Critica della identità militante

1) Vorrei dire qualcosa sul concetto di “rivoluzione”, che reputo il vero nodo da sciogliere nei ragionamenti politici di chi, come me, non si sente riconciliato col capitalismo e ancora pensa e agisce nella prospettiva del suo superamento.

E vengo subito a quello che, a mio avviso, rappresenta il cuore del problema: al fatto, cioè, che dovremmo essere maggiormente consapevoli del legame strettissimo di “nuova società” e “nuova umanità”. Non solo. Postulare la loro immediata connessione in tutte le fasi della possibile transizione dal capitalismo al comunismo (in sostanza, fin dal punto di partenza) ci colloca necessariamente oltre la tradizione novecentesca del movimento operaio, il quale ha proceduto separando politicamente e storicamente i due elementi, affidando la “nuova umanità” semplicemente a ciò che sarebbe dovuto accadere – col tempo, e per forza propria – dopo la costruzione della “nuova società”.

Il punto è che la formidabile triade che aveva aperto l’età moderna – libertà, uguaglianza e fraternità – veniva mantenuta forzosamente scissa anche dal ‘nostro versante’, analogamente a come, dal punto di vista dei propri interessi materiali e della propria visione del mondo, avevano sempre fatto, e continuano a fare, le classi dominanti. Di quelle tre parole, i socialisti e i comunisti, e, attraverso di loro, il proletariato e le altre classi oppresse, assumevano come decisiva unicamente l’uguaglianza; e addirittura guardavano con sospetto, se non peggio, al tema della libertà, e con sufficienza, se non peggio, al tema della fraternità.

Libertà e fraternità non venivano considerate politicamente “attuali”. Esse sarebbero state ri-guadagnate, così si è argomentato, soltanto alla sommità del lungo cammino della rivoluzione, per gli spontanei effetti della nuova società fondata sull’uguaglianza.

E però, come tutti sappiamo, le cose non hanno funzionato per niente, ma proprio per niente, in questo modo…

2) Così, il superamento, anche per noi, del Novecento (e siamo in incredibile ritardo perché già la storia complessiva lo ha abbondantemente archiviato), non può che partire dalla rimessa in discussione di quel procedere per ‘ambiti separati’.

Ma che mai potrà significare connettere immediatamente “nuova società” e “nuova umanità”? In estrema sintesi, null’altro che questo: che anche il soggetto-che-trasforma deve trasformarsi, a sua volta, nell’azione di trasformazione.

Non bisogna più pensare alla maniera del “noi-che-cambiamo-il-mondo che abbiamo davanti”; bensì occorrerà dire: noi-che-ci-cambiamo-contemporaneamente-allo-forzo-di-cambiare-il-mondo che abbiamo davanti. Vale per le classi sfruttate e oppresse, ma vale anche per i militanti politici e gli attivisti sociali. Vale, in sostanza, anche per noi, proprio noi che stiamo qui discutendo.

Qualcuno, nelle discussioni interne a LEF, adoperava una bella immagine, quella della stazione di partenza che ha in sé qualcosa anche della stazione di arrivo. Lo faceva con riferimento al tema, che io reputo oggi particolarmente sovversivo, della ‘mitezza’. Ma non si tratta solo della mitezza.

Fermandoci appena all’orizzonte che ci concerne direttamente in quanto militanti e attivisti, io ritengo che la trasformazione – come processo che contemporaneamente trasforma il soggetto medesimo che si attiva per trasformare – dovrebbe essere riferita soprattutto al punto critico decisivo che ci caratterizza, e che peraltro viene incessantemente alimentato e rafforzato dalla società dell’ingiustizia e della competizione. Alludo a ciò che non riesco a definire altrimenti se non come ‘ipertrofia del soggetto’; ovvero, in altre parole, al vizio del politicismo, così saldamente radicato in ciascuno di noi.

E però sarà bene intendersi sul concetto di ‘politicismo’. Io lo adopero qui alla maniera medesima di Agnes Héller, che così si esprimeva:

… Chi, al contrario, vive solo nel mondo e per il mondo, chi si spende interamente nell’attività politica, pensa solo a questa e non ha “tempo libero” per l’autoriflessione, per lo stare con gli altri, per la gioia di vivere, per l’immediatezza; chi dissolve completamente la sua soggettività nelle azioni, insomma il “politicista”, che vede sfumare il proprio mondo di sentimenti, o si aggrappa unicamente alle “azioni”, che non è più in grado di distinguere fra ciò che è importante e ciò che è marginale, dal momento che per lui l’avvenimento politico più secondario assume dimensioni gigantesche… che da solo, al di fuori dell’attività politica quotidiana, non è capace di intraprendere nulla, poiché essendo vuoto, privo di personalità, costui è identico con il mondo in cui vive. E non si libera certo dalle repressioni da cui vuole liberare il mondo. La sua ragione si trasforma in sottigliezza, il suo intelletto in calcolo. Anche gli uomini che siedono tutti i giorni davanti alla televisione con i loro bambini sono superiori ai “politicisti”, poiché hanno preservato una briciola di sfera intima e di capacità di godere.

