Nascevo alla Clinica del Sole, allora in tenimento di Casagiove, comune in provincia di Caserta. Primo figlio di una coppia giovane e tipica di quel periodo: mio padre veterinario per forza e per obbligo familiare, precario, coinvolto in un allevamento di pulcini poi fallito e di nuovo precario, questa volta nella scuola. Mia madre casalinga, molto più giovane di mio padre. Era il 21 dicembre e per appena 10 giorni sono “classe 1960”.
Fu l’anno della Palma d’oro a “La Dolce Vita” di Fellini, dell’elezione di Leonid Breznev a Presidente dell’Unione Sovietica e del Governo Tambroni, monocolore democristiano sostenuto dal MSI.
E fu l’anno di Genova.
In quella città, al teatro Margherita di via XX settembre, vicino alle lapidi che ricordavano gli eccidi nazisti e la resa dei tedeschi invasori, si sarebbe dovuto tenere dal 2 al 4 luglio il sesto congresso del Movimento Sociale Italiano.
La vicenda passò sotto silenzio fino alla lettera di un operaio ex partigiano pubblicata sull’Unità del 5 giugno. Dal giorno successivo partì la mobilitazione, con un manifesto dei partiti antifascisti che denunciava la provocazione di questo congresso e la complicità del governo Tambroni. Già il 15 giugno, durante una manifestazione di protesta ci furono i primi scontri.
Ma il 28 giugno fu davvero una giornata calda. La CGIL aveva indetto lo sciopero generale antifascista e a metà giornata prese il via la manifestazione di piazza, che ebbe uno svolgimento inizialmente pacifico, nonostante i discorsi molto accesi, come quello di Pertini, futuro presidente della Repubblica, il quale si rammaricò che “molti fascisti” fossero “scampati alla resistenza”, benché il tempo per “recuperare” ci fosse ancora. Intorno alle 17,30 la massa andò disperdendosi, sfociando in piazza della Vittoria, ma una folta frangia si avventurò in piazza De Ferrari, dove la polizia caricò, sostenendo di essere stata attaccata e fatta oggetto di una violenta sassaiola. Ma la famigerata “celere” si trovò di fronte un osso duro: a combattere strada per strada c’erano i camalli, gli operai del porto, che marciavano con i ganci utilizzati per ormeggiare le navi, che riuscirono a respingere le cariche e a fermare i caroselli delle jeep.
La leggenda racconta che negli scontri centinaia di ex partigiani del GAP fossero pronti, se la polizia avesse usato armi da fuoco, a montare in pochi minuti i mitra che trasportavano smontati e distribuiti a pezzi (un mitra ogni 3 partigiani) per non essere arrestati.
Genova non restò isolata: gravi scontri si verificarono anche a Torino, e nei giorni successivi a Roma, e poi a Reggio Emilia. Alla fine, il congresso del MSI non si tenne, e i delegati furono scortati dai carabinieri dall’hotel Bristol alla stazione centrale, dove erano attesi da un convoglio speciale.
Tambroni pagò subito lo scotto della politica repressiva attuata dopo le violenze nei confronti dei portuali di Genova, perse l’appoggio pesino del suo partito e si dimise il 19 luglio. Da allora non ebbe più incarichi politici di rilievo e morì isolato dalla scena politica meno di tre anni più tardi, poco più che sessantenne.
Ecco, io nascevo alla fine del 1960.
Non credo alle stelle, ma il marchio addosso me lo sono portato fino ad oggi.
Quando nel caldo luglio del 2001 decisi di andare a Genova sembrava che il mio tempo si fosse curvato. Come se avessi corso per quarant’anni solo per rincontrarmi, per incrociare la mia vita nei vicoli di Genova.
Volevo, dovevo esserci, e non solo idealmente.
Partii la sera del 20 dalla stazione di Napoli mentre si diffondevano le prime notizie sulla morte di un manifestante. “Uno spagnolo”, la notizia rimbalzava nelle radio e nelle televisioni, mentre, tra le persone assiepate attorno al treno in partenza, circolava la voce che si trattasse di un giovane genovese. Partii con rabbia, pensando a quella morte.
Durante il viaggio di notte fu un continuo parlare, riflettere. Giunse la notizia che i vertici dei DS avevano deciso di non aderire alla manifestazione e ciò provocò una ondata di indignazione, soprattutto tra quelli, pochi per la verità, che avevano preso il treno con le bandiere del socialismo europeo.
E intanto si discuteva di quel che fino ad allora era stata Genova: un laboratorio in cui sembrava materializzarsi quella “contaminazione” tra culture diverse, dove l’antipolitica movimentista si scontrava e si incontrava con le diverse linee politiche di partiti e partitini presenti, e tutto si rimodellava in un crogiuolo intrigante e interessante.
