Sul diritto di sciopero

La repressione nei confronti dei lavoratori della logistica di Tnt-Fedex di Piacenza e di Prato, il sostanziale veto a scioperare l’otto marzo espresso dalla Commissione di garanzia per il comparto scuola, la richiesta di dichiarazione scritta (per ora volontaria) per gli insegnanti che vogliono partecipare agli scioperi, l’accusa e le indagini per “associazione a delinquere e attentato alla sicurezza dei trasporti” nei confronti di 5 lavoratori portuali di Genova, rei di aver svolto attività sindacale e di essersi opposti, manifestando, al traffico di armi da guerra nel porto ligure: sono quattro episodi che segnalano l’urgenza, ora e in prospettiva, del tema del diritto di sciopero.

Sollecitano una profonda riflessione da parte del movimento operaio e dei lavoratori su come sia già cambiato, negli ultimi decenni, questo istituto giuridico e quale diverso approccio richieda oggi, nel suo utilizzo, per essere efficace.

In realtà, il libero diritto di sciopero è sempre stato ostacolato dalle classi possidenti che, in particolari fasi dello sviluppo del capitalismo, sono riuscite a irreggimentarlo e renderlo inefficace. E oggi, in piena pandemia, mentre si appresta a consolidare i cambiamenti epocali intervenuti nel sociale e nell’organizzazione del lavoro a seguito della robotizzazione e dell’informatizzazione di fabbriche e uffici (e ciò anche nell’intento di frenare una possibile conflittualità, oltre che per valorizzare il capitale), l’insieme del padronato prepara anche una nuova stretta sulle astensioni dal lavoro e sulla conflittualità in generale.

Le molte ambivalenze del conflitto sindacale nel capitalismo

Alla fine dell’Ottocento, gli scioperi venivano visti, oltre che come una necessità, proprio come un mezzo che suggeriva agli operai l’idea del socialismo e la possibilità di una lotta generale di tutta la classe per la liberazione dal gioco del capitale. Come annotava Lenin, essi insegnavano concretamente dove stava la forza dei padroni e dove quella degli operai, insegnavano agli operai che non esistevano soltanto il loro padrone e i loro compagni, ma tutti i padroni e tutta la classe degli operai. Abituavano gli operai all’unione, mostrando loro che soltanto uniti potevano vincere contro i capitalisti.

Questa positiva ambivalenza di valore – da un lato, strumento per raggiungere risultati utili agli operai e, dall’altro, occasione per educarli in direzione dell’autonomia di classe e della lotta per il socialismo – lo sciopero l’ha conservata per quasi tutto il Novecento. Ma con la nuova modernità costruita dal processo di “totalizzazione del rapporto di capitale”, l’uso “riformista” e “pedagogico” di questo strumento è stato profondamente trasformato in un congegno che, tendenzialmente, serve alla sola valorizzazione del capitale. I “risultati” arrivano solo se sono utili anche ai padroni. Anzi, solo se servono più ai padroni, almeno in prospettiva, che agli operai. E le situazioni di conflittualità radicale vengono semplicemente represse.

Una vera e propria decostruzione, quella operata dal capitalismo già negli ultimi decenni del secolo scorso. Da mezzo per maggiori livelli di emancipazione e di difesa dallo sfruttamento, da motore di cambiamento della società, il diritto di sciopero è stato stabilmente inserito negli attuali rapporti sociali capitalistici fatti di irreggimentazione e regolamentazione. Si è ritrovato, di fatto, imprigionato in una contrattazione utile solo ad accrescere la flessibilità e i cambiamenti nell’organizzazione del lavoro; il tutto in cambio di aumenti salariali smaccatamente insufficienti.

L’ultimo contratto dei metalmeccanici, firmato anche a seguito di mobilitazioni, ne è l’esempio, caso mai ve ne fosse bisogno.

