1) Era chiaro fin dalla sua nascita che LEF non poteva restare solo uno strumento a servizio del dibattito teorico, e che prima o poi doveva proporsi anche come “luogo della politica” nel senso più pieno, secondo la nostra storia (la storia di chi LEF l’ha pensata e proposta). Analizzata la realtà sociale con lo sguardo rivolto ai drammi, alle insufficienze, alle ingiustizie e alle sofferenze che questo modello sociale genera, inevitabilmente avremmo cercato i punti di crisi e ipotizzato i possibili percorsi di pratica sociale oppositiva e confliggente con la modernità capitalistica.
A ben vedere, la stessa ricerca teorica, che pure la rivista pratica e continuerà a praticare, non è mai stata un esercizio filosofico separato, cosa per altra assolutamente legittima. È rimasta connessa, invece, all’idea, solo apparentemente antica, che la comprensione del mondo e la sua trasformazione devono necessariamente camminare assieme, pena la cancellazione di ogni sguardo rivolto al futuro.
Vero è che siamo in un’epoca piena di fantasmi e di “futuri che non sono stati quello che si sperava”; ma prendere atto di questa condizione, non significa dare ragione a chi definì quello attuale come il mondo che non ha alternative.
D’altronde, la capacità del capitalismo moderno – quello totalizzato, virtualizzato, dematerializzato – di inglobare e congelare ogni espressione della creatività e della conflittualità non si sta rivelando così assoluta e pervasiva come tendeva ad apparire all’inizio del nuovo millennio. Qualche pensatore critico lucidamente lo prevedeva.
Per quanto ancora forte e attiva, questa capacità incontra ora degli ostacoli, dei punti critici che non potrà superare in modo indolore, o meglio inglobare con la quasi pacifica sicurezza con cui è riuscita a inglobare e normalizzare taluni elementi critici della seconda metà del secolo scorso, che pure sembravano inassorbibili (ad esempio, la rivolta giovanile e generazionale o anche la rivoluzionaria orizzontalità della rete; ma il discorso si potrebbe estendere ad alcuni contenuti, inizialmente iperradicali, collegati alle questioni di genere o a forme di arte e cultura alternative, oggi divenuti mainstream, con celebrazioni istituzionali in pompa magna, o battute d’asta a suon di milioni di dollari o euro).
2) Giunto ad un apice di straordinaria forza, il capitalismo sembrava non avere limiti e si rappresentava come l’ultimo e definitivo capitolo della storia umana: in parte confidando nella sua consolidata capacità di neutralizzare, in futuro, altri fattori di crisi, addirittura prefigurandoli, progettandoli o inoculandoli inerti nel corpo sociale, come una sorte di vaccino; e in parte semplicemente ignorando l’esistenza dell’inconciliabile oppure mascherandolo, così che la cancellazione di nuovi futuri divenisse, da un lato, una reale operazione di chirurgia sociale, e, dall’altro, uno sforzo di rappresentazione virtuale della immutabilità del reale.
Non dobbiamo per forza credere nella storia maestra di vita, in un rigurgito postmoderno di pensiero vichiano; ma non possiamo non pensare a quanti universi sociali, comprensivi delle forme giuridiche e delle istituzioni, hanno avuto di sé, in vita, l’idea di essere già ogni futuro possibile, l’apogeo dell’umanità, oltre il quale l’inimmaginabile o il nulla: l’impero romano, non meno che l’impero coloniale spagnolo o quello inglese, fino all’URSS , ma solo per fare esempi vicini a noi per storia o geografia, ché le vicende degli altri continenti raccontano di molti e straordinari esempi simili.
Attenzione, voglio sottolinearlo: non si tratta della storia politica o istituzionale soltanto. Parlo di modelli e relazioni sociali, di strutture economiche e giuridiche, di paradigmi culturali, di universi valoriali, addirittura di definizioni antropologiche, tutte contenute in ciascuna di quelle esperienze storiche che, nel tempo del loro presente, neppure consentivano di ipotizzare un mondo oltre se stessi.
E tuttavia, inesorabilmente, per quel principio dialettico che, molto più realisticamente di ogni autoglorificazione, racconta delle inevitabili linee di crisi esistenti nelle società fondate sull’ineguaglianza e l’inimicizia, le fondamenta di quelle universalità venivano erose da qualcosa che, alla lunga, si rivelava non conciliabile, non inglobabile, spesso non prevedibile, sicuramente non neutralizzabile. E che nell’arco di tempi lunghi, o talvolta inaspettatamente brevi, ne decretava la fine, più o meno rumorosa, più o meno tragica: con conseguenze in qualche caso risolte con successo da un nuovo che, nel tempo di qualche generazione, dava forma ad un futuro che neppure si immaginava, ma che era già dentro gli interstizi del mondo di prima; in altri casi, con derive sconvolgenti, durate addirittura secoli, senza che un nuovo futuro si inverasse come immanenza salvifica e fine della storia.
