La questione dei popoli nativi in Brasile

I popoli americani originari furono erroneamente chiamati indios, indiani (cioè abitanti dell’India), perché Colombo credette di essere arrivato in India per una rotta alternativa verso ovest; successivamente i primi coloni europei li qualificarono come indigeni. Nei loro confronti sarebbe perciò più corretto usare termini come aborigeni, autoctoni o popoli nativi.

L’aumento della violenza contro i popoli nativi

Il Consiglio Indigenista Missionario (CIMI), un organismo legato alla Conferenza Nazionale dei Vescovi Brasiliani (CNBB) che da 48 anni opera in difesa dei diritti dei nativi del Brasile, pubblica un rapporto annuale sulla violenza contro quei popoli. Ogni volta il rapporto si fa più corposo. Diventa più denso, perché la violenza aumenta sempre di più. E questa violenza è dovuta alla mancanza di rispetto per i popoli nativi, al pregiudizio, all’assenza di dialogo e di impegno da parte delle istituzioni. È una violenza che si materializza quotidianamente con la mancanza di accesso all’acqua e all’energia elettrica e con la mancanza di scuole, assistenza e cure mediche; ma spesso anche con omicidi, percosse e minacce.

Lo studio pubblicato dal CIMI sottolinea, inoltre, l’intensificazione e la diversificazione delle forme di esproprio del territorio indigeno già nel 2019, primo anno del governo Bolsonaro. Invasioni e attacchi risultarono in quell’anno più che raddoppiati rispetto al 2018. A titolo di esempio, l’organizzazione cita l’ondata di incendi in Amazzonia e nel Pantanal del 2019, ripetutisi poi nel 2020 nonostante le ampie ripercussioni internazionali.

Il rapporto sottolinea che “spesso gli incendi sono parte essenziale di un programma criminale di accaparramento dei terreni, in cui la ‘pulizia’ di vaste aree di foresta viene effettuata per consentire l’insediamento di aziende agricole”.

L’indicatore che misura le invasioni di terreni, lo sfruttamento illegale di risorse e i danni alla proprietà ha registrato lo scorso anno un aumento del 134,9%. Gli incendi determinano altresì una migrazione forzata delle popolazioni native, fenomeno che intensifica notevolmente la vulnerabilità di queste comunità.

Il deterioramento della protezione territoriale è legato alla politica adottata dal governo sin dal suo inizio. Con l’avvento di Bolsonaro si è verificata una sorta di via libera all’invasione dei territori indigeni, suppostamente protetti a livello ambiantale, da parte di chiunque avesse un qualche interesse per lo sfruttamento economico. Il rapporto divulgato dal CIMI richiama l’attenzione sulla situazione nello Stato del Mato Grosso del Sud, che ospita la seconda popolazione autoctona del paese, in cui si registra un record di pratiche di tortura nei confronti dei popoli nativi, compresi i bambini.

Anche la pratica del suicidio ha un’elevata incidenza tra quelle popolazioni: nel 2019 si sono registrati 267 casi in tutto il Brasile, con un aumento del 31,7% rispetto all’anno precedente. Mentre un altro fenomeno che spicca è l’aumento della mortalità infantile: + 39,6% dei casi tra il 2018 e il 2019.

La Commissione Interamericana sui Diritti Umani (CIDH), organo autonomo dell’Organizzazione degli Stati Americani (OAS) e della Convenzione Americana sui Diritti Umani, ha pubblicato il 5 marzo scorso il rapporto intitolato “Situazione dei diritti umani in Brasile”. È una pietra miliare importante nella difesa dei diritti umani, poiché l’ultimo rapporto precedente era stato redatto addirittura 20 anni fa. Nonostante il tempo trascorso, le criticità rimangono le stesse, mentre le disuguaglianze si sono intensificate ancor di più con la pandemia di Covid-19.

Il rapporto contiene molti capitoli dedicati ai popoli originari del Brasile, tra i quali: i dati sulla popolazione e sulle diversità delle popolazioni e delle lingue indigene, la legislazione competente, l’aumento della violenza e delle minacce, l’aumento delle invasioni dei territori indigeni, le difficoltà di assegnazione legale e di protezione dei territori, la revisione delle politiche indigene e ambientali nel paese, con quasi 100 proposte legislative in corso di elaborazione in Parlamento a scapito dei diritti degli indigeni.

Ed ancora: l’indebolimento istituzionale della Fondazione Nazionale dell’Indigeno (FUNAI – un’organizzazione ufficiale del governo brasiliano responsabile della protezione dei nativi e delle loro terre) e delle leggi riguardanti la concessione delle licenze ambientali e la precarietà delle politiche sanitarie per i popoli originari.