Ma su tutto dominava la morte di un ragazzo. Pulsare attonito di rabbia, lacrime, paure, vibrare di bocche e mani, urlo silenzioso e lento: la spina dorsale di quel treno ne era attraversata e gemevano quei vagoni come prefiche. Riuscii a rintanarmi in un cantuccio, stanco, a cercare silenzi. Non sapevo neanche il suo nome. Il treno andava avanti e dondolava mollemente la mia testa girata a guardare dal finestrino la notte che correva.
Non riuscivo a tradurre in politica: e restai incollato a domande strane.
Chissà se quel ragazzo ha avuto il tempo di capire quando la morte l’ha baciato, se Lei l’ha fatto dolcemente, se in quel momento lui si è ricordato, come è capitato a me, in certi momenti di dolore, del cestino dell’asilo e dell’odore del panino, e della mano del padre che lo teneva forte quando attraversava la strada e “stai attento che ci sono le macchine”, e dell’abbraccio della madre prima di uscire che con la mano gli pettinava i capelli ribelli. Dell’amore perduto della compagna di banco, e della noia dolce della spiaggia e del sole. E dei pomeriggi sul muretto con gli amici a parlare di niente, e poi della voglia di amare, perché di questo noi tutti abbiamo bisogno, di amare. E delle telefonate, delle lettere, di questa vita amara come la terra.
E se è invece non fosse stata, Lei, la morte, gentile? Se non gli avesse dato il tempo di sorridere al cielo di Genova così azzurro di quei giorni, dietro le nuvole dei gas lacrimogeni e dell’odio? Se quel ragazzo si fosse sentito troppo solo in quel momento. A morire si può morire, ma ci vuole qualcuno che ti stringa la mano, anche uno qualsiasi, proprio come quando un bambino deve attraversare la strada.
Quando scesi dal treno capii subito che anche il 21 sarebbe stato un massacro. Passarono poche ore e poi tutto cominciò: vidi caricare i ragazzi della rete Lilliput, i preti e le suorine con le mani alzate. Sbarcare da mezzi anfibi sulla spiaggia truppe in assetto da guerra. Vidi gli elicotteri abbassarsi sul mare e sparare dai cannoncini di bordo enormi lacrimogeni. Mi lasciai bagnare dall’acqua che gli abitanti di Genova lanciavano sul corteo per dare refrigerio ai manifestanti, e applaudii fino a spellarmi le mani quei tranquilli gruppi di famiglia che si affacciavano dai balconi e stendevano, in spregio ai divieti del governo, mutande e panni bianchi.
Davanti allo stadio Marassi assistetti alla manfrina di un gruppo di finti black block che uscivano da dietro i blindati dei carabinieri e, proprio mentre questi si allontanavano, raccoglievano da terra una borsa e lanciavano bottiglie piene di benzina sul portone del carcere. Risalii di corsa, affannato e impaurito scalinate e vicoli, per sfuggire alle cariche. Al tramonto ero sfinito, gli occhiali rotti perché in un fuggi- fuggi erano state calpestate. Completamente disidratato.
Alla stazione c’era un treno che ci aspettava. Ma non c’era fine al peggio. Arrivò una ragazza piangendo: era cominciata la perquisizione alla scuola Diaz, nessuno poteva entrare, né giornalisti, né deputati. E la preoccupazione per quel che poteva avvenire dentro sarebbe stata superata dalla realtà: la notte cilena era cominciata e sarebbe continuata con le torture alla caserma Bolzaneto.
Poi finalmente il treno partì. Feci finta di dormire, non avevo voglia di parlare.
Genova mi è rimasta dentro, è un pezzo della mia vita.
Ho conosciuto in seguito la mamma di Carlo, la sua dolce determinazione nel tenere in vita quel figlio che le avevano ucciso. Ho capito, dopo averla abbracciata, che Carlo di sicuro quando la morte gli ha preso la mano, non era solo.
Che con lui c’era l’amore così grande che quella donna gli aveva da sempre regalato.
E quando mi capita – e mi è già capitato – di essere sul punto di convincermi che non vi siano più ragioni sufficienti per vivere; quando mi sembra – e mi è già successo – di essere sull’orlo di un baratro, perché troppo solo, o profondamente depresso, allora penso a quella città.
Penso a Genova, alle leggende sui camalli e sui gap, e ai ragazzi del 2001 e a Carlo. E ad Haidi.
E, qualche volta, ho preso il treno e ci sono tornato.
Dopo, per magia, ho ripreso a volare.
(da “I fantasmi e il mare”)