Da dove viene la destrutturazione del diritto di sciopero

C’è da dire che questo destrutturare il diritto di sciopero, facendogli perdere le caratteristiche conosciute nel Novecento, non è solamente frutto, come si potrebbe credere, dei concreti rapporti di forza tra le classi (oggi favorevoli, e di gran lunga, al padronato); è anche conseguenza diretta, e forse soprattutto, dei processi economici capitalistici. Accanto alla repressione di ogni fenomeno non compatibile col sistema, quello che avviene è soprattutto l’estendersi veloce del rapporto di capitale ad ogni manifestazione dell’attività umana. E in questo espandere i propri domini sulla società da parte del capitale non poteva mancare la disciplina degli scioperi, cui si è giunti agli inizi degli anni ‘90, dopo una lunga fase di intimidazioni nei confronti dei settori e dei lavoratori più combattivi: licenziamenti, cassa integrazione, cariche poliziesche, reparti confine degli operai con maggiore coscienza nelle grandi fabbriche. E col timore continuo dei sindacati confederali di essere scavalcati dai Cobas.

E poi sono arrivate le precettazioni, le multe salate per le organizzazioni che non rispettano le regole nel settore pubblico e, a coronamento, il decreto sicurezza del 2019, che qualifica come reato penale, con reclusione da 1 a 6 anni, le forme di pressione “fuori dalle regole” (blocchi, ecc.), notoriamente indispensabili per dare incisività e visibilità alle vertenze ed alle lotte.

 La regolamentazione degli scioperi, comunque, non è una questione solo italiana. Esiste, infatti, in diversi paesi che si professano “democratici”, pur variando secondo le condizioni oggettive e soggettive dello scontro di classe. In alcuni c’è una secca limitazione del diritto di sciopero, in altri casi c’è una loro rigida irreggimentazione, in altri ancora troviamo l’autoregolamentazione.

Del resto, il diritto di sciopero è inserito solamente nella Costituzione di cinque paesi: Italia, Spagna, Portogallo, Francia, Grecia. Si tratta, per lo più, di Stati che hanno subito la dittatura fascista. E la rottura col fascismo ha significato un maggiore slancio del movimento operaio; di qui la sanzione solenne del diritto di sciopero. In altri Paesi – anche quelli che vengono definiti dai media mainstream come i più “democratici” Gran Bretagna, Svezia, Stati Uniti – si arriva al licenziamento o alla detenzione nei confronti dei lavoratori inadempienti alle regole, e sono vietati gli scioperi di solidarietà che, udite, udite!, tentano di “influire sulla politica Interna”…

Nei Paesi in cui il rapporto di capitale è più sviluppato, la irreggimentazione degli scioperi è comunque più stringente. E soprattutto risulta essere la conseguenza non della sconfitta, ma della vittoria dei “partiti riformisti”. Una volta andati al governo hanno tutti rapidamente esorcizzato la pratica delle astensioni dal lavoro, non dimentichi che essa, oltre ad essere una forma di pressione sui governi, è anche “la scuola di guerra del proletariato”.

Insomma, l’uso riformista degli scioperi nei paesi a capitalismo avanzato e l’estendersi del rapporto di capitale a tutto il vivere sociale, e quindi anche al diritto di sciopero, hanno seriamente cambiato questo strumento facendogli perdere incisività e caratteristiche.

Peraltro, il processo di irreggimentazione e snaturamento del diritto di sciopero è portato avanti oltre che dal padronato e dai principali partiti delle classi dominanti, anche da martellanti campagne di criminalizzazione di TV e giornali, che presentano i “diritti degli utenti” e la loro salvaguardia” come la vera posta in gioco. Ma le campagne di criminalizzazione non sono il problema principale. La difficoltà a fermare la decostruzione del diritto di sciopero risiede soprattutto nella situazione di divisione tra settore pubblico e settore privato, nella frantumazione dei lavoratori e nella scarsa sensibilità dell’opinione pubblica sul tema dei diritti politici dei lavoratori.

