Una riflessione a partire dalla realtà brasiliana, aperta all’attuale congiuntura mondiale.
Steve Bannon, uno dei personaggi centrali del processo reazionario in corso a livello globale, ha osservato in una recente intervista: “Negli anni ’60, Marshall McLuhan affermava che i media sarebbero diventati i vettori fondamentali non solo della cultura ma anche della politica. Ed è vero: oggi la politica è, in realtà, una narrazione mediatica”.
Di fatto, in tempi di molteplici crisi e al di là della pandemia di coronavirus, cultura, politica e comunicazione costituiscono campi dell’esperienza e della conoscenza umana che condividono confini sempre meno rigidi.
Due fattori accrescono questa commistione nell’attuale complesso processo socio-politico-economico, anche se non sono i suoi unici determinanti. Essi, direttamente o indirettamente, collegano vari fenomeni politici di segno autoritario in paesi diversi come Brasile, Stati Uniti, Filippine, Ungheria, India, Indonesia, Inghilterra, Israele, Italia, Polonia, Russia e Ucraina.
Il primo fattore è quella che il politologo franco-italiano Giuliano da Empoli, nel suo “Gli ingegneri del Caos” (2019), chiama “politica quantistica”.
Contrariamente a quanto avveniva fino a pochi anni fa, la disputa politica, soprattutto elettorale, non si svolge più in una sfera pubblica in cui tutti erano esposti alla stessa informazione e dove i cosiddetti vecchi media – stampa e/o mezzi elettronici – erano centrali nella formazione dell’opinione pubblica.
Nella “politica quantistica”, invece, la versione del mondo alla quale ognuno di noi assiste è letteralmente invisibile agli occhi degli altri. Internet e risorse come Google, YouTube e i social network – Facebook, Instagram, Twitter, WhatsApp – oltre alle prestazioni degli spin doctor, hanno cambiato radicalmente il gioco.
Spin doctor, in particolare, è uno dei termini per descrivere il ruolo di uno specialista in relazioni con la stampa, pubbliche relazioni e comunicazione politica, ma anche esperto di marketing elettorale, portavoce di partito, esperto di sondaggi, opinionista politico o altri tecnici della comunicazione al servizio di partiti o governi. Essi sono anche visti come agenti politici che generalmente operano dietro le quinte del potere.
È stato durante la corsa elettorale di Ronald Reagan alla Casa Bianca (contro Walter Mondale nel 1984, in particolare il giorno del secondo dibattito televisivo, il 21 ottobre) che l’editorialista politico del New York Times William Safire usò per la prima volta il termine spin doctor.
Questo congiunto di uso spregiudicato di Internet e social network, gestito da tali specialisti nella manipolazione, sta consolidando nell’ambito politico un nuovo paradigma, quello dei partiti-algoritmo.
Le questioni di interesse comune che, in teoria, potrebbero essere dibattute dalla cittadinanza nella costruzione di un’opinione pubblica democratica, sono state sostituite da somme di opinioni di gruppi isolati, che non condividono minimamente le questioni che dibattono altri gruppi.
Come afferma Giuliano da Empoli: l’obiettivo non è più quello di unire le persone intorno ad un comune denominatore, ma accendere le passioni di più raggruppamenti possibili e poi aggregarli automaticamente ed acriticamente, anche senza alcuna affinità culturale di origine. Per conquistare una maggioranza, non si tende a convergere verso il centro, ma ad unire posizioni estreme.
Per essere efficace, l’unione di questi distinti gruppi richiederà la costruzione di qualche “entità vuota” – come “il popolo” – e un nemico comune – come “l’establishment” e/o “la casta”. Il risultato è la corruzione dell’opinione pubblica, la manipolazione della volontà degli elettori e la decostruzione della democrazia.
Qualcosa di molto diverso dall’idea di sovranità popolare diffusa della democrazia liberale classica e radicalmente opposto all’epifania democratizzante che illustri scienziati sociali, come Manuel Castells, avevano profetizzato riguardo all’avvento della rete Internet.
Il secondo fattore è il (ri)emergere di una “destra religiosa”, nuovamente attiva nel dibattito pubblico. In Brasile, ciò avviene almeno a partire dal golpe politico-giuridico-mediatico del 2016 contro la presidente Dilma Rousseff e si sviluppa successivamente nell’alleanza elettorale che ha reso possibile l’improbabile elezione di Jair Bolsonaro alla Presidenza della Repubblica.