3) Tralascio qui la sostanza del ragionamento proposto dalla grande allieva di György Lukács, e cioè la critica alla tesi di Lenin, per il quale “noi dovremmo fare il socialismo con gli uomini tali e quali li abbiamo ereditati dal capitalismo” (“su questo punto concordo con l’idea di Marx che nel processo rivoluzionario gli uomini cambiano se stessi…”); e tralascio anche l’idea del comunismo come società di “uomini e donne morali”. Richiamo, invece, l’attenzione sulla descrizione del politicista, il quale “si aggrappa unicamente alle azioni” e non è più “in grado di distinguere fra ciò che è importante e ciò che è marginale”.

Si tratta di una modalità completamente auto-centrata di relazionarsi al mondo, tipica dell’individualismo e dell’egotismo della cultura borghese. Ma, a ben vedere, essa è particolarmente resistente proprio nei militanti politici dell’anticapitalismo: e ciò sia nella versione degli attivisti di partiti, gruppi politici e riviste teorico-politiche, e sia nella versione degli attivisti sociali. Detto in una parola, ne siamo affetti tutti noi che ci battiamo per una alternativa alla società capitalistica. Ma proprio tutti.

È qualcosa che avviene solo parzialmente per ‘colpa nostra’; e anzi, nel nostro caso, la ragione di un tale persistente difetto risiede, almeno in buona parte, proprio nella forte legittimazione morale che ciascuno di noi dà a quello che fa. Esattamente perché ci ‘spendiamo per il mondo’ senza tornaconto personale, noi ci poniamo anche nella posizione più difficile per giudicare il peso storico effettivo del nostro stesso “fare”.

La Heller sottolinea che per il politicista “l’avvenimento politico più secondario assume dimensioni gigantesche”; ma questo accade esattamente perché, per il militante, nulla di ciò che entra in relazione con lui, e che lui ‘intenziona’ in forma, per l’appunto, militante, potrà mai essere davvero secondario: si tratti di un semplice volantino, di un saggio teorico, dell’organizzazione di un corteo, di una azione di propaganda, della costruzione di un comitato, della conduzione di una lotta …

Detto in altre e più chiare parole, il paradosso del militante è che egli riesce a fare ragionamenti anche complessi sul mondo che gli sta davanti, ma è poi incapace di mettere se stesso in relazione complessa col mondo di cui parla. Il deficit di complessità è, per così dire, la faccia nascosta della ipertrofia del soggetto.

Ma in questa maniera, come tendiamo ad assolutizzare le nostre azioni e l’ambito nel quale agiamo, così relativizziamo spontaneamente tutto ciò che ci sta lontano, o che non esperiamo direttamente come ‘questione significativa’ nell’ambito della nostra peculiare comunità di attivisti. Sino a possibili, autentici corti circuiti, per cui ci saremmo noi, solo noi, da un lato, e un indistinto ‘resto del mondo’, dall’altro.

Il nodo vero è che diventiamo singolarmente incapaci di vedere la forza e la molteplicità delle pratiche che muovono nell’identica nostra direzione dell’anticapitalismo. Assumiamo, cioè, come davvero anticapitaliste solo le pratiche molto uguali alle nostre. E quando non sono uguali, tendiamo a derubricarle, quasi per riflesso condizionato, a pratiche non-significative, se non addirittura dannose, se non addirittura controproducenti; e perfino, nei casi estremi, ‘controrivoluzionarie’…

4) Chiudere col Novecento significa, perciò, lavorare profondamente anche su noi stessi, assumendo come habitus pratico e mentale l’attitudine a cambiare. Il che implica non soltanto che dovremmo far valere per noi, qui e ora, talune caratteristiche del mondo nuovo che abbiamo in mente, ma anche che dobbiamo provare a capovolgere, nel nostro sguardo d’insieme, la logica della assolutizzazione dell’io e della relativizzazione dall’altro.

Non si tratta di un’impresa facile, e non bastano le buone intenzioni, poiché siamo costantemente condizionati non solo da ciò che definirei “paradosso intrinseco del militante”, ma anche dalla vera e propria fatica fisica e mentale che mettiamo in tutto quello che facciamo. Alla fin fine, davvero la giornata è solo di 24 ore; e se dobbiamo fare quello che dobbiamo fare, ci resta poco tempo per guardare il resto.

