La lotta per i diritti delle donne brasiliane

di Lavinia Clara Del Roio e Alessandro Vigilante

Il femminismo decoloniale

Nel sistema di potere globale, il controllo del lavoro, delle sue risorse e della produzione è delegato all’impresa capitalista. Il controllo del sesso, delle sue potenzialità e della riproduzione appartiene alla famiglia borghese. Il controllo dell’autorità, dei suoi mezzi e dei suoi fini è in mano allo stato-nazione. Infine, il controllo dell’intersoggettività e delle comunità globali è marcato dall’eurocentrismo atlantico.

Pensare in termini di intersezione delle modalità di dominazione significa rendersi conto che non può esserci alcun primato di un tipo di oppressione sugli altri. Inoltre, poiché tutte le oppressioni sono strutturali, la contestazione del potere rinvia necessariamente a un’azione di rottura verso l’insieme della struttura. Questa consapevolezza porta (può portare) ad una radicalizzazione globale del femminismo, attraverso la comprensione che fattori come razza, classe, genere sono variabili co-costitutive, cioè sono elementi che si inscrivono l’uno nell’altro e non possono essere pensati separatamente. Vengono prodotti in relazione agli altri e articolano e rinforzano i vari sistemi di dominio.

Tuttavia, la razza ha un ruolo fondamentale nella logica della colonialità del potere e, di conseguenza, ha anche più fortemente ordinato le relazioni di genere nella produzione di subordinazioni e nella stigmatizzazione delle soggettività femminili. Razza e genere sono segni che danno senso ai corpi e, sotto il pregiudizio della colonialità, legittimano la dicotomia umano/non-umano, riposizionando i rapporti di superiorità e inferiorità tra l’uomo occidentale e il colonizzato.

Studi effettuati oltre il Nord del mondo mostrano che i popoli originari, i popoli nativi, i gruppi sociali e comunitari colonizzati non avevano (e ancora non hanno) una struttura di genere come quella impressa nella colonia dalla metropoli. Questi popoli sono organizzati secondo altre cosmologie, altri presupposti ontologici, con ruoli di genere più transitori e fluidi, con una divisione dei compiti che diverge dalla divisione sessuale del lavoro, con una maggiore apertura all’omosessualità, con identità che differiscono o sfuggono al binomio donna/uomo, o finanche sprovviste di un sistema istituzionalizzato della identità di genere.

A partire da tali studi, si delinea un vero e proprio ‘femminismo decoloniale’, che propone un riscatto dei contesti locali e mira alla reinterpretazione della storia per comprendere le reali basi del razzismo radicato nelle istituzioni e nella soggettività. Il suo principale contributo risiede nell’indicare il genere come categoria non essenzializzata, relazionale, razzializzata, situata storicamente e geograficamente.

Il femminismo decoloniale contribuisce inoltre a rivelare che la colonialità di genere persiste ancora oggi nelle pratiche quotidiane, e che è però possibile ricreare e sovvertire i confini stabiliti, elaborando una genealogia del pensiero critico dalle periferie, dai margini: un femminismo antirazzista di origine latinoamericana, impegnato a smantellare la matrice dell’oppressione eurocentrica. Il suo ragionamento di fondo è che le donne in America Latina non solo furono colonizzate, ma anche razzializzate. E la colonialità, basata sull’idea di razza, ha creato, e crea ancora oggi, corpi diversi e, di conseguenza, modi diversi di vivere i corpi.

Questi corpi, pensati come territori politici, portano i dolori e i paradossi di specifici segni culturali che forgiano esperienze diverse, ma combinano anche tra loro le più diverse strategie di lotta. Il movimento femminista decoloniale si presenta, in questo senso, come un atto etico-politico capace di destabilizzare le forme consensuali di produzione della conoscenza e di riposizionare le donne in un’ottica prospettivista: per ribadire che non esistono semplici fenomeni fattuali incontestabili, ma solo interpretazioni della realtà.