A monte vi è il peso delle sconfitte subite dal movimento operaio a partire dagli anni ’80. E c’è il peso delle ristrutturazioni aziendali. La robotizzazione e la informatizzazione delle attività lavorative hanno prodotto segmentazioni e divisioni nelle fabbriche, mentre permane la diffidenza operaia nei confronti del pubblico impiego e dei servizi.

Questa situazione di mancanza di unità, come anche le tenaci remore nei confronti dei lavoratori della Pubblica amministrazione e dei servizi, visti dalle tradizionali “tute blu” come soggetti “più garantiti”, appare particolarmente insidiosa. Di fatto, il disciplinamento degli scioperi e la loro regolamentazione, una volta applicata nel P.I. e nella erogazione dei servizi, influenza immediatamente le relazioni sindacali anche nel comparto privato e nei luoghi della produzione dei beni materiali. Occorre perciò una battaglia specifica e costante, che non solo spinga per l’unità di tutti quelli che lavorano, ma miri anche a fare chiarezza sul concetto ambiguo di ‘pubblica utilità’.

Quando gli scioperi coinvolgono i servizi di pubblica utilità

Nella società borghese, un bene di “pubblica utilità” è tale se è congeniale al sistema capitalistico. Ben altra cosa è la “utilità pubblica” per i marxisti e per i proletari più coscienti, che la subordinano alle esigenze e ai bisogni di tutti i lavoratori, nonché all’interesse storico dell’umanità. In definitiva, quando si sciopera nei pubblici servizi, il lavoratore che si ribella alla condizione cui lo sottopone il padronato crea un danno al sistema capitalista, non certo all’altro lavoratore.

Il che vuol dire che non bisogna porsi per forza, quando si lotta, il tema del “consenso dell’utenza”. Bisogna ovviamente fare attenzione ai diritti principali della persona, come quello di cura, ma gli snodi logistici legati allo scambio e alla produzione di merci non possono essere visti come un tabù, come luoghi off limits per chi lotta.

In ogni caso, il lavoratore del settore privato sarà solidale con quello del P.I. e servizi solo se vedrà in lui un lavoratore impegnato nella sua stessa battaglia, quella per il miglioramento della vita sociale. Deve vederlo con lo sguardo del lavoratore, non con lo sguardo del cittadino. Se dimentica che chi interrompe un servizio pubblico mettendosi in sciopero è comunque un lavoratore come lui, non potrà che sentirsi infastidito dal disservizio. Potrebbe perciò anche divenire il miglior supporto delle richieste di “ordine”: proprio perché vedrebbe nello spazzino o nell’insegnante in sciopero un cattivo esecutore di un bene di “pubblica utilità” cui egli stesso contribuisce in quanto cittadino che paga le tasse.

Detto in altre parole: guardare ad un generico “utente” come possibile alleato conduce in un vicolo cieco. O si mette in primo piano il valore classista, e perciò sociale, delle lotte che coinvolgono i servizi di pubblica utilità, o non se ne esce.

Come anche non andrà lontano chi nel processo di disciplinamento degli scioperi, si appella a soluzioni normative da cui trarre vantaggi. In tale maniera si riuscirà al massimo ad arrivare a risultati instabili, che saranno rimessi in discussione ogni qualvolta lo spirito di coesione e di combattività dei lavoratori verrà meno.

E ancora peggio sta chi si affida ai referendum nella firma dei contratti, che si indicono dopo lunghi mesi di contrattazione, quando subentra la stanchezza. Per non parlare della paura del “dopo”: tanti non sarebbero d’accordo, ma pensano anche che bocciando l’intesa raggiunta si rischia di fare un salto nel buio senza conoscere gli sbocchi.

Ma cos’è che spinge il capitale ad attaccare, oggi più di ieri, il diritto di sciopero, e con esso le condizioni generali del proletariato?

