Senza acqua. Pandemia e rivoluzioni

Strana congiuntura temporale è quella della pandemia Covid-19. Dall’inizio del 2020 ad oggi sono trascorsi in fondo pochi mesi, e nella coscienza comune si è trattato di mesi “tutti uguali”. Ma la monotonia del periodo pandemico, la reiterazione dei gesti quotidiani, l’ottundimento della socialità e delle capacità relazionali che abbiamo esperito rappresentano soltanto gli effetti di superficie. È nei fondali del tempo pandemico che si è verificato uno smottamento epocale.

La dilatazione delle nostre giornate ha rivelato, in maniera inaspettata, un baratro con cui fare i conti, un’assenza mai provata prima.

Non si tratta delle mancanze multiple che la “macchina aliena” del capitalismo contemporaneo (si veda, a tal proposito, https://www.lefrivista.it/2021/04/10/dalla-diserzione-alla-repressione-dalla-paura-alla-rivolta/) continua a proporci di continuo – mancanza di svago, di vacanze, di voli low cost, di aperitivi, di mostre, di cinema etc. Tutte esperienze bellissime, ovviamente, ma che sono state trasformate da decenni in quell’unica esperienza globale collettiva che è l’esperienza di consumo – e che ripartirà in modo o nell’altro, centomila morti in più o centomila morti in meno, insieme ai vaccini e alla “normalità” lavorativa.

Al contrario, l’assenza che abbiamo avvertito, e che dobbiamo ancora decifrare compiutamente, resta. Per riuscire a descriverla potremmo utilizzare la storiella dei pesci e dell’acqua che David Foster Wallace propose ai laureati del Kenyon College nel 2005:

“Ci sono due giovani pesci che nuotano uno vicino all’altro e incontrano un pesce più anziano che, nuotando in direzione opposta, fa loro un cenno di saluto e poi dice “Buongiorno ragazzi. Com’è l’acqua?” I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’, e poi uno dei due guarda l’altro e gli chiede “ma cosa diavolo è l’acqua?” (cfr. D. F. Wallace, Questa è l’acqua, Einaudi, Torino 2009).

Nati e cresciuti dentro l’acqua, i due giovani pesci non avevano alcuna cognizione dell’habitat che li determinava. Come spiega bene Wu Ming1 in una recente inchiesta sui cospirazionismi contemporanei, Wallace utilizzava quell’allegoria per mettere in guardia da certe forme di “venerazione dell’io” tipiche della società statunitense, diventate poi delle vere e proprie coazioni a ripetere, introiettate in maniera inconscia e “incosciente” (cfr Wu Ming 1, La Q di Qomplotto, Ed. Alegre, Roma 2021, p. 245).

 A differenza dei pesci di Wallace, noi abbiamo sperimentato durante la pandemia, obtorto collo, l’assenza – momentanea, prontamente occultata in vario modo – della nostra “acqua”. Detto in altri termini, abbiamo assistito al venir meno della legittimazione inconscia del sistema nel quale viviamo, del suo presentarsi come il “migliore dei mondi possibili”, come il luogo simbolico del “non ci sono alternative”.

Da questo punto di vista, il virus è stato un reagente potentissimo. Ha mostrato il baratro di legittimità del sistema che prima alcuni teorizzavano soltanto e che ora è diventato invisibile soltanto per chi si ostina a non vedere. Il “re è nudo”, si sarebbe detto in altri tempi, ed è comunque un’ottima notizia.

Il reddito per tutti (seppure nella forma ricattatoria degli “aiuti”), la messa in discussione degli attuali rapporti di proprietà e delle gerarchie sociali (lo ha detto finanche il Papa: https://www.repubblica.it/esteri/2021/04/11/news/papa_condividere_proprieta_non_e_comunismo_e_cristianesimo_allo_stato_puro-295951240/), lo sforamento dei diktat di bilancio europei, l’idea che l’istruzione non sia un “servizio” tra gli altri da fornire a domicilio, perfino la sospensione dei diritti di proprietà sui vaccini, proposta adesso non solo dai soliti estremisti comunisti ma dalla stessa amministrazione USA: sono tutte affermazioni che diventano “pensabili” dentro l’attuale congiuntura, al netto di decenni di retorica neoliberista.

In fondo stiamo sperimentando, sui nostri corpi e nelle nostre vite, l’assenza dell’ideologia pervasiva e unificante che si è imposta dopo la caduta del muro di Berlino. Ed è proprio quest’assenza (un’assenza purtroppo momentanea, che il sistema già sta provando a colmare in tutta fretta) a permetterci di capire – ora, in questo specifico segmento temporale caratterizzato dalla fluidità- che cosa sia davvero l’acqua nella quale siamo immersi.

Se, parafrasando Guglielmo da Ockham, l’assenza dell’evidenza è evidenza dell’assenza, allora abbiamo guadagnato un punto decisivo: non vi è nessuna evidenza a sostegno dell’impossibilità di vivere in un’“altra acqua”, ovvero in un sistema che non faccia della mercificazione degli esseri umani la sua ragion d’essere.

Questa consapevolezza ha bisogno però di diventare “politica”, di passare dalla constatazione alla presa di coscienza collettiva. Come si diceva nel Maggio francese, si è aperta una “breccia” – anche se ad aprirla è stato un virus che sta uccidendo milioni di esseri umani e che fotografa la crisi di spazi e di risorse dell’Antropocene. Ma noi siamo riusciti a sopravvivere all’assenza della nostra acqua-ideologia senza scoppiare come pesci abissali issati sulle barche – a differenza di quanto paventava quel grande “pessimista” di Günther Anders a proposito dell’ideologia omnipervasiva della società dei consumi (cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato, vol. II, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 183-184).

Si apre insomma la possibilità di recuperare l’umano dentro la merce, scardinando l’orrenda crasi “capitale/umano” così in voga finora. Storditi e timorosi, alle prese con paure e nevrosi nuove, stiamo vacillando, ma vacilla anche il sistema che ci ha resi così. E come diceva il vecchio romantico tedesco Johann Friedrich Hölderlin in un suo aforisma, “là dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva”.

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