Si tratta di una destra religiosa che fa palesemente leva sull’anticomunismo. Durante una cena presso la residenza dell’ambasciatore brasiliano a Washington, il 17 marzo 2019, Jair Bolsonaro dichiarava: “il nostro Brasile si stava dirigendo verso il socialismo, verso il comunismo; e la volontà di Dio ha voluto, io credo profondamente in questo, che accadessero due miracoli: uno è la mia esistenza in vita, e l’altro la mia elezione. Ed in questa missione che mi è stata affidata, sono certo che Lui sarà sempre dalla nostra parte”. Ma questa sottocultura religiosa conservatrice estremista e reazionaria non è nata col bolsonarismo e non è relegata solo al Brasile.
L’espressione “guerra culturale”, in tedesco Kulturkampf, trae origine dalla disputa sulla secolarizzazione dello Stato tra il cancelliere Otto von Bismarck e la Chiesa cattolica dell’ultramontano Papa Pio IX. Nel libro di riferimento sulle “guerre culturali” contemporanee, il sociologo statunitense James D. Hunter (1991) sostiene che le vecchie divisioni ecumeniche tra cattolici, protestanti ed ebrei si siano riallineate e siano diventate controversie tra ortodossi e progressisti all’interno dei rispettivi campi religiosi. Attualmente esse si sviluppano intorno a temi come la famiglia, l’istruzione, i media e le arti, il diritto e la politica elettorale.
La guerriglia virtuale come strategia politica
Giuliano da Empoli sostiene che l’ascesa di Donald Trump – “il candidato più improbabile della storia” – alla presidenza degli Stati Uniti, sia stata resa possibile sfruttando un diffuso sentimento di insoddisfazione e frustrazione (l’emergenza di emozioni negative) derivanti dalla marginalità socioculturale ed economica di milioni di americani.
Dal punto di vista della strategia elettorale – ad esempio dell’affermazione del Movimento 5 Stelle, seguita poi da analoghe tattiche della Lega in Italia – la chiave è quella di identificare le paure, incanalare rabbia e risentimento e, soprattutto, squalificare l’avversario come personificazione di un nemico comune.
Indirizzare specifici messaggi sui social network a determinate categorie di elettori o anche a singoli elettori è stato possibile basandosi sull’analisi di un enorme volume di dati (Big Data), accumulati nel tempo, soprattutto, ma non solo, su Facebook. E questi messaggi non hanno nessun riscontro nella verità fattuale, al contrario, usano abitualmente notizie false adatte ai profili che vogliono raggiungere.
La loro distribuzione utilizza risorse legali e/o illegali. Si tratta, infatti, di una guerriglia virtuale, condotta da spin doctor che testano continuamente messaggi, fino ad identificare il contenuto che produce i migliori risultati. La stessa strategia è stata, e continua ad essere, utilizzata in diversi paesi, con lo stesso successo.
In Brasile, l’azione delle cosiddette “milizie digitali” e del “gabinetto dell’odio” – presumibilmente legata a Bolsonaro e ai suoi figli – è oggetto di indagine da parte della Corte Suprema Elettorale e della Corte Suprema Federale, oltre che del Parlamento, attraverso la Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulle Fake News, istituita nel luglio 2019 e conclusa a ottobre 2020.
Il Tradizionalismo: dall’economia alla morale religiosa
Il tipo di strategia politico-elettorale descritta da Giuliano da Empoli si è propagata contestualmente ad un importante passaggio nel dibattito pubblico dalla centralità dei temi economici a quella dei temi di contenuto morale, questo a partire dalla fine degli anni Ottanta in poi.
In alcuni paesi, tale cambiamento si è verificato parallelamente all’avanzata neoliberista guidata da Ronald Reagan e Margareth Thatcher ed ha espresso una reazione conservatrice ai movimenti per i diritti umani, all’emancipazione delle donne, al movimento nero e al multiculturalismo, oltre al tentativo di sviare l’attenzione dalle questioni fondamentali dell’agenda economica.
In effetti, questo dislocamento è in gran parte il risultato di una visione religiosa sostenuta da credenze e valori morali di estrema destra, alcuni dei quali legati al fascismo, e va oltre la politica: si tratta della corrente ideologica che possiamo identificare come Tradizionalismo.