L’attacco della destra reazionaria

Da qualche anno sono nuovamente in auge vecchie tesi reazionarie, autoritarismi, nazionalismi, fascismi e violenze patriarcali. Il Brasile è un paese particolarmente indicativo di questa aggressiva regressione ideologica, che si è emblematicamente concretizzata nell’impeachment dell’ex presidente Dilma Rousseff e successivamente nel femminicidio politico della consigliera Marielle Franco. Questi episodi hanno mostrato come il tasso di violenza contro le donne sia aumentato in maniera evidente. Essendo state elette da partiti politici di sinistra, la violenza politica di genere subita da queste due donne è palesemente rappresentativa tanto della fonte, quanto della morte della stessa democrazia brasiliana.

D’altronde, non è certo un caso che le questioni di genere siano l’epicentro della crisi contemporanea nelle democrazie liberali. L’espressione “ideologia di genere” viene sempre più utilizzata dai settori neoconservatori per una sorta di offensiva globale e aggiornata dell’antica “caccia alle streghe”.

Siamo, insomma, di fronte ad una nuova crociata, con un brutale attivismo cristiano contro la cosiddetta “ideologia di genere”. Attraverso l’appropriazione di questo termine, gruppi politici e religiosi sono riusciti a bandire, negli ultimi anni, la prospettiva di genere dai principali quadri normativi dell’istruzione pubblica brasiliana.

È importante sottolineare che tale supposta “ideologia di genere” non è un concetto scientifico, bensì una distorsione semantica, un dispositivo retorico forgiato da intellettuali e teologi cattolici sul finire del secolo scorso. La sua effettiva origine si può riscontrare in specifici dibattiti realizzati in Vaticano e, più in particolare, nell’elaborazione di una controstrategia a seguito degli sviluppi della Conferenza delle Nazioni Unite su Popolazione e Sviluppo, nel 1994 al Cairo, e della Conferenza Mondiale sulle Donne nel 1995. In ogni caso, l’attivismo religioso contro gli studi di genere ha acquisito vera forza e visibilità solo dopo il primo decennio del XXI secolo. Diffusosi rapidamente in molti paesi dell’America Latina e dell’Europa, in questi ultimi anni è stato utilizzato per mettere in discussione e distorcere la scientificità del concetto di genere.

Così, sebbene creata nella tradizione cattolica, la categoria “ideologia di genere” è stata discussa nel Parlamento brasiliano inizialmente per impulso di parlamentari evangelici e, più tardi, anche per la spinta di gruppi politici laici conservatori. Poi, durante il processo di approvazione del Piano Nazionale per l’Istruzione del 2014, i leader cattolici ed evangelici si sono coalizzati per bandire esplicitamente la prospettiva di genere dall’istruzione. La loro spinta è andata oltre il Parlamento centrale e negli anni successivi ha raggiunto tutti i 26 stati brasiliani. Di fatto, in tutto il paese, i piani educativi statali approvati hanno escluso espressioni come genere, sessualità, orientamento sessuale e diversità sessuale.

Nello stesso periodo abbiamo assistito a una vera e propria valanga legislativa volta a limitare i diritti sessuali e riproduttivi. Nell’aprile del 2016, durante il voto sull’impeachment della presidente Dilma Rousseff, la maggioranza dei parlamentari a favore della destituzione dichiaravano il proprio voto giustificandolo – guarda caso – proprio in nome della difesa della famiglia tradizionale e contro la presunta “ideologia di genere”.

Nell’ambito delle elezioni presidenziali del 2018, la narrazione anti-gender è stata al centro dei dibattiti nazionali promossi dal candidato Bolsonaro. Utilizzando abilmente i social media, la sua campagna ha intrapreso con enfasi l’offensiva contro la cosiddetta “ideologia di genere”, ottenendo un sostegno decisivo dall’elettorato evangelico (e anche dall’elettorato cattolico) e consolidando una potente alleanza nazionale tra gruppi politici religiosi – rappresentati principalmente dal Fronte Parlamentare Evangelico – e movimenti di estrema destra.

Tale offensiva ha però innescato la reazione di migliaia di donne che hanno contribuito ad organizzare il movimento #EleNão [#LuiNo].