Lo sa bene ciascuno di noi: quelli oberati dalla faticosa attività quotidiana di partito o di associazione, così come quelli oberati dalla faticosa attività quotidiana di studio teorico, così come quelli oberati dalla faticosa attività quotidiana di lotta e di movimento. Ciò che facciamo, se lo facciamo con sistematicità, davvero non ci lascia respirare.

E però il tempo dovremmo pur farlo uscire in qualche modo. Il tempo di guardare segnatamente l’altro che abbiamo di fronte in quanto complessità delle pratiche della liberazione, soprattutto quelle molto lontane e diverse da noi. Altrimenti non riusciremo a capire bene neppure quello che facciamo.

5) Ricorro ad un esempio che mi riguarda, perché forse chiarisce meglio di tante parole ciò che intendo dire. Un po’ di anni fa, con la lotta contro la costruzione del megainceneritore di Acerra, io so di aver vissuto il periodo di maggiore impegno pratico della mia specifica ‘biografia politica’. Ma esso fu anche, contemporaneamente, il periodo più disordinato della mia vita personale e anche il periodo più confuso della mia capacità di riflessione politica e teorica.

La lotta contro quella mega-opera, conclusasi con una sonora sconfitta, durò complessivamente più di quattro anni. I primi due anni ci videro occupare il terreno sul quale l’inceneritore doveva sorgere. E forse ha qui un senso ricordare che a compiere concretamente l’occupazione in una piovosa alba invernale, sfondando il cordone di polizia che sbarrava la via di accesso, furono una trentina non di cittadini generici, ma di veri e propri militanti, due terzi dei quali non erano neppure di Acerra.

Come a dire che la lotta iniziò per davvero solo dopo una determinata decisione di una determinata area di compagni…

Per mantenere l’occupazione del terreno si dovettero subito organizzare i turni. Il movimento diventò rapidamente di massa, e perciò si poté contare su una base ampia per le turnazioni. E però, a presidiare il posto ci doveva essere sempre un nutrito gruppo di persone (nell’ordine di alcune decine), e questo per ventiquattro ore al giorno, per sette giorni la settimana, per 12 mesi all’anno.

In sostanza, per il ruolo di coordinamento avuto in quella vicenda dall’inizio, io mi sentivo obbligato ad essere presente in modo costante, talvolta anche di notte, attorno al capanno e alle tende alzate alla meglio. Per me, quei due anni hanno significato restarmene fisicamente al Pantano (questo il nome della località), grosso modo, attorno alle 20-30 ore a settimana.

Poi un giorno, approfittando anche dello sfilacciamento del presidio (cosa più che normale dopo due anni), polizia e carabinieri occuparono manu militare il terreno. La lotta si trasferì perciò sulle strade prospicienti l’area, e divenne una lotta di picchetti per impedire l’ingresso dei camion e delle macchine degli operai che andavano a costruire l’inceneritore. Qualche giorno riuscivamo a bloccarli per l’intera giornata, qualche altro giorno solo per alcune ore, qualche altro giorno assistevamo impotenti al loro ingresso.

Al netto delle altre iniziative politiche lontano dal Pantano (comunque numerose, seppure nella ‘normalità’ dell’impegno militante) per me furono altri due anni interi di ‘presenza fisica’.

Ci fu un periodo di almeno tre mesi consecutivi, mi pare tra gennaio e marzo del 2004, che quasi tutte le mattine, dalle 4,30 e fino alle 8 o alle 9, quando poi andavo al lavoro, stavo ai picchetti a tentare i blocchi e a fronteggiare la polizia. Poi, nell’estate, ci fu l’occupazione della stazione ferroviaria di Acerra, che durò cinque mesi consecutivi: ed anche lì turni, presenza 24 ore su 24 e via dicendo.

In sostanza, un impegno gigantesco proprio sul piano fisico oltre che mentale, con il disordine totale nel ritmo della mia vita pratica e intellettuale. Come avrei potuto vivere un tale passaggio se non con l’idea che il Pantano e le due strade d’accesso, e poi la stazione di Acerra e i presidi e i picchetti e i cortei e le occupazioni e i blocchi stradali, autostradali, ferroviari, eccetera, fossero proprio “tutto il mondo”?

Ma esattamente perché vivevo in tal modo quell’esperienza, tutto il resto perdeva di significato. Anche la normale gerarchia delle cose si alterava, fino al punto che gli altri movimenti di lotta, la militanza in Rifondazione comunista e tutta la restante parte della mia vita politica acquistavano davvero senso quasi unicamente in relazione alla vicenda dell’inceneritore.