Nel suo “Macerie del neoliberalismo” (2019), la filosofa statunitense Wendy Brown mostra come il neoliberismo dell’economista Friedrich Hayek (1899-1992) fosse originariamente un progetto economico oltre che morale, basato su teorie Tradizionaliste.
Nella sua “Guerra per l’eternità” (2020), l’etnografo Benjamin Teitelbaum mostra come la poco conosciuta dottrina del Tradizionalismo renda coerenti e articoli elementi apparentemente disparati, presenti nelle molteplici crisi che ci colpiscono. Secondo Teitelbaum, il Tradizionalismo va scritto con la “T” maiuscola per differenziarsi dal semplice conservatorismo, critico nei confronti del nuovo in base alla convinzione che la vita fosse migliore nel passato.
Sebbene vi siano importanti differenze tra loro, i padri fondatori del Tradizionalismo sono due pensatori attuanti nella prima metà del XX secolo: il francese René Guénon (1886-1951) e l’italiano Julius Evola (1898-1974). Il primo, ex cattolico, ex massone, si convertì in seguito all’Islam sufi. Il secondo, razzista e misogino, entrò in perfetta sintonia con il fascismo.
Il Tradizionalismo è un esoterismo religioso che si contrappone alla modernità e alle scienze occidentali. Una delle sue caratteristiche fondamentali è la convinzione – che ha le sue origini nell’Induismo – che il tempo storico si svolga in cicli: le età dell’oro, dell’argento, del bronzo e dell’oscurità. Ciascuno di questi cicli è rappresentato da diversi tipi di caste, ordinate da una gerarchia discendente: sacerdoti, guerrieri, mercanti e schiavi.
Si tratta di una visione fatalistica e pessimistica, poiché la convinzione è che questi cicli si ripeteranno indipendentemente dall’azione umana. Nonostante ciò, i Tradizionalisti militano per accelerare il passaggio da un ciclo all’altro. Essi credono che stiamo vivendo in un’età oscura che deve essere stimolata all’implosione per farci tornare al ciclo iniziale, l’età dell’oro. In esso vivremo in una società non di massa, non materialmente omogeneizzata, dove diverse spiritualità coesistono sotto la tutela di una teocrazia gerarchica.
All’opposto del Tradizionalismo vi è la modernità. Essa è ciò che caratterizza l’età oscura, promuove l’indebolimento della religione a favore della ragione (Illuminismo), il declino di ciò che non può essere quantificato matematicamente – spirito, emozioni, soprannaturale – a favore di ciò che è materiale.
La modernità implica anche l’organizzazione di grandi masse di persone per scopi politici o di consumo. E ciò determina la standardizzazione e l’omogeneizzazione della vita sociale. La modernità crede nel progresso, nella creatività umana che può condurci verso un mondo migliore. I Tradizionalisti aspirano a tutto ciò che la modernità non è. Essi credono nelle verità eterne – sia trascendenti che riguardo agli stili di vita – e non alla ricerca del progresso.
Per i Tradizionalisti, la gerarchia è uno dei pilastri di una società sana. I nemici del primato delle caste sono gli universalismi, valori o sistemi considerati veri per tutta l’umanità e non per gruppi specifici. Nella modernità, la democrazia e i diritti umani sono spesso intesi in questi termini, trattati anche nei documenti fondativi degli Stati nazionali liberali come parte di un insieme evidente di diritti emanati da Dio, in concomitanza con il concetto di uguaglianza universale.
I Tradizionalisti al contrario, adottano quella che René Guénon chiamava la “teoria dell’inversione”, che è uno dei segni distintivi dei secoli bui: “Tutto ciò che pensi sia buono è cattivo. Qualsiasi cambiamento che comporti progresso è in realtà regressione. Ogni apparente giustizia, infatti, è oppressione”.
In quest’ottica, il sistema di valori del mondo moderno è quindi l’opposto della verità. A tale ampio quadro di credenze, a partire da diverse sfumature di Tradizionalismo, si aggregano il razzismo (la supremazia bianca) e la misoginia, secondo cui i maschi ariani costituiscono la casta dominante dell’età dell’oro.
I Tradizionalisti privilegiano la “guerra culturale” – che chiamano metapolitica – come strategia di azione, cioè guidano l’attivismo attraverso la cultura – arte, spettacolo, spazi intellettuali, religione, istruzione – e non necessariamente attraverso le istituzioni politiche tradizionali.