Le campagne femministe

Ricordiamo tutti la mobilitazione sociale senza precedenti che ha alimentato la campagna #MeToo nel 2017, avviata anni prima dall’attivista afroamericana Tarana Burke e trasformatasi in protesta globale contro le molestie sessuali e l’aggressione alle donne. Si è trattato di un’iniziativa con ripercussioni incredibili. Milioni di persone hanno aderito all’hashtag #MeToo e ad altre campagne regionali e nazionali, come #NiUnaMenos [#NessunaDiMeno], un movimento femminista latinoamericano, oppure il # Я не боюсь сказати (# non ho paura di dirlo) in Ucraina. Si tratta di campagne che hanno denunciato le molestie sessuali e le altre forme di violenza che le donne di tutto il mondo subiscono ogni giorno.

Rompere il silenzio e dare visibilità alle donne è il primo passo per trasformare la cultura della violenza sulle donne nei suoi più svariati modi. Perciò le campagne sono importanti: perché danno voce ad atti pubblici continuamente messi a tacere e neutralizzati dalle convenzioni sociali o dai costumi tradizionali.

È un crudele privilegio poter molestare una ragazza o una donna impunemente, ma in molti casi questa è la norma. Man mano che si dà visibilità alla diversità delle donne, e che esse ottengono la possibilità di raccontare le loro storie, prende forma una massa critica che dimostra cosa c’è di sbagliato quando alcune persone sentono di poter agire impunemente in una cultura che zittisce e rende invisibili le donne in posizioni e contesti meno privilegiati.

Un’altra campagna fondamentale lanciata dall’ONU-Donne è #ElesPorElas [#EssiPerEsse], un movimento che invita uomini e ragazzi a mostrare solidarietà con le donne, a riflettere sulla propria mascolinità e su valori, privilegi e posizioni di potere formali e informali, al fine di creare una forza unita che promuova l’uguaglianza. Si tratta di sfidare il sessismo, il dominio e il privilegio maschile come norma sociale, a partire dalla costruzione di modelli maschili positivi. I genitori possono mettere in pratica i principi di uguaglianza, diritti e rispetto mentre crescono i loro figli e le loro figlie; e gli uomini possono invitare i loro coetanei a riflettere su comportamenti che ora sono considerati la punta inaccettabile dell’iceberg delle molestie.

Le lotte delle donne in Brasile

In termini di mobilitazione delle donne, l’anno 2018 era stato particolarmente significativo. L’8 marzo, in Brasile e in molti altri paesi si svolse uno sciopero internazionale delle donne, i cui principali obiettivi furono di denunciare la violenza e far riconoscere la centralità della riproduzione sociale nella lotta anticapitalista.

Pochi giorni dopo, le donne brasiliane scesero di nuovo in piazza, questa volta per denunciare l’assassinio della consigliera comunale di Rio de Janeiro Marielle Franco, donna nera, lesbica e della favela. Il 14 marzo Marielle fu fatta bersaglio di colpi d’arma da fuoco: 13 proiettili hanno raggiunto la sua auto e 4 di essi l’hanno uccisa.

Ma la sua morte è divenuta un potente fattore di rivolta.

Dopo la veglia funebre avvenuta nella città di Rio de Janeiro, varie manifestazioni ci sono state in altre località. Migliaia di donne, in lutto, si sono alzate e hanno occupato le strade del Paese. Nella città di San Paolo, 30 giorni dopo l’omicidio, centinaia di donne hanno nuovamente occupato l’arco del Museo d’Arte di San Paolo (MASP) e hanno camminato lungo la centrale Avenida Paulista. I loro corpi allineati hanno denunciato l’impunità, il machismo e il genocidio dei neri. Tra canzoni, dichiarazioni emozionate e percussioni, le donne hanno scritto per le strade e sull’asfalto i nuovi segni della loro esistenza violentemente respinti.

Un anno dopo, due poliziotti implicati nei gruppi di sterminio (e legati indirettamente alla famiglia Bolsonaro) sono stati arrestati per il delitto. Sono evidenti le motivazioni politiche dell’assassinio; ma i precisi mandanti restano ancora sconosciuti.

