È strano prendere atto che sono passati vent’anni dal Global Forum di Napoli. Sicuramente allora non immaginavo che mi sarei trovato a ricordarli con una mascherina sul viso, simbolo distopico di quel modello di globalizzazione tossica che contestavamo nelle strade…
Più che l’adrenalina del 17 marzo 2001, la rabbia, la rivolta, la repressione violenta, la vendetta sui manifestanti nella caserma Raniero, mi resta vivo nella mente il clima di quei giorni e di quei mesi. L’eccitazione, la determinazione, il situazionismo dell’intelligenza collettiva, la partecipazione che debordava da ogni parte, molto oltre i nostri circuiti consolidati, e che anticipava e amplificava in modo potente l’arrivo di quell’onda che si sarebbe riversata sul G8 di Genova.
Un’esperienza che, guardando alle giornate di Seattle, mutuava un uso per l’epoca innovativo della rete, contaminandone immaginario e terminologia (“noglobal” nacque a Napoli, da una sintesi improvvisata del noglobalforum).
Fu un movimento senza centri, anche se indubbiamente lo Ska in piazza del Gesù divenne un nodo chiave di quella vicenda. E si trattò forse del primo fenomeno globale, dopo la caduta del muro di Berlino; fenomeno globale di una società in cui le contraddizioni dello sfruttamento, della violenza e della guerra sugli esseri umani e sulla natura si spazializzavano oltre i luoghi classici dell’organizzazione e delle lotte sociali.
Affrontare, violare e sabotare la potenza simbolica dei vertici internazionali, metafora di un sistema autocratico e blindato, permetteva il riconoscimento reciproco e la cooperazione di una moltitudine di esperienze e di soggettività.
Nel rilegittimare socialmente l’uso dell’azione diretta e del conflitto, come anche del detournement e della guerriglia comunicativa, quel processo diffondeva nuovamente una visione connessa e globale del futuro dell’umanità. Nel contrapporsi alla violenza globalizzata del capitalismo finanziario, alla militarizzazione delle frontiere e alla devastazione ecologica, rilanciava una prospettiva di emancipazione comune dalla miseria e dalla guerra, di opposizione alle privatizzazioni. Raccontava del diritto alla salute, all’esistenza e alla cura come diritti globali.
Impossibile, oggi, non percepirne la forza discorsiva mentre ci confrontiamo con una pandemia che fa la radiografia alle interconnessioni e alle disuguaglianze dei nostri modelli di sviluppo e ci riempie di domande sul futuro dell’umanità e del pianeta.
Si chiudeva nel 2001 un decennio che in Italia era stato aperto da un grande rinnovamento delle forme della socialità e della politica, seguito alla Pantera studentesca e alla moltiplicazione di autogestioni e centri sociali; con una generazione che in buona parte non riusciva più a collocarsi nella militanza di partito. E ispirata dalla potenza di una piccola ma straordinaria esperienza rivoluzionaria nella periferia montuosa del Messico: quel “pensare localmente e agire globalmente” cui dava voce l’icona senza volto del subcomandante Marcos, e che ritrovava il respiro delle grandi utopie universali pur partendo dal riconoscimento delle asimmetrie, delle differenze e delle soggettività.
Lo Zapatismo univa l’esperienza di autonomia rivoluzionaria dei dannati della terra, il realismo magico del linguaggio narrativo sudamericano e un materialismo geografico oltre che storico con cui contestualizzare le contraddizioni prodotte dal capitalismo neoliberista, dal neocolonialismo, dal patriarcato e dal razzismo.
Le/gli indios del Messico disgregano nuovamente la teoria dei due tempi, della separazione tra tattica e strategia, tra lotta politica e liberazione, resistenza e vita.
