Brevi considerazioni sul sindacalismo di base

Sono ormai diverse, in Italia, le sigle sindacali nate con la logica dell’autorganizzazione diretta dei lavoratori e delle lavoratrici. E alcune di esse, seppure con accidentati percorsi di aggregazioni e scissioni, vantano un’esistenza ultratrentennale di intervento e di presenza nelle dinamiche di lotte e nei movimenti sociali del paese.

Comparvero, in effetti, alla metà degli anni ’80, in uno con la chiusura dell’epoca del semplice “fuori e contro le linee sindacali delle compatibilità nazionali e della centralità delle imprese e del mercato”, segnando il passaggio dalla fase dei coordinamenti collettivi e dei comitati di lotta a quella, molto più complessa, di organizzazioni strutturate di settori operai delle grandi fabbriche e di personale del pubblico impiego e dei servizi.  

Abbiamo dunque alle spalle un periodo sufficientemente ampio per azzardare un primo, provvisorio bilancio delle effettive novità portate dal sindacalismo di base autorganizzato e per affacciare qualche considerazione sulle ragioni di fondo del punto critico che lo concerne: e cioè la obiettiva stagnazione del trend di crescita in questi decenni di esistenza politico-sindacale.

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1) La spinta che nella metà degli anni ‘80 generò le diverse sigle del sindacalismo alternativo poggiava sull’idea che fosse assolutamente necessario, e anche possibile, costruire – fuori da Cgil-Cisl-Uil – organismi stabili di aggregazione dei lavoratori, caratterizzati da una linea di coerente difesa dei loro “interessi di classe”. Occorreva prendere atto – così si argomentava – che non esisteva più uno spazio praticabile per influire sugli equilibri sindacali confederali, in particolare quelli interni alla Cgil.

Nacquero così associazioni come i Cobas-scuola, la Cub, lo Slai-cobas, il Comu dei ferrovieri, la Flm-Uniti, il Sulta nel trasporto aereo. Presero consistenza anche le vecchie rappresentanze del sindacalismo di matrice anarchica ed altri spezzoni del sindacalismo cosiddetto autonomo. Soprattutto si ebbe un crescendo di lotte e di teorizzazioni, in particolare sul tema dell’autorganizzazione.

Prese corpo, in breve tempo, un arcipelago composito, accomunato dalla urgenza della democrazia nei luoghi di lavoro. La questione veniva posta con nettezza: “i lavoratori devono poter parlare e decidere sempre. In tutti gli ambiti”. E tale concetto si traduceva nella negazione in radice dell’idea di ‘rappresentanza delegata’. I Cobas-scuola sostituivano i tradizionali ‘rappresentanti sindacali’ con la figura del ‘portavoce’ e tutti i raggruppamenti dichiaravano di voler praticare forme visibili di ‘democrazia diretta’ nei luoghi di lavoro e nelle mobilitazioni sociali.

Ma la novità non era costituita solamente dal tema della democrazia e dalla critica al concetto di rappresentanza. Innovativo si presentava anche l’aspetto della vertenzialità, in particolare per la logica di condurre ad unità l’aspetto economico con lo spazio della politica, intesa come espressione e pratica di ideali sociali, valori culturali, speranze e determinazioni per una vita diversa e migliore.

In effetti, l’urgenza di costruire altro da Cgil-Cisl-Uil era dovuta alla convinzione che la ‘triplice sindacale” tradizionale avesse compiuto per intero il cambiamento tipico di un sindacato con cultura riformista, se non addirittura corporativa, passando, cioè, da “rappresentanza consensuale dei lavoratori” a “rappresentanza istituzionalizzata”, con un modello di relazioni completamente interno alle compatibilità delle imprese e del mercato.

In sostanza, le principali fonti di legittimazione dei sindacati tradizionali erano divenute direttamente il sistema politico e il padronato e non più i lavoratori, col conseguente depotenziamento delle ragioni della lotta.

2) Il cammino delle sigle dell’autorganizzazione sindacale si caratterizzò fin dall’avvio per un articolato dibattito interno, anche aspro, sul modello organizzativo da seguire. Non poche furono le polemiche e le divisioni, i cui strascichi si trascinano tutt’ora.

Detto a grandi linee, nel dibattito si contrapponevano quelli che prediligevano associazioni sindacali con un’impostazione fortemente centralizzata e con un vertice politico “pesante” e coloro che preferivano l’assunzione di forme elastiche, unendo l’esistente su base confederativa con il massimo rispetto delle autonomie fondanti. Vi erano, inoltre, strutture che puntavano su forme organizzative policentriche, con un forte coordinamento sul piano della linea e delle iniziative generali, ma con la massima valorizzazione della base del movimento nel suo insieme, affermando il criterio della revocabilità dei delegati, con rotazione e limite per incarichi, distacchi, funzioni e dirigenti.