Ciò detto, e rischiando di semplificare il ragionamento sui ritorni della storia, di fronte ad evidenti insufficienze di questo presente per molta parte degli abitanti del pianeta (in termini di pace, livelli di vita adeguati e dignitosi, salute, accesso al sapere, determinazione e autodeterminazione, relazione e godimento non distruttivi con e della natura), è più che giustificato porsi la domanda se tutto sia già scritto e iscritto da e in questo modello socio- economico-relazionale, oppure no.
3) In effetti, a me pare innegabile l’esistenza di irriducibili contraddizioni tra ciò che oggi si autorappresenta come immutabile e ciò che costantemente muta per effetto dell’inevitabile movimento ad agire dello stesso modello, sebbene mascherata da abilissimi strumenti di distrazione di massa, da diffusori di cultura popolare in servizio permanente, oltre che da più ardite manovre di manipolazione della coscienza e conoscenza collettiva.
Per capirci, il relativo benessere di cui godono i popoli (ovviamente nel rispetto delle gerarchie sociali) dei paesi avanzati continua a fondarsi, largamente, su ragioni di scambio ferocemente diseguali con la vita, il lavoro e la natura dei popoli del sud del mondo, generando non solo una persistente e anzi crescente povertà per centinaia di milioni di esseri umani, ma anche colossali disastri ambientali e gigantesche ondate migratorie, eventi che già da soli ripropongono il tema di un futuro da ripensare. E la cosiddetta transizione ecologica – che appare come la rappresentazione virtuale di una convivenza possibile tra capitalismo ed ecologia, un nuovo inglobamento nel sistema vigente di un fattore inizialmente critico – spesso è solo il mascheramento del passaggio da un modello di sfruttamento della natura ad un altro, ovvero dal petrolio alle terre rare, dalle raffinerie che oscurano i cieli ai laboratori di biochimica e bioingegneria che progettano sospettabili manipolazioni sui viventi.
Come è accaduto in passato, anche la modernità capitalista genera il suo altro da sé; e sebbene appaia come un sistema totalizzante, capace di occupare l’intera sfera del vivere, dando luogo ad un Antropocene in cui l’uomo si rappresenta come il padrone/governatore di ogni cosa, qualche problema c’è. L’attuale pandemia ha scoperto il vaso di Pandora, segnalando, con due milioni e più di morti, come la zoonosi operi del tutto indipendentemente dal controllo umano; ma anche avvertendo che il dominio sulla natura non è affatto scontato e che, con ogni allarmante probabilità, le devastazioni ambientali avranno ripercussioni tutt’altro che governabili.
Il rapporto con la natura, ovvero quella che comunemente definiamo questione ambientale, è, per il capitalismo moderno, un primo terreno di crisi del dominio assoluto e della capacità di fagocitare e annullare il futuro. Non mancano, tra le élite più avvertite del sistema, effettive preoccupazioni sul punto, ed anche tentativi di trovare la quadra per far convivere (e anzi trasformare la convivenza in una nuova occasione) la questione ambientale e la riproduzione sociale fondata sul gigantesco accumulo di lavoro morto.
Il punto, però, è proprio questo: il capitalismo non può riprodurre il suo mondo se non ingigantendo il sistema delle macchine, che oggi risulta essere una formidabile combinazione di lavoro e vita estorta agli esseri uman,i e di materia ed energia sottratta alla terra e agli altri viventi.
4) È sempre stato così, è vero; ma quando il lavoro vivo prevaleva, la spoliazione della terra era limitata, compatibile, il più delle volte, con i tempi della naturale riproduzione della natura.
Oggi, dallo sfruttamento intensivo dei terreni per l’agricoltura alla deforestazione, dalla ricerca sempre più sfrenata di giacimenti dei minerali usati nelle nuove tecnologie allo sfruttamento delle risorse idriche, in molti punti del mondo ai limiti dell’esaurimento, tutto concorre a ingigantire la massa di natura che viene violata, consumata e destinata ad essere trasformata in artificio, tanto da stravolgere lo stesso assetto del pianeta. L’immagine della gigantesca isola di rifiuti da 2 milioni di kmq che galleggia nell’Oceano Pacifico rende molto bene il senso degli accadimenti.
