Brasile: la “guerra culturale” nel mezzo della pandemia virale e del pandemonio neofascista

La pandemia di coronavirus ha avuto un impatto enorme sulla vita degli esseri umani in tutto il mondo. Le sue ambiguità, contraddizioni e tensioni hanno evidenziato una certezza: l’incapacità del mercato neoliberista di sostituire gli Stati nella cura del benessere, soprattutto della maggioranza della popolazione che non possiede una rendita patrimoniale ed ha bisogno di lavorare per vivere.

In Brasile la pandemia si è unita al pandemonio provocato dal governo Bolsonaro, combinando numerose crisi:

la crisi economica, precedente alla pandemia, aggravata dalle ricette (ultra)neoliberisste, che hanno distrutto i diritti e non hanno prodotto neanche lo “sviluppo” distorto che promettevano;

la crisi ambientale, con i record di deforestazione, incendi e altri disastri ecologici.

la crisi sociale, con uno dei più alti tassi di disoccupazione nella storia del Brasile e l’aumento della violenza contro le donne, i neri, le comunità LGBTQIA, le popolazioni autoctone: in generale contro “dannati della terra”, i poveri, i senza terra, i senzatetto;

la crisi politica, con l’emergere di vere e proprie milizie che occupano comunità e istituzioni;

la crisi etica, con l’espansione dei privilegi e della corruzione;

la crisi della sovranità nazionale, con la vergognosa sottomissione del paese agli Stati Uniti;

la crisi culturale con attacchi alla libertà di creazione e di espressione, con un ritorno alla censura e con il deliberato soffocamento della cultura, delle arti, delle scienze, dell’istruzione e delle università pubbliche.

Nel mondo e nel Brasile di oggi, il tema della cultura nella società e nella politica è etichettato dall’estrema destra e dai fondamentalisti religiosi con la definizione di “guerra culturale”. Essa assume come nemico da distruggere il presunto “marxismo culturale”, la teoria critica, il pensiero radicale, le idee progressiste, le rivendicazioni dei movimenti contro razzismo, maschilismo e omofobia e le lotte emancipatrici in generale.

La “guerra culturale”, come lo stesso termine bellico mostra, non è una lotta politico-culturale democratica, poiché cerca di innescare visioni autoritarie per fabbricare odio, legittimare la violenza e annientare gli oppositori, rendendoli nemici da distruggere, simbolicamente e fisicamente. Nel complesso, la guerra culturale si nutre del pensiero autoritario e mira a creare e distruggere nemici e ad impiantare dittatura e totalitarismo.

In questo quadro, la cultura acquista una notevole rilevanza politica per la difesa e l’approfondimento della democrazia sostanziale, che combatte le disuguaglianze, produce il riconoscimento dei gruppi oppressi e sfruttati e assicura ed espande i diritti, siano essi economici, sociali, politici, ambientali e culturali.

La “guerra culturale” non è nata con Jair Bolsonaro.

Nasce dalle contraddizioni sociali e culturali che il mondo e il Brasile hanno attraversato, almeno a partire dagli anni 60 come contrapposizione violenta ai movimenti di emancipazione.

Le lotte politiche per i diritti civili, per i diritti delle donne, per la libera espressione della sessualità, a favore della tutela dell’ambiente, hanno trasformato in modo profondo l’azione politica in tutto il mondo. I processi di decolonizzazione, inoltre, hanno alterato profondamente il contenuto delle politiche progressiste e di sinistra, incorporando nuovi movimenti, nuovi agenti politici e portando nuove soggettività sulla scena pubblica. Con il cambiamento della politica, si sono venuti trasformando anche i conflitti politici. Negli ultimi 50 anni, la prospettiva dell’uguaglianza ha superato il mondo del lavoro – dove rimane fondamentale – ed è avanzata in altri ambiti della società. In altre parole, il privato è diventato pubblico.