Ma nonostante la diversità dei modelli organizzativi e le discussioni accese tra le varie sigle sindacali, non furono pochi i luoghi di lavoro che videro, negli anni ‘80 e ’90, la costruzione del sindacalismo di base autorganizzato. L’elemento che cementava tutti era la forte contestazione al sindacato confederale, che culminò con la cosiddetta “stagione dei bulloni”. Il sindacalismo autorganizzato toccò allora un ampio riconoscimento di massa, che forse oggi pochi ricordano.

In sostanza, dopo che l’accordo del 31 luglio del 1992 tra il governo, i tre maggiori sindacati e la Confindustria ebbe decretata la sterilizzazione della cosiddetta “contingenza” (la parte variabile del salario collegata automaticamente all’inflazione), determinando la sostanziale fine della “scala mobile” (il meccanismo di indicizzazione dei salari all’inflazione), si ebbe, fino a tutto il 1993, la contestazione aperta dei palchi dei sindacati ufficiali, bersagliati appunto, in quasi tutte le manifestazioni di piazza, col lancio di oggetti vari, tra cui i bulloni.

In quel passaggio, il sindacalismo autorganizzato si caratterizzò fortemente con una parola d’ordine che era assieme sindacale e politica: “il lavoro umano non è una merce”. E qualche anno dopo fu tra i protagonisti in Italia del “movimento dei movimenti”, con la critica al sistema neoliberista che sfociò nella grande manifestazione in contrapposizione al summit del G8 di Genova del 2001.

3) Va considerato con attenzione, anche rispetto al sindacalismo di base, ciò che LEF sostiene continuamente a proposito dei cambiamenti epocali intervenuti tra gli ultimi decenni del Novecento e l’avvio del XXI secolo, tanto nei luoghi di lavoro quanto negli assetti sociali. Di fatto, a fronte di un capitalismo che si rinnovava per davvero, divenivano sempre più inefficaci le tradizionali trincee resistenze del proletariato.

Negli ultimi trenta/quarant’anni si sono imposti assetti sociali e istituzionali neoliberisti, orientati sulla centralità del mercato. Si è espanso come non mai a livello mondiale il sistema produttivo sociale capitalista; e contemporaneamente nelle fabbriche e negli uffici l’informatizzazione, la digitalizzazione, la robotizzazione dei processi produttivi e il “just in time” hanno superato la vecchia organizzazione del lavoro taylorista, facendo platealmente venir meno gli strumenti con cui si batteva il movimento operaio e dei lavoratori, in particolare la bandiera delle rigidità lavorative e contrattuali.

Questi cambiamenti hanno avuto pesanti effetti non solo sui lavoratori ma anche sulle organizzazioni sindacali. Con la “totalizzazione del rapporto di capitale” e la costruzione dell’“individuo produttivo sociale”, il rapporto sociale di capitale ha occupato tutti gli spazi, al punto che ogni interstizio si ritrova adesso intrecciato, attraverso mille fili, alle dinamiche della valorizzazione. Anzi, tutta l’attività umana è attualmente a disposizione del processo di crescita capitalistici, che utilizzano ed inglobano anche fattori che prima si trovavano fuori dall’economia in senso stretto.

Oggi come oggi, qualunque cosa giri intorno all’attività umana tende a divenire sia merce che fattore produttivo. E tutto ciò – collegato alla flessibilizzazione, alla precarizzazione e all’allargamento della catena del valore – non poteva non avere risvolti pesantissimi a livello di organizzazione sindacali. 

Detto in breve, se da un lato Cgil- Cisl-Uil andavano metabolizzando questo processo accentuando la loro funzione di “sindacati di Stato”, nel campo dell’autorganizzazione le tradizionali modalità di conflitto, di contrattazione e di difesa dei lavoratori, non soltanto (nella maggior parte dei casi) risultavano difficili da innescare, ma restavano soprattutto senza sbocchi effettivi per la debolezza delle proposte.

Il punto è che se il valore – sia nella sua forma di lavoro, che nella sua forma di merce -, si disloca sempre di più fuori dai segmenti immediati e diventa null’altro che la potenza produttiva generale (nel senso che la merce diventa null’altro che il sistema generale dei mezzi di produzione e il lavoro sociale tende a combaciare con l’intera attività sociale), allora il tradizionale confronto tra sfruttati e sfruttatori non può che subire trasformazioni profondissime. È chiamato a misurarsi, lo voglia o no, più sui parametri della riproduzione (cioè sull’esistenza del lavoratore) anziché sulla produzione sociale.

