di Roberto Braibanti
ll 22 aprile è stata la giornata mondiale della Terra. Ma non c’è molto da festeggiare, perché il tempo che abbiamo è sempre meno per cambiare il nostro modo di produrre e di vivere, così profondamente distruttivo per il Pianeta. L’esito della grande sfida ai cambiamenti climatici passa, infatti, per una drastica riduzione delle emissioni di anidride carbonica (CO2); cosa possibile solo se modifichiamo velocemente il modello economico, le tecnologie e gli stili di vita di milioni di persone.
1) L’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), la massima autorità scientifica mondiale sui cambiamenti climatici dell’ONU, sostiene che per stabilizzare le emissioni di CO2 ed evitare il disastro climatico occorre dimezzare il livello attuale delle emissioni di gas-serra entro il 2030 ed azzerarle entro il 2050. Le emissioni mondiali si sono ora stabilizzate a 33 miliardi di tonnellate (Gt) di CO2 – in linea con i risultati dell’anno precedente -, mentre nel 2016 e 2017 erano cresciute da 32,2 a 32,7 Gt.
I dati ci dicono che negli ultimi 50 anni le maggiori emissioni di CO2 sono arrivate dagli Stati Uniti e dai Paesi europei, e che la produzione di idrocarburi ha dato il contributo più elevato al totale. Ma oggi la Cina produce 9,481 Gt di anidride carbonica, quasi il doppio di quella emessa dagli Usa (4,888 Gt). E subito dopo viene l’India.
Quanto all’Europa, stando alle tabelle degli ultimissimi anni, le sue emissioni sono calate del 1,3%. Secondo l’ultimo rapporto del Global Carbon Project, il Vecchio continente è responsabile “solo” dell’emissione di 2,9 Gt di CO2, pari al 9,6% delle emissioni globali, in netta diminuzione rispetto ai 3,5 Gt del 2017 e ai 3,1 Gt del 2018.
Ma non basta ovviamente, perché dall’inizio dell’Ottocento a oggi il pianeta si è già riscaldato di 1°C; e si sta avviando pericolosamente a superare la soglia del riscaldamento di 1,5°, con gravi conseguenze sul sistema climatico. In sostanza, si va verso eventi meteo estremi (ondate di calore, siccità prolungate, alluvioni, uragani, ecc.) e sempre più catastrofici.
2) Nell’Unione Europea, almeno 412mila persone ogni anno muoiono prematuramente a causa della bassa qualità dell’aria. Per l’Organizzazione mondiale della sanità, l’aria inquinata è uno dei principali fattori di rischio per la salute dell’essere umano, costantemente minacciato da ciò che respira. L’area del Mediterraneo è al riguardo un hot spot, dato che si riscalda oggi molto più velocemente del resto del globo.
Ed è un fatto che in Italia usiamo ancora troppo carbone per produrre energia ed utilizziamo troppo poco le energie rinnovabili. Soprattutto nelle città, i pannelli solari sono ancora degli “sconosciuti” per troppi cittadini e per le istituzioni, che pure dovrebbero promuovere politiche incentivanti…
D’altronde, si continua incomprensibilmente (e trasversalmente ai colori politici di chi governa) a sgravare fiscalmente le fonti di energia fossili. Per il solo nel 2020 si contano ben 35,7 miliardi di euro di sgravi fiscali (oltre 21,8 miliardi sotto forma diretta e circa 13,8 miliardi in forma indiretta).
Ma non è solo l’aria. C’è una positiva proposta legge sul consumo di suolo che giace da anni in Parlamento, mentre il paradosso italiano ci consegna una crescita demografica del tutto ferma e il contemporaneo aumento della cementificazione. In altre parole, nel 2019 sono nati 420mila bambini e abbiamo consumato 57 milioni di metri quadrati di suolo, al ritmo di 2 metri quadrati al secondo. È come se ogni bambino che nasce portasse con sé 135 metri quadrati di cemento!
È un dato davvero allarmante perché la cementificazione rende il paese più fragile idrograficamente, favorisce i fenomeni di desertificazione e rende permanenti le pericolosissime “bolle di calore”, oltre i 40gradi nelle estati ormai sempre più calde e umide delle nostre città.
E, come se non bastasse, sullo sfondo si profila una pericolosa diminuzione di acqua dolce, dovuta, da un lato, alla siccità conseguente ai cambiamenti climatici e, dall’altro, alla mancanza di una strategia nazionale di razionalizzazione degli usi idrici e di riduzione delle perdite enormi. In sostanza, occorrerebbe assumere come prioritaria la organizzazione di un ciclo integrato delle acque degno di questo nome.
3) In questo quadro allarmante, la Campania si guadagna i primi posti. E Napoli fa la sua parte.