La natura delle lotte politiche dei movimenti antirazzisti, femministi, LGBTQIA+ e ambientalisti ha cambiato le dinamiche di varie istituzioni sociali, come l’università, le famiglie e anche i rapporti interpersonali. L’incorporazione di questi nuovi movimenti e rivendicazioni nel campo delle forze politiche della sinistra è stato tutt’altro che semplice, ma gradualmente ci si è resi conto che queste richieste e questi soggetti erano diventati imprescindibili.

Alla fine degli anni ’80, le rivendicazioni dei nuovi movimenti per le identità e per i diritti venivano chiaramente percepite come un movimento destinato al successo. Il convoglio del cambiamento stava passando e sembrava che chiunque non vi fosse salito a bordo ne sarebbe stato inevitabilmente travolto.

Tuttavia, non ci volle molto affinché emergesse un’aspra opposizione ai progressi democratici consolidati dalle lotte di questi nuovi movimenti. Negli Stati Uniti, dagli anni ’90 in poi, la cosiddetta alt-right [destra radicale] si è organizzata per combattere quello che percepiva come un attacco frontale al “tradizionale modo di vita” americano. Nasce così il concetto di “guerra culturale”.

Nel 1991, il sociologo James Davison Hunter pubblicò un libro intitolato “Guerra culturale: la lotta per definire l’America”, la cui tesi centrale era basata sull’idea che negli Stati Uniti la divisione politica fosse stata alterata.

La polarizzazione ideologica riguardo a questioni come il diritto all’aborto, il porto d’armi, la partecipazione delle chiese nello Stato, la legalizzazione dell’uso di stupefacenti, il diritto al matrimonio per le persone LGBT, soprattutto, aveva trasformato gli orizzonti sociali e culturali, facendo emergere posizioni radicalmente contrapposte in relazione a queste delicate questioni nella disputa in corso nel paese. La lotta per il controllo delle istituzioni sociali e culturali tra conservatori e progressisti sarebbe stata sempre più agguerrita.

L’analisi del sociologo divenne gradualmente una piattaforma politica per i settori più retrogradi, i quali ritenevano che nel Paese fosse effettivamente in atto una “guerra culturale”. Si è verificato quindi un processo di appropriazione politica del libro di James D. Hunter da parte della destra neoconservatrice e ciò ha contribuito a strumentalizzare non solo la loro visione del mondo, ma anche le strategie di azione politica.

La lettura dei conflitti politici è stata semplificata nell’uso politico della “guerra culturale” come metodo di attivismo. Per costoro, ogni rivendicazione progressista doveva essere combattuta in nome delle tradizioni che definivano la società americana. Preservare la famiglia tradizionale, il matrimonio eterosessuale, la gerarchia patriarcale, la disuguaglianza razziale, tra le altre posizioni reazionarie, sarebbero stati i compiti politici primari di questi gruppi.

Questo significava combattere anche le istituzioni, che per i reazionari avevano promosso prospettive sociali progressiste, come le università, la stampa e Hollywood, per esempio.

Progressivamente, la “guerra culturale” è avanzata fino a diventare la strategia politica dei reazionari per la conquista del potere negli Stati Uniti. L’abbattimento dell’altro e lo sviluppo di meccanismi per renderlo possibile è diventato uno strumento di azione politica concreta. Il contesto congiunturale con l’aumento esponenziale delle disuguaglianze sociali, operato dal neoliberismo che ha proliferato in questo periodo, ha favorito ed alimentato questa ricetta retrograda.

In un paese in cui il divario tra ricchi e poveri aumenta drammaticamente, la narrativa che incolpa gli intellettuali, le politiche di uguaglianza di genere e razziale per i mali dei lavoratori diventa allettante e acquisisce la capacità di catturare adepti, anche in una parte della classe operaia, dal momento che le forze politiche progressiste negli Stati Uniti ed in occidente in generale non sono riuscite ad organizzare un programma che unisse il riequilibrio delle disuguaglianze sociali con i valori progressisti.

