Contrariamente a quanto sostiene l’ideologia dominante, liberalismo e fascismo non sono opposti. Oggi come oggi, agiscono come complici proprio nella costruzione del capitalismo e delle sue nefandezze.
Tutti lo vediamo che il fascismo è parte integrante della vita politica nella gran parte degli odierni sistemi di governo. Non è un mero evento del passato: è qualcosa che può davvero ri-accadere in futuro. Ma soprattutto, nella forma non totalitaria di ‘fascismo neoliberale’ esso opera già qui e ora all’interno del sistema della democrazia borghese. Il non riconoscerlo costituisce uno dei fattori che ha potentemente contribuito, negli ultimi anni, alla sua crescita.
Del resto, se andiamo alle radici del pensiero liberale e prendiamo in considerazione uno dei suoi fondamentali esponenti, John Stuart Mill (1806-1873), possiamo renderci conto di come l’ideologia liberale sia normalmente disponibile a un ‘dialogo’ molto costruttivo con l’autoritarismo. Egli scriveva, nella suo classico saggio “Sulla libertà”(1859), che “il dispotismo è una forma di governo legittima quando si tratta di barbari, purché il fine sia il progresso e i mezzi siano giustificati dal suo reale conseguimento. La libertà, come principio, non è applicabile in nessuna situazione che preceda il momento in cui gli uomini siano diventati capaci di migliorare attraverso il libero confronto tra eguali”.
In sostanza, per Mill libertà e democrazia avrebbero piena validità solo nel mondo occidentale e cristiano, e però anche lì, anche nei paesi capitalisti centrali, non potrebbero avere uguale consistenza per le élite e per le masse lavoratrici.
Poliziotto buono e poliziotto cattivo
In realtà, il liberalismo e il fascismo hanno funzionato come due modalità di governo capitalista impegnate a lavorare asnsieme, seguendo la logica della tattica di interrogatorio della polizia nota come “poliziotto buono/poliziotto cattivo”.
Il liberalismo, come il buon poliziotto, promette libertà, diritti e protezione da parte dello ‘Stato benefattore’, in cambio dell’adesione alle relazioni socioeconomiche capitaliste e alla pseudo-democrazia. Tende a servire e ad attrarre non solo i membri delle classi medio-alte, ma anche tutti coloro che desidererebbero farne parte.
Il poliziotto cattivo del fascismo è invece particolarmente utile nel governare quelle popolazioni che sono povere, razzializzate o scontente. Ed inoltre è più pronto a intervenire fuori dai confini per imporre con la forza i rapporti sociali capitalistici. Se le persone non si lasciano ingannare dalle false promesse del poliziotto buono, o non sono motivate all’acquiescenza, allora il fedele complice dei liberali è a disposizione per costringerle a conformarsi.
Se i liberali tollerano il fascismo e difendono i diritti dei fascisti, non è perché amano essere garantisti e vogliono preservare radicalmente la libertà di espressione. È perché il loro sistema di governo pro-capitalista ha bisogno di tenere sempre pronti i cani da guardia per il lavoro sporco.
Ovviamente, per loro sarebbe preferibile che la popolazione generale fosse compiacente e si allineasse con i risultati di elezioni spesso fraudolente, e comunque inquinate da narrazioni mediatiche monopolizzate dal pensiero unico. Ma i governanti neoliberali devono mantenersi comunque aperta la possibilità di schiacciare l’anticapitalismo, qualora si verifichi una concreta minaccia al sistema che li sostiene.
Tuttavia, la dinamica poliziotto buono/poliziotto cattivo può aver successo solo se è in grado di creare l’illusione che ci sia una profonda differenza, e persino opposizione, tra il poliziotto gentile che capisce la nostra situazione e il gendarme brutale che è sordo alle nostre richieste. E se la violenza del poliziotto cattivo diviene moralmente riprovevole, il poliziotto buono se ne serve da spauracchio: “Sì, è vero, – ci dice, indicando il suo ‘collega’ -, le cose non vanno bene per tanta gente, ma l’alternativa sarebbe ancora peggio”. Così, facendo leva sul maggiore dei due mali, il poliziotto buono assoggetta le popolazioni alla forma unica del male (ovvero, al rispetto ossequioso dei rapporti sociali capitalistici).
È quindi davvero importante riconoscere che il poliziotto buono e il poliziotto cattivo svolgono in definitiva la stessa funzione: sono soggetti complici che, nel bene e nel male, accettano la violenza diffusa, la distruzione ecologica e la profonda disuguaglianza insita nel capitalismo. Usando tattiche diverse, il cui scopo è quello di oscurare la loro strategia condivisa, ambedue cooperano a controllare il regolare svolgimento del sistema capitalista.