La Napoli ribelle delle giornate di marzo contro burocrati e autocrati dell’Ocse rilanciava in Italia quel conflitto da un posizionamento meridiano e “terrone”, cui risposero soprattutto dalle altre città del sud. Apertamente allergica alle zone rosse e all’arroganza del potere ma anche critica verso il colonialismo interno dell’Italia spa, che proprio il 17 marzo celebra un’unificazione parecchio squilibrata.
In piazza, tra gli altri anche i movimenti dei disoccupati, i migranti, i rom…
Era all’apparenza solo un appuntamento di routine sul tema del “digital divide” (oggi è molto più chiaro di allora cosa significhi), che i movimenti trasformarono in evento internazionale con la loro energia costituente.
Credo che quei processi di partecipazione e di conflitto, con un’inevitabile dose di ingenuità, abbiano rappresentato su scala trans-nazionale una prima risposta alla crisi finale dei modelli democratici del Novecento, alla contraddizione con cui ancora oggi ci misuriamo: con la separazione tra lo spazio quasi sempre locale dei movimenti sociali e la dimensione sempre più astratta e sovranazionale della sovranità effettiva. Un sequestro di decisionalità e democrazia che dalle zone rosse delle città si è progressivamente installato nelle zone rosse dei santuari della finanza globale.
Quel movimento non trovò modelli organizzativi efficaci, capaci di canalizzare e fare sintesi della dimensione moltitudinaria e diffusa della partecipazione; non riuscì a difendere la propria autonomia da una sinistra poco coraggiosa, molto subalterna e parolaia, che occupava l’offerta elettorale; non seppe riproporre, in termini di massa, le pratiche dell’azione diretta a seguito della feroce aggressione che manifestarono gli apparati di sicurezza nazionali e internazionali e che culminò in Italia con la repressione violenta di Napoli e Genova, il sequestro e la tortura dei manifestanti nelle caserme Raniero e Bolzaneto, fino all’assassinio di Carlo.
Arrivò troppo in fretta l’11 settembre e l’avvio della guerra permanente a dare un segno cupo, invasivo e autoritario allo sviluppo delle relazioni sociali e produttive della globalizzazione telematica.
Il movimento contro la guerra raccolse e perfino moltiplicò numericamente quell’onda partecipativa riversando nelle piazze milioni di persone, ma ne misurò anche i limiti, non riuscendo a sabotare il militarismo e cambiare il corso di quella tragedia.
In qualche modo, però, le intuizioni e le contraddizioni di quella stagione, il suo alfabeto politico, sono state uno spartiacque; e si sono costantemente riverberate nel decennio successivo, di fronte ad eventi globali come la crisi del 2008 o ai conflitti territoriali per il diritto alla salute compromesso dalla shock economy dei rifiuti. E poi nella stagione delle acampadas e delle primavere arabe, fino alla potenza socializzante e ambigua dei social network e alla crescente invadenza autoritaria delle istituzioni finanziarie internazionali.
Ma si sarebbe riverberato anche nello specchio distorto del sovranismo autoritario e del conflitto orizzontale, che per certi versi assume, e insieme nega e ribalta, la sua lettura della crisi e delle contraddizioni globali.
Todo Cambia è il titolo di una nota e bellissima canzone di Mercedes Sosa, piena di malinconia e di speranza. Una canzone che qualche volta mi è tornata in mente di fronte a questo strano esilio dalle nostre vite che ha significato la pandemia. Un esilio difficile, per alcuni tragico, eppure ancora privilegiato rispetto ad altri popoli del pianeta.
L’auspicio migliore che mi riesce di fare a me stesso e alle compagne e i compagni con cui abbiamo condiviso quelle stagione politica, come alle tante e ai tanti che da quella semina, come sempre accade, hanno tratto linfa per contaminare nuove storie e nuovi percorsi. è di continuare ad imparare, di fare nuovi primi passi quando occorre, di interpretare i cambiamenti con le lenti dell’intelligenza collettiva. Facendo tutto il possibile per restare sempre dalla stessa parte, quella della bellezza e degli oppressi