È evidente che ciò che accade in Brasile non può essere trattato come una semplice sovrapposizione di ciò che accade negli Stati Uniti ed in Europa. Tuttavia, la “guerra culturale” è diventata uno strumento di lotta politica utilizzato negli ultimi anni dai reazionari di tutto il mondo, partendo da una tecnologia generata sul suolo nordamericano e poi adattata in ogni paese attraverso l’ibridazione, facendola attecchire in maniera vincente in ogni luogo, addobbata con i colori locali.

In questo contesto emerge uno spaventapasseri che funge da “significatore vuoto” per le idee reazionarie: il “marxismo culturale”. Questa espressione è servita a coagulare la fusione delle più selvagge teorie del complotto da parte dell’estrema destra. In termini generali, questa tesi sostiene che il lavoro di artisti, giornalisti, professori e scienziati starebbe gradualmente allontanando il mondo occidentale dalle sue “basi tradizionali cristiane” al fine di impiantare il comunismo, senza la necessità di una rivoluzione armata.

Si tratta di una subdola e mistificatoria appropriazione dell’idea di egemonia, così come elaborata da Antonio Gramsci, considerato dai reazionari come una delle più grandi canaglie del “pantheon del male”, insieme ai filosofi della Scuola di Francoforte.

Per questi neofascisti del XXI secolo, il “marxismo culturale” viene equiparato al “politicamente corretto”, inteso dai reazionari come un divieto alla libertà di espressione pubblica di opinioni sessiste, omofobe e razziste e come una strategia per l’imposizione di concezioni progressiste alla società. Il “politicamente corretto” diventa uno spaventapasseri da combattere, la divulgazione di opinioni razziste, sessiste e omofobe si trasforma in un atto di ribellione.

Gli ideologi conservatori creano inoltre un ulteriore spaventapasseri, che darebbe suppostamente origine al “marxismo culturale”: la tesi della “ideologia di genere”.

Secondo i reazionari, la “ideologia di genere” sarebbe uno strumento dei progressisti per affermare l’inesistenza del sesso biologico e, in ultima istanza, per indurre l’omosessualità tra i bambini. Un delirio che non ha nulla a che fare con gli studi di genere, ma che è diventato una potente arma ideologica utilizzata dal fondamentalismo religioso, soprattutto cristiano, per rinsaldare consensi retrogradi.

Da concezioni distorte, come “marxismo culturale”, e suoi derivati, ​​come “ideologia di genere”, i gruppi reazionari combattono contro gli studi culturali e scientifici una battaglia per proteggere la ricerca nelle università, l’insegnamento nelle scuole ed il repertorio delle mostre artistiche. E viene messa in atto una crescente criminalizzazione della ricerca che indaga i temi delle disuguaglianze di genere e di razza e della sessualità.

L’idea di “marxismo culturale” non è esattamente nuova nel repertorio dell’estrema destra mondiale, ha una storia più antica del recente concetto di “guerra culturale”. Negli anni ’20 Adolf Hitler includeva già nel lessico di estrema destra l’espressione “bolscevismo culturale”, che contiene lo stesso contenuto della sua versione contemporanea.

Il corollario della versione nazista del “marxismo culturale” è poco diverso da quello attuale. La concezione nazista per cui il progressismo nella cultura e nell’arte era un tentativo di erodere i valori tradizionali della società tedesca, è sostanzialmente la stessa che i gruppi più reazionari coltivano oggi riguardo al mondo delle attività culturali, giornalistiche e accademiche.

In Brasile, queste visioni retrograde che uniscono l’estrema destra di tutto il mondo hanno terreno fertile in una società segnata da disuguaglianze, privilegi e gerarchia. Così, quando le idee che organizzano il concetto di “guerra culturale” sono approdate nella realtà brasiliana, si sono fuse ad un brodo storico di autoritarismo e accesso sbilanciato ai diritti fondamentali dalle persone, che ha radici profonde.