L’eterno ritorno del fascismo a braccetto del neoliberismo
Da qualche lustro, il manifestarsi a livello globale ed in forma palese di fenomeni politici che riecheggiano le peggiori istanze reazionarie, patriarcali, razziste, xenofobe e oscurantiste – in una parola, fasciste – non si configura più come un mero ritorno al passato, come un rigurgito anacronistico e nostalgico.
È una vera e propria evoluzione politica, che raccoglie consensi in varie società dell’occidente europeo e americano, ma anche nel continente asiatico. E alcuni Paesi – gli USA di Trump, il Brasile, le Filippine, l’Ungheria, l’India, l’Indonesia, Israele, Turchia, Russia, Ucraina – hanno recentemente conosciuto governi basati su principi e valori autoritari, che ingenuamente pensavamo aver relegato nel dimenticatoio della storia.
Il comun denominatore di tali politiche è il riaffermarsi di direttive economiche ultra-liberali, coniugate con l’adozione di misure restrittive tendenti a negare diritti sociali, civili e persino umani. Vengono assottigliati gli spazi che le classi popolari avevano conquistato con le lotte nel corso dei decenni.
Potrebbe sembrare una tesi fantasiosa quella di sostenere che il liberalismo possa anche configurarsi come un sistema di governo illiberale; ma questa apparente contraddizione è stata piuttosto ricorrente nel corso della storia. Gli Stati Uniti, il Paese liberista per antonomasia, si mostravano – tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX – come uno stato di polizia razzista a tutti gli effetti, che riservava il potere a milioni di miliziani suprematisti bianchi e fungeva da modello per i movimenti fascisti in Europa.
Uno specifico episodio può aiutare a far luce su questa essenziale ambiguità: uno dei guru del neoliberismo, Friedrich Hayek, scrisse nel 1962 una lettera all’allora dittatore portoghese Salazar, allegata al suo libro “La Costituzione della Libertà”, per spiegargli che il saggio inviatogli avrebbe potuto aiutarlo nel compito di disegnare “una Costituzione che prevenisse gli abusi della democrazia”.
In quegli scritti Hayek sosteneva che non ci fosse alcuna incompatibilità tra il suffragio censuario, l’esclusione politica delle donne e la democrazia. E soprattutto scriveva che nemmeno il più dogmatico dei democratici avrebbe potuto affermare che qualsiasi espansione della democrazia fosse di per sé un vantaggio: “a prescindere dal peso degli argomenti a favore della democrazia, essa non è un valore ultimo o assoluto e va giudicata per quello che fa. La decisione circa l’opportunità o meno di ampliare il controllo collettivo deve essere presa sulla base di principi diversi da quelli della stessa democrazia”.
I principi a cui Hayek faceva riferimento erano la difesa della proprietà privata e la libertà d’impresa per il capitale. All’interno di questo schema limitato, le dittature di destra, a determinate condizioni, avrebbero potuto sviluppare persino “metodi migliori” per gli scopi ultimi proposti.
Hayek ottenne in seguito il Premio Nobel per l’Economia (nel 1974). Ma questo episodio rivela un atteggiamento verso la libertà e lo Stato, compreso uno Stato dittatoriale, che è più espressivo di qualsiasi teoria o distinzione onorifica. Hayek è poi tornato su questo tema in una lettera al Times nel 1978, osservando che, a suo avviso, c’erano molti casi di governi autoritari in cui la libertà personale era più sicura di quanto non lo fosse in varie democrazie…
Il paradosso della tradizione liberale (austriaca) di von Mises e Hayek e della successiva corrente di pensiero degli ordoliberali (tedeschi) è la giustapposizione tra un laissez faire radicale e un interventismo giuridico che pone il diritto come gestione dispotica delle regole del gioco dell’economia. Questo paradosso è stato assunto come correzione o addirittura contrapposizione al liberalismo classico e ha dato origine ad un costruttivismo sociale che ha raggiunto proporzioni esorbitanti.
Nelle manifestazioni di questa esuberanza, l’episodio più noto è il rapporto tra Hayek e Pinochet. Dopo aver visitato il Cile, quando la dittatura era ben consolidata e le atrocità compiute erano pubbliche e note, Hayek esprimeva la sua adesione al nuovo ordine in un’intervista al principale quotidiano del regime, El Mercurio, il 19 aprile 1981. In essa dichiarava senza ambiguità che la democrazia aveva bisogno di una efficace depurazione realizzata da un governo forte.
Il suo atteggiamento lasciava pochi dubbi e le parole furono scelte con cura: “Come potete capire, è possibile per un dittatore governare in maniera liberista. Ed è anche possibile che una democrazia governi con una totale mancanza di liberalismo. Personalmente, preferisco un dittatore liberale a un governo democratico privo di liberalismo”.