Raccomandazioni e critiche allo Stato brasiliano

Il rapporto del CIDH contiene diverse raccomandazioni allo Stato brasiliano, di cui le più importanti sono:

– garantire l’accesso alla giustizia e il risarcimento per le violazioni dei diritti umani delle popolazioni indigene e quilombola causate nel contesto delle attività estrattive, dello sfruttamento e dell’uso delle risorse naturali;

– accelerare la finalizzazione delle richieste di delimitazione, demarcazione e denominazione di terre e territori tradizionali dei popoli indigeni e tribali in conformità con le norme internazionali applicabili in materia di diritti umani.

La CIDH ha anche menzionato diversi casi di estrema violenza contro le popolazioni indigene, evidenziando che “uno dei principali problemi associati alle questioni di difesa territoriale e ambientale sono le intimidazioni, le minacce e gli attacchi contro gli attivisti ambientalisti, i leader e le comunità indigene che difendono il loro territorio. Il vertiginoso aumento di invasioni, accaparramenti di terre, incendi dolosi, suddivisioni illegali, minacce, conflitti, criminalizzazioni e lo stato di abbandono dell’assistenza sanitaria e dell’istruzione mostrano che le popolazioni indigene affrontano uno dei momenti storici più difficili dai tempi della invasione dei colonizzatori”.

In effetti, il rapporto ritrae una realtà estremamente perversa e preoccupante dopo l’avvento del governo di Jair Bolsonaro. L’intensificarsi degli espropri di terre indigene, basati sulle invasioni, sull’accaparramento e sulla suddivisione delle terre, si consolida rapidamente e in modo aggressivo su tutto il territorio nazionale, provocando una distruzione ambientale incalcolabile: storicamente, infatti, la presenza dei popoli nativi all’interno dei loro territori si è configurata come una vera e propria barriera all’avanzamento della deforestazione e di altri processi di spoliazione. Ma tale funzione viene meno con la usurpazione e la distruzione dei loro territori tradizionali.

In questa prospettiva di distruzione dei territori indigeni va inserito l’aumento esponenziale degli incendi criminali che hanno devastato l’Amazzonia e il Cerrado nel 2019 e 2020, con ampia risonanza internazionale. E, come è noto, gli incendi sono spesso l’avvio di un programma criminale di accaparramento di terre, in cui la “pulizia” di vaste aree di foresta viene eseguita per consentire la successiva istallazione di imprese agropecuarie.

È evidente che la violenza esercitata contro le popolazioni indigene si basa su un progetto governativo che mira a mettere i loro territori ed i beni comuni in essa contenuti a disposizione degli imprenditori dell’agrobusiness, minerario e forestale. In sostanza, la politica del governo Bolsonaro ha introdotto una nuova linea di attrazione degli investimenti che, oltre ad essere escludente, si è resa pesantemente colpevole nei confronti degli indigeni, trattandoli come esseri inferiori e delegittimando le loro richieste, in un’ottica ostile alla loro sopravvivenza.

In sintesi, gli ultimi due anni sono stati caratterizzati dalla subordinazione del processo di demarcazione e regolarizzazione dei territori indigeni agli interessi dei progetti agroalimentari, da un aumento esponenziale dei conflitti e delle invasioni fondiarie, dallo sfruttamento clandestino delle risorse naturali all’interno di terreni già delimitati e dalla diffusione degli incendi nelle aree forestali dentro e intorno ai territori tradizionali.

Repressione e resistenza

Tra il 2017 e il 2019, l’incarcerazione di indigeni in Brasile è aumentata di circa il 45%. Si contano 37 popolazioni indigene nel sistema carcerario nel 2019. Ma questo numero potrebbe essere molto più alto, poiché solo 9 stati della federazione su 27 hanno fornito informazioni sull’etnia o sulle persone cui appartiene il detenuto indigeno.

Sulla base di questi rapporti e in relazione alla Risoluzione promulgata dal governo Bolsonaro sulla questione indigena, il CIMI ha denunciato qualche settimana fa, nella 46ª sessione ordinaria del Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU, che “il governo Bolsonaro sta promuovendo una vera e propria discriminazione contro i popoli nativi brasiliani”. Contemporaneamente, il giudice della Corte Suprema brasiliana Roberto Barroso ha sospeso la validità della Risoluzione di Bolsonaro.

La denuncia del CIMI sottolinea che il regolamento del governo brasiliano consoliderà il razzismo istituzionale contro i nativi, in quanto definisce “criteri di eteroidentificazione” dei popoli indigeni in Brasile. I “criteri” sono totalmente contrari al principio di autodichiarazione sancito dalla Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL). Il governo Bolsonaro sta cercando di attribuirsi il diritto di dichiarare chi è o non è indigeno in Brasile. È un atteggiamento autoritario e completamente inaccettabile.