Il passato schiavocratico, lo spettro del colonialismo, le strutture di abuso, l’arroganza e il patriarcato, la corruzione persistente, la discriminazione razziale, le manifestazioni di intolleranza di genere, sesso e religione, tutti questi elementi insieme tendono a riapparire, in modo ancora più incisivo, sotto forma di nuovi governi autoritari, che, di volta in volta, compaiono sulla scena politica brasiliana.

Dopo la ridemocratizzazione e l’adozione della Costituzione del 1988, il Brasile ha subito cambiamenti che, sebbene siano stati insufficienti a cambiare profondamente le sue strutture, ne hanno drasticamente alterato la configurazione sociale.

Dal 2003, il processo di democratizzazione si è approfondito con l’arrivo di Lula alla Presidenza della Repubblica. Purtroppo, ancora una volta le politiche messe in atto sono state del tutto insufficienti per consolidare trasformazioni strutturali, ma sufficienti per generare una reazione virulenta dei settori storicamente privilegiati.

Questa reazione è culminata nel colpo di stato contro Dilma Rousseff del 2016, che avrebbe successivamente aperto le porte della politica all’avvento di Jair Bolsonaro alla Presidenza della Repubblica.

Le politiche pubbliche sviluppate in alcuni settori come l’istruzione, la cultura e i diritti umani sono state particolarmente sensibili per i settori più reazionari della società brasiliana. Nel campo dell’istruzione, ad esempio, il governo Lula ha istituito investimenti senza precedenti nelle scuole pubbliche e nelle università federali. Inoltre, sono state create numerose nuove università. La rete federale dell’istruzione superiore è stata capillarizzata con incisività all’interno del Brasile, rendendo possibile l’accesso alle università pubbliche per una vasta popolazione che non aveva mai avuto le condizioni per proseguire la formazione accademica, innescando un ascensore sociale inedito per grandi fasce sociali popolari storicamente marginalizzate nel Paese.

In questo senso, l’adozione di politiche affermative ha trasformato il profilo sociale e razziale degli studenti universitari. Più neri e più studenti delle scuole pubbliche sono arrivati ​​alle università federali. Nel 2019, ad esempio, l’Università di Brasilia presenta per la prima volta una maggioranza di studenti non bianchi, a seguito delle politiche delle quote adottate nel 2006.

Questo nuovo gruppo di studenti delle classi popolari ha portato con sé una serie di nuove questioni accademiche e scientifiche, alterando in modo significativo la produzione intellettuale del paese.

Anche nel mondo della cultura si sono verificati importanti cambiamenti. L’amministrazione di Gilberto Gil alla guida del Ministero della Cultura del governo Lula ha significato il superamento di una politica culturale omessa ed esclusivamente orientata al mercato, che aveva caratterizzato il precedente governo di Fernando Henrique Cardoso.

I “Centri di Cultura” installati e promossi in diverse città dal ministero di Gilberto Gil non sono solo stati innovativi, ma hanno anche dato origine alla formazione di una nuova ondata di agenti culturali in tutto il paese, rendendo il settore più dinamico e aumentando il livello delle richieste in termini di politiche pubbliche statali.

Tra il 2003 e il 2015 si è registrato un aumento significativo degli investimenti pubblici nella cultura (anche se non ha raggiunto il valore dei parametri minimi raccomandati dall’UNESCO). Si è promossa e diffusa un’accettazione della diversità e delle identità culturali, per esempio, con un’azione più proattiva da parte del ministero con le popolazioni indigene, i quilombola e le popolazioni rivierasche. In un Paese che non aveva mai sviluppato politiche culturali rivolte alla cittadinanza con tale intensità, l’attività sviluppata nel periodo è stata molto importante.

Era abbastanza prevedibile che cambiamenti di questa portata avrebbero provocato resistenze, specialmente in un paese con profonde cicatrici lasciate dalla disuguaglianza cronica. Fin dall’inizio del primo governo Lula le caste economiche hanno scatenato una guerra ideologica.

