Due popoli, mille comunità e una federazione per la Palestina

Uno

La politica israeliana di occupazione illegale delle terre e delle case dei palestinesi, con la conseguente ‘pulizia etnica’ praticata a colpi di cannoni e di carte bollate (sulla base di leggi basate sull’apartheid dei cittadini non ebrei e non bianchi), ha cancellato ogni residua possibilità di praticare quanto l’ONU aveva ufficialmente stabilito con la risoluzione 181 del lontano 1947.

Bisogna pur dirlo: oggi come oggi, “due popoli, due stati” è diventato uno slogan buono solo per il politically correct dei discorsi ufficiali dell’intellighentia progressista occidentale. Purtroppo, non è più una ipotesi realizzabile.

E l’assenza di una proposta alternativa indebolisce sia le aree progressiste e rivoluzionarie in seno ai palestinesi e sia le spinte “per la pace giusta” che vengono dall’interno del mondo israeliano e dalle comunità ebraiche del mondo.

Rebus sic stantibus, la lotta armata dei Palestinesi contro Israele, stato invasore di territori che, secondo le convenzioni internazionali, appartengono ai Palestinesi, è assolutamente legittima. Ma con tutta evidenza è anche assolutamente inefficace, tanto a causa dello strapotere economico e militare di Israele, quanto a causa della progressiva asfissia delle proposte politiche per la Palestina.

In realtà, già prima degli ultimi eccidi di palestinesi, la parola d’ordine “due popoli, due stati” aveva perso di significato.

Punto di svolta fu l’assassinio, il 4 novembre 1995, del premier israeliano Yitzhak Rabin da parte di due terroristi israeliani, Ygal Amir e Drod Adani, coloni e sostenitori del Likud, il partito di ispirazione neofascista di Ariel Sharon e Benjamin Netanyahu.

L’attentato – ben organizzato, probabilmente con la regia di organizzazioni terroristiche israeliane – ebbe il doppio scopo di eliminare il più importante sostenitore interno degli accordi di Oslo del 1993 e di privare l’area progressista ebraica di un riferimento e di una leadership affidabile.

Subito dopo, la destra nazionalista e conservatrice del Likud riuscì a sfruttare la morte del premier israeliano e l’insicurezza determinata da altri attentati di medesima ispirazione: la maggioranza dell’opinione pubblica israeliana, inizialmente entusiasta del processo di pace e degli accordi di Oslo, nel volgere di pochi mesi, intimorita dall’incertezza politica e dalla strategia della tensione, nelle elezioni del giugno 1996 premiò il Likud ed elesse a premier, per la prima volta, il famigerato Benjamin Netanyahu.

Due

“Due popoli, due stati” era stato, fino ad allora, un obiettivo corretto e coerente con lo spirito dei tempi. Le lotte di liberazione nazionale erano considerate “guerre giuste” finanche negli accordi internazionali che avevano dato vita all’ONU (dalle ceneri della vecchia Società delle Nazioni). E, in aggiunta, l’antimperialismo si intrecciava con le lotte del movimento operaio nei paesi a capitalismo avanzato.

Ma dopo lunghi decenni di aggressioni e massacri compiuti da Israele contro il popolo palestinese in nome dello “spazio vitale”, le “forze democratiche e progressiste” (come si diceva una volta) della società palestinese, come anche le forze armate attualmente gestite da Hamas, sono obiettivamente chiamate a ripensare i termini politici dello scontro.

Il punto è che proprio il “campo del conflitto” a suo tempo scelto, ovvero quello della ‘nazione’, è divenuto, con gli attuali rapporti di forza, irrimediabilmente favorevole agli israeliani.

È una ‘valutazione di realtà’ che non ha niente a che vedere con la resa o con ipotesi di ulteriori compromessi al ribasso. Anzi. La lotta occorre continuarla e farla più forte, ma adeguando gli obiettivi e i mezzi alla fase e ai veri punti di debolezza dell’oppressione israeliana.

In altre parole, possiamo qui disquisire quanto vogliamo su quanto sarebbe giusto (o sbagliato) “eliminare” lo stato di Israele, oppure se la prospettiva di “due popoli, due stati” fosse comunque quella più avanzata. Ma di fatto si tratterebbe di discussioni accademiche, poiché la politica colonialista di Israele consegna alla contemporaneità e alle aree politiche democratiche e internazionaliste una situazione nella quale entrambe le prospettive risultano impraticabili.

Tre

Quale strada realisticamente rimane?

È evidente che disegnare una strategia alternativa non è compito di una rivista, né tantomeno di uno che la Palestina ce l’ha nel cuore ma non l’ha vista neanche con il cannocchiale.

Ma può essere forse utile discuterne ‘a distanza’, senza avere immediatamente addosso il peso degli eroi bambini morti e del sangue che ancora sfregia le pareti di case e le piazze distrutte dai bombardamenti terroristici di uno stato invasore.

“Se io fossi nato lì – ebbe a dire una volta Andreotti, sì proprio il ‘divo Giulio’ – sarei certamente un terrorista”. E così è: ma appunto per questo a volte è utile anche il ragionamento a distanza, se riesce a cogliere elementi del contesto che, a stare dentro il quotidiano strazio di diritti e di vite, si rischia di perdere di vista.

