Domenica mattina, 21-8 -1943

(di Etty Hillesum)

Westerbork fu un campo per prigionieri ebrei, non lontano da Amsterdam. Dall’agosto del 1942 e fino al settembre del 1943 vi visse Etty Hillesum, giovane ebrea olandese, ventisettenne. Godeva di una relativa libertà di azione perché lavorava nella infermeria, ma ovviamente le sue giornate erano lo stesse di tutti gli altri reclusi.

La comunità rinchiusa in quel campo viveva, in effetti, nel continuo terrore: perché un treno partiva da lì ogni settimana per la Polonia, col suo carico di prigionieri. E il 7 settembre 1943 anche Etty, i suoi genitori e il fratello Mischa furono caricati sul treno. Di lei resterà una cartolina gettata dal finestrino, raccolta poi da contadini. Diceva semplicemente: «abbiamo lasciato il campo cantando».

Un rapporto della Croce Rossa comprenderà Etty e i suoi familiari fra le persone che morirono ad Auschwitz il 30 novembre del 1943.

Il suo diario di prigionia (otto quaderni, fortunosamente salvati da un’amica sopravvissuta) va dal 9 marzo del 1941 al 21 agosto 1943. Assieme alle sue lettere del periodo 1942 – 1943, rappresenta non solo un documento straordinario delle sofferenze dei deportati sotto l’occupazione nazista, ma anche una delle più significative riflessioni culturali del Novecento sul senso della vita e sul rapporto degli esseri umani con il male. Al di là della visione profondamente religiosa della Hillesum, quei suoi rapidi scritti sono diventati un ineludibile riferimento per gli interrogativi filosofici del nostro tempo.

Per le proprie lettrici e i propri e lettori, LEF pubblica qui, riprendendola dalle Edizioni Adelphi, l’ultima pagina del suo diario, che data una quindicina di giorni prima del suo trasferimento da Westerbork ad Auschwitz. Lo facciamo affinché non si dimentichi mai, in nessuna circostanza, la storia di orrori che abbiamo alle spalle.

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Nel reparto maternità c’è un bebè di nove mesi, una piccola bambina. Qualcosa di molto bello e dolce e con gli occhi celesti. È arrivata qui diversi mesi fa, come S-Fall [caso penale], la polizia l’aveva scovata in una clinica. Nessuno sa chi o dove siano i suoi genitori. Per ora la tengono nel reparto maternità, le infermiere si sono affezionate a quel giocattolino.

Ma volevo dire questo: nei primi tempi quella neonata non poteva essere portata fuori, tutti gli altri bebè stavano all’aria aperta nelle loro carrozzelle ma lei doveva rimanere dentro, era pur sempre un S-Fall! L’ho chiesto a tre infermiere diverse, qui io vado sempre a sbattere contro dei fatti che mi paiono inverosimili, ma che ogni volta mi vengono confermati.

Nella mia baracca-ospedale ho incontrato una ragazzina gracile e denutrita di dodici anni. Nello stesso modo simpatico e ingenuo in cui un altro bambino racconta delle tabelline che impara a scuola, mi ha detto: sì, io vengo dalla baracca di punizione, io sono un caso penale.

Un bimbetto di tre anni e mezzo aveva rotto un vetro con un bastone, e quando suo padre gli aveva fatto una terribile sfuriata era scoppiato in un pianto dirotto: «oohh, adesso mi mettono nella numero 51 [la prigione] e devo partire da solo sul treno dei prigionieri».

È sconcertante come i bambini parlano tra loro, ho sentito un ragazzino dire a un’altro: no, sai, il marchio da 120.000 non è proprio il migliore, ma se tu sei per metà ariano e per metà portoghese, allora sì che va bene.

Anne-Marie ha sentito una madre dire al suo bambino, nella brughiera: «e se adesso non finisci da bravo il tuo budino, partirai senza la mamma!».

Stamattina, la donna che ha la cuccetta sopra quella della mamma ha fatto cadere una bottiglia d’acqua e le ha inondato il letto. Una cosa del genere diventa qui una calamità naturale di cui vi potete difficilmente immaginare la portata. Fuori di qui la si potrebbe paragonare a una casa devastata da una inondazione.

Comincio ad amare questa mensa d’ospedale. È proprio come una capanna di tronchi indiana, Una bassa baracca di legno grezzo, tavoli e panche idem, piccole finestre che sbattono e per il resto niente.

Fuori si vede un’arida striscia di sabbia con erba incolta, limitata da una specie di diga sabbiosa tirata su dal canale. Davanti a questa diga serpeggia un binario abbandonato, durante la settimana uomini seminudi e abbronzati vi si divertono su dei vagoncini. Di qui non si vede la brughiera, che invece si vede da ogni altro angolo di questo paesino sperduto. Dietro il filo spinato c’è una pianura ondulata di bassi arbusti, sembrano piccoli abeti.

Questo tratto di paesaggio spietatamente arido – la rozza capanna di tronchi, i mucchi di sabbia, il piccolo canale maleodorante – fa un po’ pensare a un terreno da cercatori d’oro, al Klondike.

Di fronte a me, seduto al rozzo tavolo di legno, Mechanicus mordicchia la sua penna stilografica. Di tanto in tanto alziamo lo sguardo dei nostri foglietti scarabocchiati e ci guardiamo in faccia. Lui registra fedelmente, con una precisione quasi burocratica, tutto quel che capita qui.

«È troppo» dice a un tratto. «Io so scrivere un pochino, ma qui mi trovo davanti a un abisso – o davanti a una montagna, è troppo».

Comincia a venire gente, i ‘borghesi’ con logori abiti confezionati e marchiati si siedono a mangiare cavoli-rapa da scodelle smaltate.

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