Infine, sei mesi dopo, si è assistito alla più grande mobilitazione di strada nella storia recente del Brasile: migliaia di donne hanno occupato tutte le capitali del Brasile e molte città in giro per il mondo. Si è trattato del movimento #EleNão, che si opponeva alla candidatura di Jair Bolsonaro alla presidenza della repubblica.

Il nuovo movimento femminista e la critica al sistema

La traiettoria di queste forze antagoniste e di concreta resistenza consente alcune considerazioni.

In primo luogo, la campagna reazionaria transnazionale contro gli studi di genere dimostra come i diritti sessuali e riproduttivi siano stati attaccati dalla controffensiva religiosa, il cui tutoraggio intellettuale è guidato dalla Chiesa cattolica apostolica romana.

In secondo luogo, forze laiche e di estrema destra si sono unite a questi attacchi, usandoli come strumento per un’aggressiva avanzata neoliberista.

In terzo luogo, nonostante questo scenario, le conquiste, le resistenze e le alleanze femministe mostrano la propria forza contestatrice e destabilizzante. Le azioni compiute dalle donne, dai movimenti femministi e LGBTQIA+ hanno saputo tener testa alla controffensiva religiosa e alla restrizione dei diritti.

In Brasile, per respingere la candidatura di Bolsonaro si è formato il movimento “Donne contro il fascismo” che ha diffuso il motto-hashtag #EleNão. Sul social network Facebook, il movimento ha coinvolto circa 3 milioni di partecipanti al gruppo e il 29 settembre 2018 ha prodotto una delle più grandi manifestazioni della recente storia brasiliana. In tutti gli Stati brasiliani, milioni di donne hanno gridato: “Lui No!”.

E però, nonostante la grande marcia e le manifestazioni diffuse su tutto il territorio nazionale, dalle elezioni del novembre 2018 Bolsonaro è uscito ugualmente vittorioso. E non ha mancato di ringraziare subito le forze che lo avevano portato allo scranno presidenziale.

Così, nel gennaio 2019, un’avvocata dello Stato del Paraná, Damares Regina Alves, ha assunto la carica di Ministro per le Donne, la Famiglia e i Diritti Umani nel governo Bolsonaro. Ella è Pastore della Chiesa Quadrangolare, un culto neo-pentecostale conservatore, e ha svolto per più di vent’anni il ruolo di rappresentante del Fronte Parlamentare Evangelico. Sottovalutare la sua traiettoria politica ed assegnarle il ruolo di burattino del governo nella produzione di “cortine fumogene” sminuisce la sua importanza nella coalizione conservatrice che ha reso possibile l’elezione dell’attuale presidente e riproduce uno schema gerarchico che sottostima l’attuazione politica delle donne e ne nega il protagonismo. Le donne cominciano a pesare, in sostanza, in tutti i lati dello schieramento politico…

Dunque, con l’elezione di Bolsonaro una battaglia specifica è stata persa, ma la lotta continua.

Se gli attacchi reazionari anti-genere e la contromobilitazione sono transnazionali, anche le lotte delle donne e dei movimenti femministi e LGBTQIA+ hanno varcato i confini degli stati-nazione e, allo stesso tempo, hanno messo radici capillari e profonde. Esse mantengono legami anche tra realtà distanti, che mostrano l’internazionalizzazione della lotta alla violenza, la richiesta di parità di retribuzione, il riconoscimento della centralità della riproduzione sociale. Si tratta di una lotta anticapitalista e di un “femminismo per il 99%”, che propone altri mondi possibili.

Le richieste delle donne – metà della popolazione – mettono necessariamente in discussione l’ordine delle cose. Questo femminismo è trasformativo e propone una vera alternativa all’avanzamento del neoliberismo e della destra perché abbraccia problematiche globali.

È una prospettiva che sfida le radici del nostro sistema – la distinzione tra lavoro produttivo e riproduttivo, per esempio; o il contratto sociale, che non può più essere definito senza la sua parte di ‘contratto sessuale’. È un movimento che propone un altro modo di pensare e di fare le cose, un altro modo possibile di vivere. E quindi di costruire il mondo.

