La logica del ‘carcere buono’
Il tentativo, a prima vista, sembra riuscito. Condannando con parole severe i violenti pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, il governo, la ministra della Giustizia e i vertici nazionali del Dap e della polizia penitenziaria oggi possono vantare la comprovata ‘solidità democratica’ del nostro sistema carcerario.
Dicono a reti unificate che il sistema può avere sì delle “falle”, ma è comunque capace di autorigenerarsi, individuando e colpendo, con l’aiuto della Magistratura, i responsabili delle condotte anomale e criminali, contrarie alla normalità sana e corretta dell’istituzione.
Forse, nel paradigma del sistema detentivo-punitivo, l’utopia del carcere buono contrapposto al carcere cattivo ha pure avuto un suo senso. Se non altro è servito, nei secoli, a rendere un po’ meno spietata la privazione della libertà, anche se non sempre e non dovunque.
Tuttavia, al di là del palliativo ideologico, l’utopia del ‘carcere buono’ non solo non ha risolto, e neppure affrontato, il nodo principale, ma ha generato una arrogante scuola di pensiero interessata unicamente a ‘far quadrare il cerchio’ (e sarebbe più giusto dire: a cavare sangue da una rapa) …
Prima di proseguire, occorre tuttavia una precisazione: le istituzioni totalizzanti, quelle che privano della libertà, contengono una innata, inevitabile dose di violenza. E la stessa logica correzionale implica la coercizione. Ovviamente questa non è una scoperta nuova, né la questione è ignota ai sostenitori della necessità della pena detentiva nella versione del ‘carcere buono’.
Una quota di violenza è ineliminabile in ogni caso: è il prezzo da pagare, ci dicono i sostenitori del ‘carcere buono’, per reggere l’intero sistema carcerario. L’importante è che la violenza sia istituzionalizzata, depersonalizzata, dosata nella misura giusta e con modalità non umilianti.
Sembrano discorsi di buon senso, ma se si guardano le cose con attenzione è facile accorgersi della loro astrattezza. Del resto, coloro che conoscono l’universo carcerario sanno bene che la violenza personalizzata, oltre misura e umiliante è tutt’altro che un’eccezione; appartiene alla quotidianità, sebbene raramente in dosi così massicce da non poter essere più occultata.
E comunque, se il problema fosse solo quello degli “eccessi”, la risposta potrebbe o dovrebbe essere quella di rafforzare la cultura e gli strumenti di legalità nelle carceri: più potere ai garanti, migliore preparazione del personale, controlli indipendenti e costanti, eccetera eccetera.
Non voglio negare l’utilità di queste strategie nel quadro consolidato della pratica e della cultura della detenzione. Ma il punto, a mio avviso, è se si possa uscire da quella pratica e immaginare una risposta sociale diversa dalla detenzione. Se si possa affrontare in altro modo quella che, per comodità, qui definiamo “devianza”.
Nessuno trovi azzardata o troppo irrealistica la domanda. L’idea che la detenzione sia la risposta punitiva ovvia, quasi naturale, è assolutamente sbagliata.
La storia umana del ‘punire’
“Ma come allora lo vuoi punire – certo per rieducarlo e reinserirlo, sia chiaro -, l’autore dei resti gravi? Escludendo la pena di morte, troppo problematica sul piano etico, resta solo il carcere, per un tempo proporzionato al reato e alle caratteristiche dell’autore …”
Sembra ovvio, ma non lo è.
In passato la detenzione era una misura molto residuale, a fronte di altri sistemi punitivi.
Per i romani, ad esempio, funzionava molto di più l’esproprio dei beni o la riduzione allo stato servile o anche l’esilio, ovvero l’espulsione dal contesto sociale. In alternativa, la mutilazione o la morte.
D’altronde, in una società nella quale il primo e più importante dei componenti del valore sociale era la condizione di uomo libero, col conseguente dominio su se stessi e la titolarità dello status di cives, la maggiore delle punizioni, insieme alla perdita tout court della vita o dell’integrità fisica, era proprio la perdita della condizione di libero e/o di civis, e conseguentemente la perdita della titolarità del patrimonio.