L’Agenzia Napoletana Energia e Ambiente stima che, per contenere in misura significativa i consumi di energia e le emissioni climalteranti nella città capoluogo, occorrerebbe ridurre, entro il 2030, del 50% le emissioni di CO2, che annualmente sono a Napoli di 3 milioni di tonnellate (2,96 t/ abitante). Ma un tale, ambizioso obiettivo richiederebbe un autentico investimento strategico sulle energie rinnovabili, ed in particolare sul fotovoltaico, che è favorito dal forte irraggiamento solare del Sud Italia.
A Napoli, infatti, l’edilizia pubblica e privata (residenziale-condomini) è responsabile di almeno il 40% dei consumi energetici; e moltissimi edifici (circa 344.000 mila) versano in mediocre o pessimo stato. Per arrivare a una percentuale del 10% di riduzione annua di CO2 bisognerebbe installare circa 30 megawatt, pari ad una superfice di 30 stadi di calcio. Di fatto, si avrebbe, al 2030, un impianto FV su ogni condominio ed edificio pubblico della città.
Non è un obiettivo impossibile. Anche perché la sola edilizia pubblica ammonta a Napoli a più di 50mila edifici, con costi economici ed ambientali totalmente fuori controllo, nonostante gli obblighi di legge e i finanziamenti disponibili. Entro il 2030, è previsto che almeno la metà di tali edifici sia NZEB, cioè edifici ad emissioni e consumi vicino a zero, grazie alle tecnologie ora disponibili per l’efficientamento energetico (cappotto termico, illuminazione, climatizzazione, domotica, rinnovabili ecc.)
Più in generale, la nuova legge sulle ristrutturazioni del patrimonio edile, col 110% a carico dello Stato, rappresenta una opportunità anche per l’ambiente. A patto che venga utilizzata subito dalla gran parte dei proprietari di immobili…
Assieme agli edifici, anche a Napoli sono ovviamente i trasporti a sprecare maggiormente l’energia. Per arrivare ad una positiva riduzione delle emissioni, bisognerebbe intervenire con decisione anche in tale ambito. Per esempio, eliminando o ammodernando almeno 30.000 auto all’anno; e incrementando parallelamente la capacità del trasporto pubblico e dei veicoli a basso contenuto di carbonio (bici, veicoli elettrici ecc.). Fino a ridurre o sostituire 300mila veicoli complessivamente al 2030.
4) Ma la pulizia e il ricambio dell’aria, passa anche per un incremento di alberi. Essi sono assolutamente determinanti, poiché contribuiscono significativamente all’assorbimento di anidride carbonica. Occorrerebbe perciò una forestazione massiva su tutte le superfici disponibili (tramite Green Belts, riforestazione di aree dismesse e aumento delle aree adibite a parchi).
In concreto, per ottenere una riduzione di 14.000 tonnellate anno di CO2 dovrebbero essere piantumati almeno 2 milioni di alberi nuovi in tutta l’area metropolitana di Napoli (e 3 milioni in tutta la regione).
E un ulteriore ambizioso intervento dovrebbe riguardare la raccolta differenziata, che occorrerebbe portare ad una percentuale del 90%, con una riduzione a monte dei rifiuti del 50%. Il che significa costruzione di impiantistica di compostaggio e tracciabilità pubblica del ciclo dei rifiuti speciali.
Infine, ma non per ordine di importanza, serve il cambio dei comportamenti delle persone, che può rappresentare il vero motore di un’economia a basso tenore di carbonio; anche in tale caso l’apporto minimo non dovrebbe scendere sotto le 75mila tonnellate in meno di CO2 entro il 2030.
Va poi da sé che gli investimenti nell’innovazione industriale, comprese le tecnologie digitali e le tecnologie pulite, sono necessari per stimolare la crescita, rafforzare la competitività e creare posti di lavoro, in particolare nell’ambito di un’economia circolare e una bioeconomia.
5) Insomma, si dovrebbero fare, e si potrebbero fare, molte cose per trasformare l’Italia, la Campania e Napoli in territori a basso impatto ecologico. Ma questi argomenti sono oggi clamorosamente assenti dal dibattito pubblico. E anche dal dibattito politico sulle prossime amministrative (in Campania, nel prossimo autunno, si vota nel capoluogo partenopeo, ma anche a Caserta e Salerno, e in tante altre città grandi e piccole).
La sottovalutazione dei temi ambientali è un segnale davvero preoccupante.
Ci dice della diffusa impreparazione della politica. E del pericolo che tutti corriamo. Perché non programmando le cose per tempo, il futuro s’oscura ancora di più. Nell’immediato e per il prossimo decennio.