Dietro il processo della disciplina degli scioperi vi è la “totalizzazione del rapporto di capitale”, che omologa sul metro delle efficienze di fabbrica tutte le manifestazioni lavorative e le attività umane. L’infernale algoritmo a cui sono sottoposti i lavoratori dei servizi di Amazon ricorda molto, anche nelle sue finalità, quello della fabbrica” just in time.”

La disciplina degli scioperi vuol dire anche ulteriore imbrigliamento degli spazi per sé dei proletari, al fine di renderli ulteriormente compatibili con le esigenze del capitale. In concreto ciò avviene attraverso una legittimazione delle organizzazioni sindacali che viene dall’alto del quadro di governo del sistema. Ad esse viene riconosciuta una sorta di “delega al conflitto”, da far vivere però entro binari rigidamente prefissati e con passaggi operativi (tipo le commissioni dei “saggi”) completamente interni alle logiche delle compatibilità aziendali e nazionali, nonché col sostanziale azzeramento degli istituti di democrazia dei lavoratori.

Ma non basta. Le manovre di disciplinamento del diritto di sciopero partono dalla diffidenza generale verso il pubblico impiego, in quanto comparto più esposto agli occhi della “pubblica opinione” per la duplice condizione che investe il loro rapporto di lavoro: da un lato, sono lavoratori sfruttati, al servizio della valorizzazione capitalistica; dall’altro, svolgono un lavoro di pubblica utilità.

Come difendere il diritto di sciopero

Una difesa efficace del diritto di sciopero non passa per battaglie giuridiche che pure vanno fatte. E non è neppure quella della regolamentazione contrattuale dei diritti sindacali, che pure va esperita. La linea di difesa vera risiede, invece, nella unificazione delle lotte del settore pubblico e del settore privato, a partire dai profondi cambiamenti che sono intervenuti a livello economico, politico e sociale.

E i cambiamenti venuti avanti in questi anni sono veramente profondi. L’estensione del rapporto di capitale, infatti, oltre ad interessare il lavoro in fabbrica con la robotizzazione e l’informatizzazione spogliando delle abilità professionali e trasformandolo in semplice controllore della macchina il lavoratore, ha reso il lavoro salariato sempre meno scindibile in produttivo e improduttivo. Il lavoro attivato nei servizi più o meno pubblici o nella catena della distribuzione delle merci è qualitativamente simile, ai fini della valorizzazione, al lavoro dei segmenti di produzione più direttamente collegati agli oggetti-merce.

Non a caso vi troviamo i caratteri simili del lavoro di fabbrica: flessibilità, precarietà, legame contrattuale tra la produttività e il salario; e soprattutto un rapporto stretto tra le esigenze del capitale e la prestazione di pubblico impiego e servizi. E non è neanche un caso che il conflitto sociale da qualche tempo si sia espresso con punte spesso radicali proprio nei settori considerati una volta “quieti”.

È con questa nuova situazione della composizione sociale che bisogna confrontarsi, contrastando anzitutto le diffidenze e gli stereotipi che dividono lavoratore da lavoratore. E questo è possibile facendo interagire i lavoratori sia privati che pubblici con i bisogni sociali e mettendo in piedi comitati intercategoriali quanto più larghi possibili.

Interagire con i bisogni sociali vuol dire indicare nelle vertenze, accanto agli obiettivi di miglioramento delle proprie immediate condizioni di vita e di lavoro, anche i temi che riguardano tutti i lavoratori in generale. Ma vuol dire anche chiamare la società civile cosciente a sostenere la giustezza delle lotte: per esempio, con azioni ostruzionistiche di multinazionali o aziende il cui comportamento crea disagi sociali.

Insomma, le vertenze devono diventare esse stesse un “bene comune”. Così come il “chi tocca uno tocca tutti” deve uscire dai singoli luoghi di lavoro ed allargarsi al sociale.

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