Anche durante il Medioevo, nella gran parte d’Europa, finire in esilio o vedersi espropriati i beni era la modalità punitiva più diffusa tra le classi agiate e medie. Tuttavia, trattandosi dell’epoca del diritto dichiaratamente diseguale, per i ceti popolari le pene erano prevalentemente corporali, morte compresa; o anche la riduzione allo stato servile, con la sottrazione dell’unico bene posseduto, ovvero la libera disponibilità del proprio corpo e della propria energia.
Quando la colpa era ritenuta di minore gravità, invece della libera disponibilità dell’energia fisica del proprio corpo, si riteneva sufficiente menomare la considerazione sociale e la dignità personale attraverso la pubblica esposizione, ovvero la gogna.
In sostanza, si puniva togliendo al reo ciò che conferiva valore all’individuo nel suo contesto sociale: il patrimonio, la legittima appartenenza alla comunità, la condizione di individuo libero e non servile, la considerazione sociale. In alternativa, specie per i ceti subalterni: l’integrità fisica o la vita stessa.
La rivoluzione industriale introdusse un nuovo parametro per misurare il valore sociale di un individuo, un parametro che in breve diverrà quello prevalente: ovvero, il tempo del lavoro. Gli individui venivano valutati in base al tempo nel quale si applicavano al sistema delle macchine.
Di conseguenza, il libero possesso del tempo è divenuto progressivamente il bene più prezioso. Esso è il bene più prezioso anche per le classi subalterne: esattamente perché il possesso del proprio tempo è ciò che rende un individuo socialmente integrato ed in grado di riprodursi (rendendo così possibile l’intero processo di riproduzione sociale).
Ma il tempo di vita tende anche, fin dall’inizio, ad identificarsi col tempo del lavoro, tant’è che la storia delle lotte operaie può leggersi anche come storia delle lotte per separare il tempo della vita dal tempo del lavoro.
È comunque intorno alla padronanza del tempo – sia come tempo del lavoro in termini di determinazione del suo valore, e sia come tempo di vita vera e propria – che si svilupperà, nell’arco di circa tre secoli, l’identità dell’uomo moderno.
E il tema del ‘tempo liberato’ rimane straordinariamente decisivo anche nell’odierna epoca della ‘totalizzazione del rapporto di capitale’.
Il carcere come spazio del disumano
In questo quadro sociale e antropologico, la punizione più diffusa, considerata del tutto “naturale” dal senso comune, consiste esattamente nella carcerazione. La detenzione, infatti, altro non è che una sottrazione del tempo; ovvero, il suo congelamento.
Certo, la sua forma esteriore è quella di una notevole riduzione della libertà fisica. Ma lo erano anche l’esilio o la riduzione allo stato servile; e lo erano le mutilazioni.
In realtà, ciò che veramente viene sottratto è proprio il ‘tempo di vita’, cioè lo spazio cronologico che rende l’individuo moderno ciò che è, che gli dà padronanza, sia pure entro i limiti dell’orologio, su se medesimo.
Così, il carcere è divenuto l’emblema più evidente del ‘tempo negato’, all’interno del quale si compie l’inutile disumanizzazione dell’individuo colpevole.
Egli non viene messo di fronte alla frattura che ha creato nel corpo sociale (quando l’ha realmente creata), affinché ne percepisca il disvalore. Viene semplicemente privato di una quota di umanità ritenuta adeguata e proporzionata al danno causato.
Non importa, anzi neppure è previsto, che egli si adoperi, a cominciare da sé, affinché la frattura sia sanata. È sufficiente che percepisca l’effetto reattivo che la sua condotta determina.
In questo, il carcere è davvero disumano in quanto tale, oltre che notoriamente inefficace.
La vicenda di Santa Maria Capua Vetere ha messo a nudo questa realtà. Non è stata la degenerazione o la negazione di un sistema ‘inevitabile e perfettibile’. È stata, invece, la sua naturale, seppure eclatante conseguenza.