Succede, insomma. che al conflitto articolato per luoghi di lavoro, per categorie, per mansioni, per qualifiche, per produttività individuali, viene a mancare, letteralmente, il terreno sotto i piedi, poiché la produttività che ciascun segmento di lavoro può dare è già inesorabilmente ricompresa, fin dall’inizio, nel ciclo produttivo al quale concorre: indipendentemente da qualsiasi scambio contrattualizzato. Vi è ricompreso perché la tecnologia, le innovazioni, la flessibilità, la produzione sociale, l’integrazione fra politica, economia e società hanno già occupato, di fatto, tutti gli ambiti del vivere sociale e trasformato in merce tutto ciò che ci circonda.

In questa situazione, anche se non mancano le contraddizioni interne al sistema ed emergono lotte anche dure dei lavoratori – come oggi quella dei lavoratori autorganizzati della Fedex TnT di Piacenza, che meritoriamente e subendo una brutale repressione hanno strappato all’azienda aumenti salari e condizioni migliori di lavoro -, alla fin fine i lavoratori dovranno saper fare i conti con il principio inderogabile della flessibilità dei fattori sociali. Per capirci: se ci sarà l’abbandono della centralità dell’Hub piacentino da parte della multinazionale, anche la più combattiva autorganizzazione sindacale si ritroverà nell’impossibilità di rincorrere situazione per situazione per bloccare i piani aziendali…  

4) Per dirla in chiare lettere, la dimensione propriamente “generale” è divenuta la regola invalicabile di qualsiasi processo reale. Vale per il concreto modo di essere e di fare della valorizzazione capitalistica contemporanea; ma vale anche per l’iniziativa dell’insieme delle classi subalterne, chiamate a risolvere i problemi obiettivi di tenuta e di credibilità delle lotte in una fase così particolare della produzione sociale.

Il non aver colto con sufficiente chiarezza il carattere ormai compiutamente “generale” del conflitto tra l’alto e il basso della società è, a mio avviso, una delle ragioni fondamentali della mancata crescita del sindacalismo autorganizzato in questi anni. Il capitalismo ha rinnovato gli strumenti che servono alla valorizzazione del capitale, mentre il sindacato alternativo è rimasto ancorato al conflitto del Novecento.

Ma allora? Da dove occorrerà partire per proiettarsi in un effettivo orizzonte di cambiamento?

Certamente bisogna battersi contro i licenziamenti, contro l’abbassamento dei diritti, contro le decurtazioni di fatto del salario, ecc. ecc. Ma occorrerà farlo consapevoli che su questo piano non si raggiunge nessun mutamento reale dei rapporti di forza con le classi privilegiate.

Nella realtà odierna in cui tutto viene trasformato in fattore produttivo e contemporaneamente in merce, l’unica cosa che davvero resiste a questa continua metamorfosi è la dimensione culturale e morale incentrata sul “senso dell’umano. Essa si annida spontaneamente nell’animo umano ed è la contraddizione insanabile più grande e significativa che c’è tra l’umanità nel suo complesso e il capitalismo in quanto sistema complessivo.

In altre parole, occorre portare il conflitto, quanto più possibile, dai temi della produzione sociale ai temi della riproduzione materiale e spirituale, incentrandolo su bisogni del corpo, sulla voglia di affetti, sul desiderio di cultura, sulla osmosi con la natura. E bisognerà parlare relativamente meno di “lavoratori” e molto più di “persone”.

Coniugare questi aspetti in dinamiche conflittuali significa, per esemplificare, chiedere (ed imporre con la lotta) nutrimento adeguato per il benessere fisico, una casa per viverci, una mobilità efficiente per spostarsi, una cura reale della salute, più tempo libero per coltivare relazioni e sentimenti (e per frequentare spazi ludici), riducendo innanzitutto l’orario di lavoro per incontrarsi con amici, familiari e persone da conoscere. Significa anche pieno svolgimento spirituale degli esseri umani, con apprendimento e cultura per tutti, con la libertà del sapere e della ricerca, con la disponibilità piena delle conoscenze sociali.

Inoltre, umanità e capitalismo oggi sono contrapposti frontalmente anche sulla natura: non solo per il degrado che lo sviluppo capitalista produce, distruggendo l’ambiente con produzioni nocive, superflue ed antinaturali; e non solo per la sofisticazione alimentare che ci assedia da ogni lato; ma soprattutto per la mancata amicizia (come chiaramente dimostra la stessa pandemia di Covid19) tra umanità e ritmi naturali. Chiedere un diverso rapporto tra umanità e natura è essenziale proprio per non distruggere la vita su questo pianeta.

Insomma, bisogna superare tutte le logiche “sviluppiste” e difensive, basate sullo scambio tra condizioni di vita e condizioni di lavoro. E dobbiamo soprattutto prospettare come storicamente attuale, e farla vivere nella stessa attualità politica, una nuova e moderna cittadinanza umana, che abbia come fine la costruzione effettiva di quella “nuova umanità” che il movimento operaio e quelli che si rifanno al pensiero marxista hanno sempre avuto come ideale.

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