Va sottolineato con forza: è un errore considerare semplici fattori sovrastrutturali le questioni inerenti alle minoranze e quelle che si occupano delle linee guida comportamentali, poiché esse influenzano direttamente tanto l’economia (come rivelano gli impatti della dirompente riforma delle pensioni approvata in Brasile), quanto l’istruzione (come evidenziato dalle controversie rispetto ai piani educativi). Non si tratta affatto di questioni private o settoriali. La presunta contraddizione minoranze/economia ignora l’appropriazione neoliberista delle norme di genere e l’intersezione tra disuguaglianze di genere, razza/etnia e classe. Dopo tutto, esse si stanno strutturando e operano insieme nella produzione e nell’espansione della precarietà.

L’attività politica insistente e persistente di donne, femministe e persone LGBTQIA+ mostra, nelle reti sociali e per le strade, forme di lotta incarnate e plurali di resistenza, apparenza, solidarietà ed alleanza. In questo senso, quando le donne nere hanno occupato le strade e le piazze di tutto il Paese per rivendicare il lutto e le indagini sull’omicidio di Marielle Franco, hanno sperimentato ulteriori forme di esistenza e resistenza visibili rispetto alla traiettoria di quella “donna, nera, madre, lesbica e di periferia” che, per parafrasare Angela Davis (2017), aveva scosso le strutture del maschilismo, del razzismo, dell’eteronormatività e delle disuguaglianze di classe.

Le forme di sostegno, occupazione e produzione di spazi di visibilità pubblica, anche sui social network, sovvertono l’opposizione pubblico-privato e ratificano la vecchia massima femminista “il personale è politico”, espandendola nel senso del “domestico è pubblico”. Pertanto, rifiutano l’idea dell’impossibilità di un’azione politica nell’ambiente domestico.

Le testimonianze virtuali di molestie sono un potente esempio di questa forma di apparizione e azione politica; e rivelano anche il modo in cui le reti sociali possono essere configurate come uno spazio politico da disputare. In questi spazi virtuali, i corpi sono alleati in un modo che non sarebbe altrimenti consentito.

Gli strumenti informatici, quindi, non sono soltanto dei mezzi attraverso i quali le donne, i loro gruppi e le loro organizzazioni sono riusciti ad acquisire visibilità, ma sono spazi in se stessi, oggetti di azione, apparenza e alleanza, basati sulla condivisione della vulnerabilità. I social network, infatti, possono essere utilizzati anche come piattaforma e “supporto” per l’azione politica e per il riconoscimento delle soggettività che agiscono. Offrono sostegno politico, affettivo ed efficace per la comparsa, il riconoscimento e la condivisione della loro precarietà; ma anche, e proprio per questo, spingono alla solidarietà.

Le manifestazioni recenti del 2021

Anche nel mezzo della pandemia, le donne brasiliane hanno continuato a produrre forme di organizzazione e centinaia di azioni decentralizzate nelle case, nelle strade e nelle reti in tutto il paese. Nonostante vivano nella pelle, ogni giorno, il lutto familiare e sociale, esse sono riuscite a garantire le organizzazioni di eventi con cura, creatività e impeto femminista nei diversi contesti.

“Donne in lotta per la vita: fuori Bolsonaro, vaccino per tutta la popolazione e sussidi emergenziali subito!” è stato il motto centrale che ha riunito più di 1300 movimenti, organizzazioni e collettivi di donne da tutto il Brasile nel processo di costruzione della mobilitazione dell’8 marzo 2021.

In particolare, la sezione brasiliana della Marcia Mondiale delle Donne (MMM), movimento femminista internazionale che sostiene l’uguaglianza di genere e mira ad agire contro la discriminazione delle donne e ridurre la violenza nei loro confronti, ha partecipato alla costruzione di una Manifestazione Nazionale Virtuale Unificata nei giorni precedenti, aggregando più di 80 organizzazioni. L’evento live ha dato modo di realizzare discorsi politici e interventi artistici di tutte le organizzazioni che hanno poi firmato il Manifesto Nazionale brasiliano dell’8 marzo 2021.