Inoltre, si è verificato l’emergere di una nuova forza politica nel Paese: le chiese neo-pentecostali. L’ingerenza della Chiesa cattolica negli affari politici in Brasile, fin dai tempi coloniali, non è una novità storica. Tuttavia, con le chiese neopentecostali si verifica un nuovo profondo processo di interferenza politica, messo in atto con la candidatura diretta dei pastori evangelici nelle elezioni e di conseguenza con l’occupazione di incarichi amministrativi ed istituzionali e quindi delle strutture dello Stato.

Perciò questi cambiamenti nella struttura sociale del paese hanno determinato il sorgere di una nuova estrema destra politica, che emerge da un crogiolo di posizioni e interessi, a volte anche apparentemente contraddittori, ma che ha articolato connessioni e convergenze, coagulando diversi gruppi reazionari su di un terreno comune: il bolsonarismo.

Un’oligarchia (in teoria liberale) che fomenta idee antipolitiche e finanzia figure chiaramente legate a progetti antidemocratici, con l’intento di vessare le forze di sinistra per attuare ad ogni costo un programma economico reazionario. Una maggioranza conservatrice della classe media convinta dalla narrazione che il sistema politico fosse completamente corrotto. Una crescita dell’influenza politica delle chiese neopentecostali, desiderose di affermare visioni oscurantiste. Una corporazione militare scontenta della possibilità di revisione degli atti criminali da loro commessi durante la dittatura 1964-1988.

Molto probabilmente questi gruppi, separati, non avrebbero ottenuto un’adesione massiccia, ma assieme hanno avuto modo di formare una coalizione ideale per portare avanti un progetto autoritario come quello di Bolsonaro in Brasile.

Oltre alla congiuntura economica favorevole, si sono verificate importanti trasformazioni nell’ambito della comunicazione, che hanno dato impulso alla diffusione delle tesi di questi gruppi reazionari.

Precedentemente mediate dai media tradizionali, le posizioni politiche e le teorie del complotto che alimentano la visione del mondo di questi gruppi raggiungevano una diffusione limitata nell’arena pubblica.

Attualmente, attraverso Internet ed in particolare i social network, le idee reazionarie e la “guerra culturale” messa in atto hanno guadagnato piattaforme che hanno reso possibile proselitismo e convincimenti di massa.

La “guerra culturale” in Brasile è stata promossa e divulgata in ambito digitale. Jair Bolsonaro è cresciuto disprezzando i media tradizionali e promuovendo una comunicazione diretta con i suoi seguaci attraverso le reti. Anche questa non è una strategia originale. In tutto il mondo, gli specialisti della comunicazione di estrema destra utilizzano algoritmi per formattare meglio i loro discorsi e, quindi, soddisfare i desideri specifici di ogni individuo. Si tratta di uno strumento potente al servizio della persuasione di massa.

Social network come Facebook, Instagram, You Tube e WhatsApp sono diventati potenziali canali per promuovere l’alienazione, la solitudine, la divisione e la polarizzazione delle società e, in questo modo, sono diventati strumenti di divulgazione dell’odio sociale e di destabilizzazione delle democrazie.

Quello che fanno le forze reazionarie è capire come funzionano gli algoritmi delle reti sociali e, coadiuvate dal potere economico, usare quelle conoscenze a favore del loro progetto autoritario. Di fatto, Bolsonaro ha raccolto 57 milioni di voti alle presidenziali potendo contare su solo 8 secondi di spazio elettorale gratuito nelle programmazioni televisive e milioni di messaggi menzogneri sparati su WhatsApp (approfittando di innumerevoli profili finanziati illegalmente).

In altre parole, la struttura dei social network funziona come un gigantesco trampolino di lancio per questi gruppi reazionari per diffondere teorie del complotto che, guadagnando adepti, screditano giorno dopo giorno strumenti riconosciuti per la produzione di informazione e conoscenza come il giornalismo e la scienza.

Apparentemente promotori di democrazia, i social network sono legati a un “modello di business” che approfondisce le disuguaglianze e genera false equivalenze tra informazione e menzogna. La diffusione di contenuti fallaci come “marxismo culturale” e “ideologia di genere” è un rischio per la democrazia, ma molto redditizio per i proprietari di piattaforme di social media.