Ma così io tendevo a perdere, lo volessi o no, il senso della misura; e soprattutto tendeva a sfuggirmi, concettualmente, la ricchezza, la complessità e la pluralità delle stesse pratiche ‘antagoniste’. Proprio come dice la compagna Heller: “al di fuori dell’attività politica quotidiana, non è capace di intraprendere nulla”…

6) Provo, dunque, a tirare un po’ le somme su questo punto. Non è soltanto il mondo che abbiamo di fronte che deve cambiare: dobbiamo cambiare anche noi stessi. E ritengo che questa sia una acquisizione fondamentale per arrivare a formulare una nuova idea di rivoluzione.

E però, porci nella logica di dover cambiare, assieme al mondo, anche noi stessi, comporta indagare spietatamente gli stessi punti di criticità che ci concernono. Che concernono sia il proletariato in generale (e qui siamo ancora a ciò che abbiamo di fronte) e sia noi medesimi, noi militanti dell’anticapitalismo.

Io ravviso nel nostro ‘deficit di complessità’ il punto critico sul quale maggiormente dovremmo lavorare. Esso consiste, da un lato, nel fatto che diamo per scontato di sapere (sulla scorta delle analisi di Marx di centocinquanta anni fa) come concretamente operi oggi il capitalismo; dall’altro, nel fatto che non concepiamo neppure l’esistenza dei ‘simili’. E lo sottolineo: i simili, non gli ‘uguali’; quelli che muovono, cioè, con le loro specifiche pratiche e le loro specifiche idee, nella stessa direzione nostra dell’anticapitalismo.

E a tal proposito occorre ben comprendere come l’anticapitalismo sia difficile e semplice allo stesso tempo. Soprattutto, esso è una merce molto meno rara di quanto la nostra pochezza organizzativa ci induce a credere.

7) Forse non sarebbe necessario ribadirlo; ma comunque non lo ritengo inutile: il capitalismo non è una ‘cosa’, ma un rapporto sociale incentrato sulle dinamiche della valorizzazione. E oggi, nel mondo attuale, tutto, ma proprio tutto, concorre alla valorizzazione: tempi di lavoro e tempi di non-lavoro.

E però, allo stesso tempo, molte delle dinamiche che concorrono alla valorizzazione tendono spontaneamente anche a fuoriuscire dalle strettoie della logica del valore. Lo fanno episodicamente, contraddittoriamente e perfino ambiguamente. Ma lo fanno.

Lo fanno, ad esempio, quando alludono, pur con tutte le loro parzialità e incongruenze, alla dignità delle persone o ad elementi ‘eccentrici’ rispetto alla tradizione canonica del movimento operaio, e però tutti potenzialmente contraddittori coi normali “valori di scambio” del sistema capitalistico: dal corpo agli affetti, dalla cultura all’ambiente.

Benché non esplicitamente, tali dinamiche, quando riescono ad emergere (ed emergono più spesso di quanto noi pensiamo), diventano parte viva del processo di trasformazione. E del resto, in taluni momenti ce ne siamo anche accorti. Durante i giorni drammatici di Genova 2001, persino le Suore Orsoline le abbiamo vissute come parti costitutive del processo del cambiamento. Non le abbiamo affatto giudicate, come forse avremmo fatto nel Novecento, alla stregua di “utili idiote” della rivoluzione…

Orbene, dobbiamo essere capaci di rafforzare, dentro noi stessi, esattamente tale fondamentale capacità di com/prensione. Il che vuol dire, né più né meno, che dobbiamo costruire – a partire da noi, oltre noi ma anche per noi – una politica, mi si passi il temine, “conviviale” (proprio nel senso etimologico del cum alio vivere).

È in questo modo che possiamo davvero praticare, pur con tutte le nostre parzialità, la “nuova umanità” nel medesimo punto di partenza. E cosa possa significare in concreto, ciascuno di noi può facilmente immaginarlo.

Io penso soprattutto alla costruzione di luoghi accoglienti, alla capacità di ascoltare gli altri, a un atteggiamento di fiducia sul fatto che, pure in quest’Italia con le lotte ridotte al lumicino, siano costantemente all’opera le dinamiche di trasformazione.

La qual cosa implica, tuttavia, che tutti, ma proprio tutti, possano davvero cambiare nell’attività. E che nessuno, neppure quelli che sentiamo visceralmente distanti da noi, siano inchiodati per forza a ciò che magari noi abbiamo già giudicato, più o meno sensatamente, come errori, incoerenze, opportunismi o addirittura “piccole infamie”.

La vita delle persone è sempre più complessa degli episodi che costellano la loro esistenza. E nessuno specifico episodio può davvero esaurirla.

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