E del resto, qualcuno oggi già si interroga, con preoccupazione, su cosa sarà dei milioni di pannelli fotovoltaici che tra alcune decine di anni saranno obsoleti; mentre oggi quegli artifici sono il simbolo di una rinnovata amicizia col pianeta, in futuro diverranno un problema gigantesco. Su tutto, poi, incombe il rischio di catastrofi immani, di quelle che possono cancellare anche intere civiltà.
La questione è: si può ipotizzare un paradigma diverso nel rapporto con la natura e l’ambiente? ad esempio: prendere dalla natura non quanto occorre per sostenere questo modello di produzione e consumo, ma quanto necessario a dare alla natura il tempo e il modo di rigenerarsi, anche se questo significa modificare radicalmente, e non solo in apparenza o in superficie, il modo di produrre e di consumare? Ovviamente, la questione consente di articolare percorsi e conflitti anche più limitati di quello generale tra un altro futuro e il non-futuro. Ed è in questo spazio che oggi è necessario operare.
5) Un altro, e ancora più complesso ambito nel quale gli elementi di crisi del capitalismo moderno sono evidenti, riguarda il rapporto che il modello ha con i singoli individui, ciascuno considerato nella sua irripetibile singolarità.
Il capitalismo “realistico” dell’oggi opera come esplicito dominio su ciascun individuo, o si sforza di operare in tal senso, coinvolgendo l’intera vita nello sforzo di riprodurre il mondo com’è, anzi ancora più diseguale, vorace, ingiusto. Le energie, l’intelligenza, la creatività sono inglobate in un processo gigantesco, di cui i singoli sono puri ingranaggi.
Il modello in sé non necessita realmente di individui che siano effettivamente più energici, intelligenti e creativi, ma solo che lo siano potenzialmente, così da rendersi estremamente flessibili ed essere compatibili con ogni “terminale” del sistema generale del lavoro. Che gli ingegneri lavorino nei depositi di Amazon, i laureati in lingue nei call center, i laureati in lettere come rider (ovviamente, uguale sorte tocca a tanti laureati e diplomati di qualsiasi tipo) non è un’anomalia del modello. È il modello.
La potenzialità di ciascuno conta poco quanto niente, e questo vale sia per chi ha un bagaglio di conoscenze e di saperi elevato, sia per chi quel bagaglio non ha, ma è comunque portatore di potenzialità creative. Il capitalismo realistico non ha nessun interesse a sviluppare e favorire la libera espressione delle potenzialità individuali, a consentire che ciascuno, “prendendo il potere in sé stesso”, realizzi una pienezza di vita, in armonia e condivisione con gli altri.
Al modello è sufficiente che l’individuo sia compatibile con il sistema generale delle macchine e si pieghi al processo di riproduzione sociale. La maggiore flessibilità diviene la caratteristica più moderna del lavoro vivo.
Ma il punto è che la maggiore flessibilità comporta anche che gli individui siano tendenzialmente più istruiti, più sapienti, e quindi più consapevoli delle possibilità che avrebbero di vivere diversamente e meglio. Sono più capaci, almeno in potenza, di avvertire l’inadeguatezza e la sofferenza della condizione presente.
Per dirla in breve, la necessità del capitalismo “realistico” di disporre di individui maggiormente flessibili, adattabili, da annichilire però in un rapporto che è tutto a vantaggio della riproduzione delle attuali, “immutabili”, relazioni sociali, costituisce la forma moderna della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione.
Come è sempre accaduto, questa contraddizione può avere risposte individualistiche (mi sforzo per salire nella scala sociale), può generare rassegnazione (mi accontento di ciò che ho, perché potrei stare peggio) o può determinare un senso critico verso il modello presente.
È in questo spazio che si delinea una crisi difficilmente componibile tra l’attuale assetto sociale e le aspettative delle persone; ed è in questo spazio che si situano, con senso e prospettive nuove, battaglie come la riduzione dell’orario di lavoro, le condizioni salariali e normative dei lavoratori in tutti i settori, ma anche l’organizzazione ed il funzionamento dell’istituzione scolastica, ed in generale dei luoghi di sviluppo e trasmissione delle conoscenze e dei saperi.
Ed anche in questo ambito, l’eterno presente perde la sua neutralità/naturalità e le risposte diverse diventano due diversi futuri. Da prefigurare già oggi, anche se il confronto, in apparenza, può sembrare limitato a singole questioni.
6) In sostanza, su queste due ambiti (la questione ambientale, e un più pieno e libero sviluppo di ciascuno), diviene inevitabile constatare l’esistenza di almeno due punti di vista confliggenti, ognuno dei quali ipotizza un diverso futuro, sia nel rapporto con l’ambiente, sia in relazione a ciò che immaginiamo come pieno sviluppo dell’umano in ogni singolo individuo. E ciascuno dei punti di vista tenterà di fagocitare l’altro, annullandolo o sterilizzandolo.