I popoli originari e la situazione sanitaria

La salute indigena è amministrata in Brasile attraverso uno specifico settore del Sistema Universale di Sanità pubblica, che fornisce assistenza speciale alla sanità dei popoli originari sulla base della legge Arouca del 1999. La gestione della salute degli indigeni è condivisa con i popoli nativi e viene attuata anche attraverso il controllo sociale: nel senso che ai distretti sanitari indigeni partecipano le stesse comunità interessate. In questi distretti vengono discussi i modi in cui applicare le risorse e quali sono le priorità.

Questo sistema partecipativo dovrebbe funzionare adeguatamente, ma sfortunatamente in molte regioni non funziona. Molti indigeni soffrono di malattie e muoiono per mancanza di assistenza, soprattutto bambini.

Quando il coronavirus è arrivato in Brasile, il primo passo è stato chiudere i territori indigeni, isolarli. Gli indigeni hanno contribuito a mettere in atto queste misure, nessuno è uscito e nessuno è entrato. Questa è stata la prima precauzione per proteggersi dal Covid-19.

In seguito, diverse campagne sono state promosse dalla società civile organizzata, dalle chiese, dai sindacati affinché gli indigeni rimanessero nei loro territori. In un primo momento ha funzionato, ma poi molti nativi hanno dovuto uscire dai territori per avere accesso ad alcune risorse che stavano scarseggiando. Hanno fatto la loro parte, si sono protetti, hanno evitato i contatti pericolosi, ma purtroppo non sono pututi restare per tutto il tempo senza uscire, perché hanno avuto bisogno di fare scorte di cibo, hanno avuto bisogno di aiuto.

L’attuale pandemia può avere conseguenze molto gravi per i popoli nativi. La Segreteria Speciale per la Salute Indigena (Sesai) riconosce che le popolazioni indigene sono più vulnerabili ai virus, in particolare alle infezioni respiratorie (come il covid-19). Secondo la Segreteria, le malattie respiratorie sono, ancora oggi, la principale causa di mortalità infantile tra le popolazioni indigene. Storicamente virus e malattie di questo tipo hanno causato il genocidio di interi popoli e hanno contribuito – come parte di una storia di contatti forzati, guerre e stermini – a ridurre la popolazione indigena in Brasile nel corso dei secoli.

Il Ministero Pubblico Federale (MPF) stima ora che, a causa delle specificità delle popolazioni indigene, della vulnerabilità sociale di diverse comunità e dell’alto tasso di diffusione del coronavirus, esiste il rischio di genocidio indigeno nel mezzo della pandemia. Inoltre, nel bel mezzo della pandemia, le invasioni di terre indigene comportano il rischio aggiuntivo di contaminazione di villaggi e intere popolazioni. Sulla base di ciò, il MPF ha emesso una serie di raccomandazioni ad agenzie pubbliche, ministeri, stati e comuni.

Tra le misure applicate dal MPF e dalle organizzazioni indigene, come l’articolazione dei popoli indigeni del Brasile (Apib), vi sono la protezione dei territori indigeni e le misure per il ritiro immediato di garimpeiros (cercatori di frodo di risorse protette), taglialegna irregolari e invasori e sottrattori di terre tradizionalmente indigene.

Attualmente, i dati dicono che più di 45.000 indigeni sono stati infettati dal covid-19 e circa 1.200 di loro sono morti a causa della malattia.

Valorizzare i popoli nativi

Per molti anni le politiche governative non hanno portato adeguati benefici alle popolazioni indigene. Il più recente governo, quello di Bolsonaro, ha persino promosso i saccheggi. I popoli indigeni vengono derubati delle loro terre, delle loro ricchezze, delle loro acque, dei loro valori. E la loro filosofia del buon vivere è minacciata.

Ma la loro religiosità, la loro spiritualità li sostiene nel loro cammino di resilienza e dignità. Infatti, nonostante tutte le prevaricazioni subite, cresce il numero delle popolazioni autoctone del Brasile: oggi sono già più di 900mila unità, distribuiti in più di 302 diverse etnie.

È necessario dare valore agli autoctoni. Anche perché essi, a loro volta, già valorizzano se stessi. Vivono la loro cultura, apprezzano la loro comunità, tengono in considerazione i giovani, i bambini, le donne. Non ci sono grandi differenze sociali tra loro, non c’è un bambino senza casa, un bambino abbandonato. Non ci sono proprietà, non ci sono recinzioni. C’è un popolo e c’è la comunità; e il rapporto con la società avviene coltivando soprattutto i valori del rispetto, i valori democratici, i valori universali, tra cui quello basilare di considerare l’essere umano al centro della società.

È un messaggio prezioso per i popoli “civilizzati” occidentali, sempre più alla deriva in un mondo in balia dei mercati e delle merci.

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