La preferenza era indiscutibilmente chiara.
Uno Stato autoritario che garantisse la libertà d’azione negli affari era quindi una costante del neoliberismo di Hayek. Si trattava di un impianto teorico preciso: egli dava lezioni al mondo sulla fattibilità della congiunzione tra il mercato e il potere autoritario che lo garantiva. Tale cosmogonia è stata il fulcro del neoliberismo. Nella sua corrente hayekiana, esso ha ignorato beatamente la questione democratica.
Ma questa concezione era ampiamente condivisa al di fuori dei circoli austriaci. La Mont Pelerin Society, la cui creazione nel 1947 è stata assunta come fondamento del moderno neoliberismo, si tinse fin dall’inizio del colore di un autoritarismo strategico. La sua idea di base era la promozione di uno stato forte come condizione per lo sviluppo favorevole del mercato. Coloro che si incontrarono successivamente in quel tranquillo villaggio montano svizzero e che avrebbero definito l’agenda del neoliberismo nei decenni successivi (da Hayek – il primo presidente della Società – a Popper, von Mises, Friedman) avevano definito fin dalla prima ora la loro preoccupazione per il “rischio della civilizzazione” e si impegnavano a ricostruire il pensiero liberale operativo per il dopoguerra.
Le radici autoritarie del nuovo liberalismo
A ben vedere, le basi primordiali dell’impianto ideologico neoliberale con caratteristiche autoritarie risalgono addirittura a poco prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Nell’agosto del 1938, un gruppo di intellettuali si riunì a Parigi per un evento particolare (l’omaggio al giornalista e pubblicista Walter Lipmann), ma quella riunione stabilì un ponte decisivo tra i liberali europei e americani. Alcuni autori, come Dardot e Laval, considerano quell’incontro come il vero fondamento del liberalismo moderno, anticipando la creazione della Mont Pelerin Society.
L’organizzatore dell’evento, Louis Rougier, era lui stesso un rappresentante di questa versione statalista del liberalismo: petainista, sebbene antinazista, fu uno dei difensori del “dirigismo dello stato liberale”, e persino dell’azione economica basata su di un interventismo liberale, che stimolasse la domanda nelle fasi di recessione.
La ragion d’essere di questa visione dello Stato, in contrappunto alla stessa sfiducia nei confronti della democrazia che avrebbe portato Hayek a corteggiare i dittatori disponibili, era l’idea, che sarebbe diventata poi la filigrana del pensiero di Popper, come lo era già quella di Lipmann, di una regolazione dello Stato da parte delle élite, che evitasse eccessi e vulnerabilità di natura elettorale. Per i nuovi neoliberisti, tale regolazione delle élite era necessaria per illuminare i tempi bui in cui i mercati rischiavano di franare di fronte alla volontà popolare.
Questo percorso intellettuale mostra lo sviluppo del pensiero neoliberale, dopo il “Colloquio Lipmann” del 1938 e la creazione della Mont Pelerin Society nel 1947, come un rimodellamento dell’ideologia liberale del passato in un formato nuovo e più ambizioso. A differenza del liberalismo fondativo, si viene affermando il principio della stabilizzazione delle regole del dominio e dei pilastri del potere nei governi degli Stati. Questi ultimi, secondo l’arrogante ideologia neoliberista, devono assumere il compito di seguire, garantire e perpetuare il principio universale della mercificazione delle relazioni sociali e della concorrenza come forma di rimodellamento delle soggettività.
Il neoliberismo diventa quindi un’ontologia, una devozione, una morale e una politica. Ed è così che è arrivato fino ai nostri tempi. È una corrente di pensiero che propugna uno ‘stato minimo’, ma forte; economico, ma autoritario. E che soprattutto prospetta un governo delle élite contro gli eccessi della democrazia.
In questo modo, il neoliberismo si configura come l’agenda della resistenza alla crescita dello Stato Sociale del dopoguerra e delle politiche ambiguamente denominate welfare.
In verità, la marginalità dei seguaci del neoliberismo elaborato dagli uomini della Mont Pelerin Society durante i primi decenni della ricostruzione postbellica era evidente. Essi stavano remando controcorrente e non c’era motivo particolare per prenderli sul serio.
Anzi, i neoliberisti a quel tempo sembravano solo un gruppo stravagante e residuale. E però, nei decenni successivi si verificarono l’esaurimento dell’onda lunga di crescita del dopoguerra, il deflagrare della crisi monetaria del dollaro standard nel 1971 e la recessione generalizzata del 1973-1974. Così il neoliberismo riemerse in grande stile a livello mondiale, trainato dalla Thatcher nel Regno Unito e da Reagan negli USA e andò espandendo ampiamente negli anni a venire la sua egemonia, approfittando anche del crollo dell’URSS.