Il costo per la democrazia è enorme quando le piattaforme digitali vengono utilizzate per la manipolazione politica. La “guerra culturale” basata sulla menzogna non avrebbe raggiunto tutta questa popolarità se non fosse stato per la capacità dei network di diffondere bugie e diffamazione. Vi sono sondaggi che indicano che le notizie false si diffondono sei volte più velocemente delle informazioni vere. Gli artefici della “guerra culturale” se ne sono accorti e hanno fatto delle bugie e delle mistificazioni lo strumento privilegiato della loro azione politica.

Bolsonaro è al potere proprio basandosi su questi algoritmi e sulla manipolazione di queste menzogne. Non ha un progetto di nazione, ha un progetto di potere che è fondato sulla distruzione morale delle personalità e della legittimità delle istituzioni democratiche.

Le intenzioni primordiali delle forze che sono al governo sono autoritarie, poiché l’operazione politica del bolsonarismo implica una narrazione manichea in cui tutte le forze (e le personalità) che non sono d’accordo con le posizioni del “presidente” sono automaticamente associate a un male assoluto che deve essere annientato.

Il progetto politico di Bolsonaro consiste nella completa distruzione delle forze di sinistra e progressiste e, in ultima analisi, della democrazia. Per questo la lotta per i “valori” è al centro della politica bolsonarista: sono esattamente i concetti di “guerra culturale” quelli che guidano questo governo.

La prospettiva politica impiantata dal bolsonarismo è autoritaria, poiché il dibattito democratico non contempla la dualità “amico-nemico” introdotta dalla concezione reazionaria bolsonarista. La divergenza di opinioni e posizioni è inerente al gioco democratico, ma il confronto democratico non comporta mai la distruzione fisica o simbolica dell’avversario. È questo, infatti, che differenzia la lotta per l’egemonia politica, concepita in un campo di confronto di idee, dalla visione della “guerra culturale”, che presuppone l’eliminazione delle idee dell’altro, sdoganando una violenza politica simbolica che apre la strada pericolosamente alla possibilità della violenza fisica.

Per condurre una politica di sterminio del nemico, Bolsonaro ha la necessità di affrontare con arroganza non solo le forze politiche a lui avverse, ma anche le istituzioni che garantiscono la politica democratica. La Costituzione e la Corte Suprema Federale, le università, la pubblica istruzione, la cultura e gli artisti, la stampa e il giornalismo e persino il potere legislativo, sono attaccati con una guerra il cui fine è la completa eliminazione del pluralismo negli spazi pubblici.

La strategia del bolsonarismo è quella di ridurre gli spazi attuativi e la complessità formale di tutte le altre istituzioni, partiti di sinistra e movimenti sociali inclusi, in una grande teoria della cospirazione in cui ciascuna di queste organizzazioni viene presentata come parte di un’articolazione diretta ad impiantare una “dittatura comunista anticristiana” nel paese.

Di fronte a questo pericolo, Bolsonaro e i suoi compari si atteggiano ad ultimo baluardo della “morale cristiana” e dei “valori occidentali”, essendo così gli unici in grado di affrontare e sconfiggere il “marxismo culturale”.

La riduzione e la semplificazione sono alla base della logica della “guerra culturale” formulata dall’attuale blocco reazionario brasiliano. Qualsiasi dibattito complesso viene ridotto a grossolane semplificazioni.

Per loro conto, i militari rappresentano – almeno dalla nascita del Partito Comunista Brasiliano negli anni 1920 – una versione fantasiosa della storia del Brasile, secondo la quale la sinistra sarebbe ciclicamente in procinto di prendere il potere nel Paese ed istituire un governo socialista. Dentro questa narrazione, l’esercito sarebbe l’ultimo baluardo in grado di prevenire l’imminente rivoluzione comunista. Dopo aver impedito tali prese di potere con la forza, l’ultima delle quali sarebbe avvenuta nel 1964, oggi i militari avrebbero il compito di resistere alla rivoluzione comunista portata avanti dall’occupazione da parte della sinistra degli apparati ideologici dello Stato: cultura, scuole e università, oltre alla stampa.