Si tratta di scontri veri, inevitabilmente destinati a segnare un pezzo della storia a venire. Nonostante lo squilibrio oggi esistente a netto favore del mondo com’è adesso, la crisi opera e si sviluppa nel corpo profondo delle società, reclamando il cambiamento, senza dare per nulla scontato l’esito finale. Le due ipotesi (i due futuri possibili, l’uno configurantesi come dilatata, ma sostanzialmente immutata, persistenza del presente – il futuro negato; l’altro che si dipana come crescente negazione del presente) contengono innumerevoli implicazioni, di cui alcune di straordinaria importanza. Ad esempio, quali conoscenze, e quindi quale ricerca, quale tecnica, quali saperi, quale istruzione, implementare?
Sfatato definitivamente il mito della neutralità del sapere, in particolare del sapere che diventa tecnica, che cioè si applica concretamente alle attività e alla vita degli uomini, appare evidente che ci sono conoscenze che vanno implementate ed altre no. E non mi riferisco all’evidenza della scienza e della tecnica applicata alle armi e alla guerra, ma anche alla scienza e alla ricerca in campo sanitario, nei sistemi di trasporto, nell’assetto urbano, nella comunicazione…
Ulteriore conseguenza di queste scelte, perché di scelte si tratta, saranno ipotesi diverse di modelli educativi, di sistemi sanitari-assistenziali, di condizioni abitative, ecc.
Ed è di tutta evidenza che ogni volta che si presenterà una duplicità, nella quale uno degli elementi costituirà un’incongruità e/o un’innovazione critica rispetto al presente e al suo decorso falsamente “pacifico” e apparentemente “naturale”, si riproporrà, inevitabilmente, e direi fortunatamente, l’idea che vi sia un futuro non già scritto: che, cioè, non riproduce il presente, e che quindi non è il non-futuro cui siamo abituati. È invece un qualcosa di profondamente diverso, già qui ed ora proponibile. Nel tempo che viene.
7) Di fronte a questa possibilità, che talvolta appare lontana, ma non è mai veramente assente, il presente, ovvero il capitalismo “realistico”, con il suo formidabile apparato economico-istituzionale-comunicativo-repressivo, sorretto da concreti agenti sociali e non meno attivi fattori ideologici, userà tutta la sua forza per evitare il cambiamento: talvolta inglobandolo, talvolta neutralizzandolo, in ogni caso negandone la concretezza come altra possibilità del vivere, al di fuori dell’attuale modalità, subdolamente rappresentata come migliorabile ma non sostituibile.
Vi è dunque qualcosa di profondamente utile, di rivoluzionario, nel continuare a ragionare, anche nelle condizioni attuali, anzi proprio nelle condizioni attuali, sui temi della sanità, del sapere e della scuola, della ricerca, dell’ambiente, delle condizioni, qualità e quantità del lavoro vivo, delle attività non inglobate nell’iper-fabbrica sociale. Rendere visibile, a partire anche da singole e specifiche questioni – per esempio, sull’orario di lavoro, sulla sanità pubblica, generale e gratuita, sulla scuola e la ricerca “improduttive” -, l’ipocrisia dell’immutabilità e della naturalità/neutralità dell’oggi significa costruire percorsi concreti di alternativa.
Quello che i tempi consentono non è il conflitto generalizzato per il potere, né la costruzione della mitica ‘arma finale’ che assesterà al sistema il colpo mortale, che neppure possiamo sapere ora come sarà e neanche se sarà una sola arma o piuttosto una polifonia di grida e di atti. Oggi occorre mantenere viva l’idea stessa di futuro, di ciò che è altro dall’oggi. Una prospettiva che non sia fagocitabile e non possa essere annichilita da questa modernità profondamente inumana.
Forse ciò avverrà, per un periodo non prevedibile, ma certo non brevissimo, in forme reticolari, con voci e soggettività diverse, a volte, magari, dedicate a uno solo di questi temi, senza necessariamente la visione “globale”. E sii dovrà camminare su questioni concrete, non sempre in sintonia tra di loro.
Essere dentro questi molteplici percorsi può essere il nostro manifesto, consapevoli che non è tempo di contenitori unici, né di programmi egemonici. Piuttosto, forse, è il tempo in cui cento fiori sboccino e cento scuole di pensiero gareggino.
La proposta di una svolta politica e sociale in forma di vertenza complessiva su cinque punti programmatici, così come delineata da LEF, e l’appello ampio rivolto a quanti possono dire e fare la loro parte per arricchirli, promuoverli, sostenerli, vanno esattamente in questa direzione. E perciò mi pare assolutamente necessario farsene carico.