Così il Manifesto Nazionale 8 marzo 2021 ha annunciato le parole d’ordine del movimento femminista brasiliano: FUORI BOLSONARO! VACCINO PER TUTTA LA POPOLAZIONE! SUBITO I SUSSIDI DI EMERGENZA! FINE DELLE VIOLENZE CONTRO LE DONNE!

Il Manifesto ricorda anche che nella pandemia le disuguaglianze di classe, razza e genere si sono ulteriormente aggravate. La tragedia umanitaria è andata ben oltre il virus e le morti, con l’aumento della povertà e la crescita aberrante della popolazione senzatetto.

Si insiste poi sulla violenza domestica, politica, istituzionale ed ostetrica, che continua ad uccidere le donne. Si assiste quotidianamente alla loro morte all’interno delle proprie case, e il Brasile è al 5° vergognoso posto al mondo nella classifica dei femminicidi. Non solo. Il Brasile è primo al mondo in omicidi di donne trans e presenta un aumento tanto dei crimini d’odio contro la popolazione LGBTQIA+, quanto della violenza della polizia e delle incarcerazioni nei confronti della popolazione nera e india.

Del resto, è noto che la politica del governo Bolsonaro fa sì che i popoli nativi e quilombola continuino a subire lo sterminio, con l’espulsione dai loro territori, l’omicidio dei loro leader, il dilagare del virus e l’aumento della fame e della miseria.

Dunque: al centro ci sono le questioni tipiche del movimento femminista, ma anche la critica frontale al governo Bolsonaro. E lunedì 8 marzo le reti hanno alimentato una grande mobilitazione e presenza, soprattutto su Twitter, con migliaia di messaggi di denuncia e allo stesso tempo promuovendo le richieste del movimento con l’hashtag #MulheresPeloForaBolsonaro [#DonnePerIlFuoriBolsonaro].

Per quanto concerne la MMM Brasile, essa ha organizzato ed è stata presente in almeno 30 azioni esterne, realizzate in più di 20 località in tutto il Paese. In molti Stati le azioni si sono attuate in collaborazione con i movimenti popolari con cui già si erano realizzate alleanze nel campo del Fronte Brasile Popolare: come l’MST, la Consulta Popolare, la Gioventù della Rivolta Popolare, i sindacati, i partiti e vari movimenti popolari locali.

La MMM è riuscita, insieme ad altri movimenti, ad esporre striscioni con slogan di lotta in decine di snodi stradali di traffico e punti strategici in varie città. In 6 capitali sono stati realizzati cortei di automobili, con carri acustici, coniugando azioni di solidarietà, di distribuzione di alimenti e di prodotti di igiene. In altri casi, sono stati inscenati interventi artistici, atti simbolici e azioni per denunciare la violenza contro le donne.

In 14 città di medie dimensioni sono stati organizzati in modo decentralizzato atti simbolici davanti a strutture pubbliche, piazze e viali, con striscioni, tamburi, manifesti, urla e slogan per esprimere l’indignazione e l’impeto femminista. Tali azioni sono state progettate anche per avere un impatto sui social network, in maniera da indirizzare l’agenda del movimento e anche per connettersi con le compagne che accompagnavano da casa. L’intuito delle attiviste è stato quello di articolare, eseguire e rendere visibili le azioni a partire dalla produzione di fotografie, video, audio e testi, con l’obiettivo di far circolare il più possibile ciò che veniva realizzato nelle manifestazioni.

Ancora una volta le donne sono state sorprese dalla loro stessa creatività: anche se fisicamente separate, impossibilitate a realizzare grandi manifestazioni per le strade, erano più connesse che mai nelle azioni locali, nelle città di provincia e nelle capitali, nei quartieri e nelle piazze di tutto il Brasile. Durante la prima pandemia del XXI secolo e di fronte alle crisi sistemiche a cui stiamo assistendo in Brasile, le donne del movimento stanno così affrontando la sfida di costruire un’unione per un nuovo progetto di società. A partire dal femminismo anticapitalista e antirazzista, si collocano nell’attuale congiuntura costruendo alternative basate sulle pratiche quotidiane di auto-organizzazione.