Steve Bannon, il più grande articolatore Tradizionalista del mondo, “è stato uno dei primi tra i nuovi populisti a capire che la politica deriva dalla cultura. Fin dall’inizio ha lottato per strappare all’intellighenzia liberale lo scettro dell’egemonia culturale” (Giuliano da Empoli, 2019).
Nel capitolo finale di “Guerra per l’eternità”, l’etnografo Teitelbaum avverte: il Tradizionalismo nella sua forma originale non incoraggia le preoccupazioni rispetto alle disuguaglianze e le ingiustizie. Nella misura in cui la sua prerogativa di radunare le popolazioni attorno a un’essenza spirituale arcaica si unisce ad un’ideologia che esprime la sua propria versione apocalittica – come il messianismo degli adepti ortodossi, con l’ulteriore convinzione che la distruzione dello status quo sia necessaria per il raggiungimento di un’utopia terrena e non meramente celestiale – potrebbero sorgere concreti motivi di allarme a livello globale.
In effetti, nel caso di molti Tradizionalisti, questa filosofia offre il pretesto non per l’apatia ma per il suo esatto contrario: un’audace azione trasformativa, nella convinzione che il mondo stia per cambiare e quindi siano giustificate azioni temerarie.
Senza fare specifico riferimento a nessun Paese, l’avvertimento di Teitelbaum sulle circostanze in cui “potrebbero emergere motivi di allarme” ci aiuta sicuramente a comprendere parte delle dinamiche riferite all’attuale crisi brasiliana, nonché di altri preoccupanti fenomeni sociali reazionari simili che si stanno verificando in altrettanti paesi europei ed asiatici.
Il punto di rottura si avvicina?
Nell’ultimo capitolo de “Gli ingegneri del Caos”, Giuliano da Empoli afferma che il problema della “politica quantistica” è che essa tende a diventare sempre più instabile; vista la tendenza al declino delle aggregazioni di classe intorno a ideologie emancipatrici di specifici settori subalterni della società, in favore di coagulazioni estemporanee di maggioranze spurie basate su ondate di diffusione mistificatorie di false problematiche indotte. A questo proposito il saggista si chiede: “per quanto tempo sarà possibile governare società attraversate da tali impulsi di instabilità sempre più frequenti?”
Lui stesso si risponde: sul fronte economico, la disgregazione è iniziata 30 anni fa, quando le dinamiche combinate dell’innovazione tecnologica e dell’apertura dei mercati hanno cominciato a far crescere molto più rapidamente le disuguaglianze tra gli individui. In termini di sistema delle informazioni, il processo è più recente, ma è già a buon punto. Oggi, l’idea di una sfera pubblica in cui tutti sono esposti alle stesse informazioni, come prima con la lettura dei giornali ed il rito del telegiornale, praticamente non esiste più. E la politica segue lo stesso percorso; essa sta rapidamente passando da una logica centripeta ad una strategia centrifuga che galvanizza e poi aggrega estremismi. Il punto di rottura pare si avvicini pericolosamente.
A tali “impulsi di instabilità” diagnosticati da Giuliano da Empoli si potrebbe aggiungere il messianismo religioso mobilitato dalla spiritualità arcaica del Tradizionalismo e da dottrine apocalittiche che non si concretizzano mai, ma diventano fonti permanenti di intolleranza e di odio.
In questo quadro, nel contesto delle molteplici crisi che il Brasile (e non solo) sta affrontando, tali frequenti impulsi – nell’economia, oltre che nell’ambito della cultura, della politica e della comunicazione – sembrano indicare che la condizione di ingovernabilità stia accelerando nella società.
Le democrazie liberali, così come sono strutturate, non sembrano in grado di rappresentare le reali e concrete esigenze dei vari settori sani della società e, soprattutto, le sterili e sempre meno partecipate attività elettorali non servono a garantire la composizione di maggioranze politiche stabili e lungimiranti capaci di gestire in maniera non estemporanea le strategie di sviluppo sostenibili necessarie per riequilibrare gli scompensi economici, ecologici ed etici generati costantemente a livello di poteri globali ormai intangibili ed incondizionabili dalle istituzioni statali ed internazionali di governo.
Il “punto di rottura” si sta davvero avvicinando? E quale sarà lo sviluppo dei conflitti sociali in una realtà post-pandemica ancor più marcata dalle disuguaglianze e dalle necessità di riscatto economico, nonché profondamente lacerata da contrapposizioni radicali e minacciata dai drammatici incombenti effetti dei cambiamenti climatici?