Incominciamo a definire l’avversario, che non è né l’ebreo, né la sua religione e neanche, forse, il sionismo originario delle comuni (kibbuts). L’avversario è il complesso politico-militare che governa Israele, unitamente alla sua ideologia, il sionismo nazionalista, che dal secondo dopoguerra è divenuta sempre più aggressiva e razzista, capovolgendo il comunitarismo pacifista delle origini.

E il punto debole di questo avversario non è sicuramente la capacità militare e neanche la sua parziale dipendenza dagli USA.

Israele è forte e terrificante quando può colpire con i propri bombardieri e i propri missili. I governi di ispirazione fascista che dal 1996 stanno gestendo la politica di annessione e aggressione nei confronti dei palestinesi puntano, quando ci sono difficoltà politiche, sull’incidente e sul riaccendersi della tensione.

D’altra parte, tutti gli attacchi militari che sono stati portati a Israele, già a partire dalla guerra dei sei giorni, data la loro scarsa efficacia, lo hanno rafforzato dal punto di vista operativo e dal punto di vista del consenso.

Ma non siamo davanti a una situazione granitica. Il nazionalismo israeliano potrebbe avere un punto debole proprio sul lato del consenso, se il tavolo fosse sgomberato dalle precipitazioni militari.

Quattro

Fin dalla sua fondazione, Israele non è stata mai uno ‘stato democratico’. È stato, piuttosto, una caserma a cielo aperto, un paese sotto una ‘quasi legge marziale’, giustificata urbi et orbi dalla necessità di difendersi dagli attacchi dei nemici (gli arabi, i palestinesi, gli iraniani, Hamas etc…).

E sempre con la medesima giustificazione questo paese si è dato leggi per cui vi sono cittadini di serie A (ebrei di pelle bianca), cittadini di serie B (ebrei di pelle scura) e cittadini di serie C (arabi palestinesi). L’apartheid è sancita “legalmente”, tant’è che i cittadini di serie B e C non possono neanche fare ricorso o costituirsi in giudizio contro espropri o violenze, non possono organizzarsi in sindacati, e il diritto di proprietà è riconosciuto in forma inviolabile solo ai cittadini di serie A.

Se dunque la materia del contendere non fosse più la costituzione di un ‘altro stato’, coi suoi confini e il suo potenziale militare, ma direttamente la trasformazione di quello esistente in uno stato democratico, allora il nemico, il nazionalismo sionista, potrebbe andare in difficoltà. Se la minaccia militare compatta l’opinione pubblica di Israele e delle comunità ebraiche nel mondo, la pratica dei diritti umani e di cittadinanza potrebbe invece dividerla profondamente.

Se si dovesse per esempio scrivere una Costituzione unica per Israele e per la Palestina (Israele non ha una costituzione): come potrebbe veder la luce, in questa epoca, un articolo della legge fondamentale che classificasse formalmente i cittadini e i rispettivi diritti sulla base della religione, del colore della pelle e della provenienza geografica? Nessuno potrebbe rimettere nero su bianco le famigerate Leggi di Norimberga dell’epoca nazista…

Certo, potrebbero adottare una costituzione democratica e poi continuare ad esercitare l’apartheid di fatto e non dichiarato. Ma, come in USA e in Sud-Africa, l’apartheid si può combattere e vincere.

Mentre sul terreno della nazione, il nazionalismo sionista ha gioco facile, sul terreno della democrazia sociale non è assolutamente detto che abbia la stessa forza.

Cinque

Sarebbe, insomma, una battaglia sociale e politica che rimetterebbe tutto in gioco. Nel senso che attraverserebbe la società e l’opinione pubblica israeliana, ebraica, araba e palestinese, dividendola sulla base di identità ben diverse da quelle nazionali o religiose.  

Uno stato unico di Israele e Palestina. Solo a dirlo, sembra oggi una utopia impraticabile. Ma potrebbe essere davvero l’unica strada. Soprattutto se diventasse programma politico di uno schieramento trasversale di israeliani e arabi in Palestina e di ebrei e palestinesi sparsi per il mondo.

E va da sé che uno stato unico non potrebbe che essere laico, chiamato a garantire a tutti i cittadini gli stessi diritti e gli stessi doveri, a prescindere dal genere, dalla religione e dal colore della pelle. Dovrebbe avere una struttura confederale, per rispettare, seppure in un ambito unitario, le differenze linguistiche, culturali, religiose e per valorizzarle, anche con una ripresa delle forme “costituenti” delle comuni ebraiche (kibbutz) e delle preesistenti comunità palestinesi, cristiane e islamiche. E dovrebbe organizzarsi – nelle grandi città, oltre che nelle campagne – con le forme di una democrazia basata sulle assemblee.

Utopia? Certamente è difficile immaginare una situazione del genere. Ma succede non di rado nella storia, che le cose difficili da immaginare poi si avverino.

Negli anni ’60, chi avesse detto che USA e Sud-Africa avrebbero avuto presidenti di pelle nera sarebbe stato di certo internato in qualche manicomio…

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1 commento

  1. Ciro dice:

    Un caro saluto e un plauso per la tua informata e strategica disamina della questione che tanto ti e ci sta a cuore. In fondo, la Questione delle questioni. Per nulla utopica, infine, la prospettiva, anzi, direi escatologica.

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