L’influenza di questo travisato pensiero militare è abbastanza visibile in Bolsonaro e nel suo governo imbottito di elementi delle Forze Armate. Il revanscismo dei militari e la base ideologica da essi costituita determina forza, e probabilmente predominio, nella formulazione ideologica del governo Bolsonaro.

Tuttavia, è necessario avere una visione multifattoriale nella costruzione di una percezione sulla “guerra culturale” bolsonarista. Il neofascismo che “esce allo scoperto”, almeno dal 2013, è plasmato da una miriade di gruppi.

Si tratta di una parte significativa di una classe media bianca, eterosessuale ed economicamente benestante, che aveva cominciato a percepire una minaccia del proprio status sociale a partire dalle politiche di inclusione sociale messe in atto dai governi progressisti.

Si aggiungono a costoro gli adepti del fondamentalismo religioso, soprattutto neo-pentecostale, che caldeggia le idee di “guerra culturale” a partire da altri presupposti che, sulla base della loro cosmologia religiosa e comunitaria, trovano un’enfasi nel ripudio di quella che chiamano “ideologia di genere” e altri temi comportamentali.

E si aggregano infine gruppi di origine neoliberista che incrociano il pensiero reazionario a partire dal substrato

ideologico che unisce moralismo e deregolamentazione economica, che sono la loro base valoriale.

Si tratta quindi di un’articolazione di più forze che lavorano insieme per sabotare la democrazia e il libero pensiero.

Il disprezzo per la cultura è il vettore strutturante della politica bolsonarista. Pertanto, è sbagliato percepire ciò che accade nell’area della Cultura come una banalità o come un accessorio. C’è un progetto in corso per cancellare la diversità e le differenze nel paese. Ciò implica la distruzione delle politiche pubbliche sviluppate, ma anche la riconquista della memoria da parte dell’oligarchia brasiliana. Bolsonaro intende riscrivere la storia nazionale, escludendo le persone come agenti della storia e riconquistando il trono dei dominanti.

Il bolsonarismo ha implementano nel suo governo diverse operazioni dirette alla cancellazione simbolica della diversità culturale.

In primo luogo con il soffocamento finanziario: il bilancio per la cultura è in calo dal 2016, ma l’arrivo di Bolsonaro ha intensificato questo processo che è culminato in una riduzione del 78% degli investimenti pubblici nel 2021.

In seguito, lo smantellamento istituzionale, iniziato con l’estinzione del ministero e seguito dall’occupazione del Segretariato alla Cultura e delle sue autarchie e istituzioni da parte di personaggi chiaramente contrari alle loro proprie politiche. In questo senso è illuminante – e certamente il più aberrante, ma non l’unico – il caso della Fondazione Culturale Palmares, in cui il presidente dell’istituzione, responsabile per le politiche di tutela della cultura di origini africane, esprime opinioni apertamente razziste.

Infine, si assiste in maniera palese al ritorno delle politiche di censura e di persecuzione di artisti e creatori di cultura, anche attraverso l’intimidazione di coloro che attuano nelle reti sociali.

Chiaramente l’obiettivo è la completa distruzione delle strutture capaci di sviluppare il pensiero critico e di proporre una versione alternativa della vita contemplata dal bolsonarismo. Il fine della “guerra culturale” è lo sterminio simbolico dell’altro. È una tecnica di potere – come ammoniva Foucault – finalizzata al dominio autoritario. Un meccanismo di eliminazione collaudato e senza fine. La devastazione diventa uno strumento di potere fine a se stesso.

Per contrastare questo progetto di genocidio sociale è fondamentale ricollocare e discutere il tema della cultura – sia in Brasile che a livello globale – come elemento strategico fondamentale per la piena realizzazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali.

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