Tre urgenze della lotta femminista: sanità, reddito e maternità libera

La crisi sanitaria ha posto al centro del dibattito l’importanza dell’azione dello Stato e dei servizi pubblici, resi precari dall’emendamento costituzionale del 2016 che ha congelato per 20 anni gli investimenti nelle politiche sociali, sanitarie e educative. Lo smantellamento della sanità è uno degli obiettivi dell’offensiva ultraliberale del governo Bolsonaro, volta a privatizzare e vendere società pubbliche a beneficio del capitale finanziario internazionale. Fa parte della stessa strategia, la riforma amministrativa, che, introducendo la valutazione periodica e la riduzione della stabilità dei dipendenti statali e municipali, li indebolirà, determinando la distruzione dei servizi pubblici.

La politica economica ultra-neoliberista di Bolsonaro e del suo Ministro dell’Economia Paulo Guedes pone il profitto al di sopra della vita: le banche e gli uomini d’affari guadagnano, mentre le donne, i poveri, i neri e gli abitanti delle periferie sono coloro che muoiono di più. Le azioni del governo hanno contribuito alla diffusione del virus, non dando priorità alle azioni non farmacologiche di prevenzione del contagio e agli investimenti nel settore sanitario ed ignorando l’importanza e l’urgente necessità del vaccino. E questo non è solo un nostro giudizio: sta emergendo con evidenza anche dalle prime sedute della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulla gestione della pandemia, recentemente istituita.

Più in generale, durante la pandemia è diventata ancora più esplicita l’importanza del Sistema Sanitario pubblico Unificato (SUS) per garantire la vita del popolo brasiliano. Sono le donne la prima linea della lotta al Covid-19, nella misura in cui continuano ad assumersi la responsabilità del lavoro di cura e della salute di tutte le persone, anche al chiuso. E le donne chiedono che sia realizzata la campagna di vaccinazione in maniera urgente ed immediata per l’intera popolazione, in forma gratuita e universale, con la cessazione dei brevetti su farmaci e vaccini e la garanzia di investimenti nel sistema sanitario pubblico e in scienza, ricerca e tecnologia. Il movimento delle donne ritiene inaccettabile che il vaccino venga utilizzato a fini elettorali o che sia ad esclusivo beneficio delle industrie farmaceutiche.

E accanto al tema della sanità, c’è l’urgente questione del reddito. Il sussidio mensile di emergenza è stato il risultato di molte pressioni popolari, ma ha escluso lavoratori agricoli familiari, contadini, pescatori, artisti, tra gli altri. Tuttavia, tali aiuti sono stati fondamentali per la sopravvivenza di circa 55 milioni di persone nel paese nel 2020. Le donne pretendono il mantenimento dell’importo mensile di R$600,00 (circa 100 euro) e l’estensione della loro distribuzione fino alla fine della pandemia.

Infine, è divenuta davvero ultimativa la questione della maternità come libera scelta. Bolsonaro ha approfittato della pandemia per smantellare le politiche pubbliche per le donne e ha imposto una visione reazionaria e conservatrice della famiglia, attaccando frontalmente i diritti sessuali e riproduttivi delle donne con un’ordinanza che rende difficile l’accesso all’aborto anche nei casi garantiti dalle leggi. La battaglia diviene perciò contro gli atti della ministra competente Damares, che tenta di impedire penalmente il diritto all’aborto legale vigente, perfino in conseguenza di violenza sessuale contro bambine e adolescenti.

La maternità deve essere frutto di una decisione: non può andare avanti senza il consenso delle donne. È necessaria l’educazione sessuale per prevenire, la distribuzione dei contraccettivi per non rimanere incinte e l’aborto legale per non morire. È ora di istituire la sua legalizzazione, come avvenuto di recente in Argentina.

Il grido di milioni di donne in tutto il Brasile è ancora forte: è necessario far decadere Bolsonaro e il suo governo genocida, costruire alternative di vita, recuperare la democrazia, mettere la cura e una vita dignitosa al centro della politica. Non c’è democrazia in presenza del razzismo; e la democrazia non è reale per tutti finché non possiamo decidere con autonomia sui nostri corpi, territori e vite.

In altre parole, le donne esistono (e resistono) per trasformare la società.

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