiede. Ma nella società del tardo capitalismo o del passaggio al socialismo lei sa già che per il tipo di rapporto che lei chiede vale qualunque altra sede, dalla fabbrica al “tempo libero”.
È qualcosa che somiglia a quanto, seppure con notevole confusione, son venuti comprendendo i contestatori dei nostri anni: che la trasformazione reale della società passa anche attraverso una ininterrotta attività pedagogica, in un discorso che è psicanalisi collettiva. In una simile situazione, che qua e là può essere anticipata e tentata, non si chiederà comprensione ed affetto a nessun insegnante perché non ci saranno insegnanti, tutti lo saranno.
Quando la fraternità è reale perché resa possibile dall’eguaglianza e dalla comunanza dei fini, ognuno di noi dovrà poter rispondere come faceva Cristo, che madre e fratelli gli sono i suoi compagni.
Non si tratta, credo, di una scomparsa dei ruoli ma di una loro subordinazione ad una gerarchia di funzioni. II terreno della comprensione e dell’affetto fra insegnante e scolaro è quello della oggettività. Somiglia al rapporto fra chi guida e chi è guidato, in una squadra di lavoro, in un esercito, in un gruppo politico molto coeso. L’oggetto è la cosa da studiare, il ponte da costruire, la cima da scalare, il rischio da affrontare.
Importa che gli allievi intendano, ricordino, connettano; che Franco Fortini l’insegnante capisca se hanno inteso, ricordato, connesso. Comprensione e affetto, se nascono, nascono a causa dell’oggetto, in sua occasione. Non in sé. Perfino nell’aspetto fisico dell’amore, l’impegno alla sua esecuzione è maggiore garanzia di affetto e di comprensione ossia di integrità amorosa di quanto non siano le parole d’amore.
Allora può nascere in una classe scolastica quella medesima ascesi e apparente durezza che è della disciplina militare, anzi, di qualunque comunità attiva. Si lavora sempre con i mezzi di emergenza: c’è un medico solo e cinquanta feriti, un professore solo e trenta allievi.
La brutalità della indifferenza ai motivi privati, naturalmente entro certi limiti (un insegnante dovrebbe poterne sapere molto di più di quanto di solito non sappia), ha da essere scuola di sentimenti; che debbono sorgere, ancora una volta, dall’oggetto, ossia da quel che si vuol sapere o imparare; non dall’“anima”. Per questo è necessario che quanto si impara ci importi. O subito o mediatamente. E poi che chi ci insegna, come chi impara, creda a quel che sta facendo. E finalmente che il materiale che si elabora sia autentico e non sofisticato, sia cioè verità e cultura vera.
La scuola di Don Milani insegna che ciò può essere raggiunto col minimo dei mezzi. Nel 1955, salendo un aereo Mosca-Helsinki, l’interprete sovietico mi dette, perché lo mangiassi in viaggio sull’elegante aereo svedese, un pacco di carta gialla da droghiere che avvolgeva due grosse fette di pane gonfie di burro e caviale. Erano molto simili alle fette delle merende materne. Oggi, probabilmente, i sovietici si vergognerebbero di quella rozza presentazione. E invece: il prezioso caviale trattato come fosse marmellata di fichi, questo è il modo giusto di trattare la cultura.
Se lo scambio della comprensione e dell’affetto è avvenuto, fra insegnante e studenti, al livello giusto (quello dell’opera comune e della reciproca responsabilità) non c’è più bisogno di un particolare interessamento, o segno di affetto, perché si partecipa di un affetto e di un bene socializzati. L’insegnante non ti rivolge la parola ma può rivolgertela; sai che se hai bisogno di lui, i preliminari saranno eliminati perché li ha già eliminati la fraternità del gruppo e che quel che tu dirai a lui e che lui ti dirà non saranno in nessun caso soltanto suoi e tuoi. Non più di questo deve e può fare un insegnante.
Le forme esteriori della disciplina (che nessuno più comprende) significano che qualcosa – il sapere, in questo caso, la verità e anche la fraternità – sta al di sopra del rapporto fra insegnanti e scolari. Non so se dirle questo significa “interessarsi alla sua vita”, o “volerle bene”.
Quando comprenda quel che io ho detto, vedrà che la parola “vita”, i pronomi “tuo” o “suo” e la nozione di “bene” avranno cominciato a cambiare significato.