La proposta del Confederalismo democratico ci viene contemporaneamente dalla riflessione di Abdullah Öcalan, dalla pratica concreta del Rojava e dal programma politico dell’Unione delle comunità del Kurdistan (KCK).
Öcalan delinea con precisione la differenza tra le forme di federalismo o autogoverno che “si possono trovare nelle democrazie liberali” e gli istituti democratici del Confederalismo, che sono invece “espressione della partecipazione sociale”.
Così il confederalismo democratico “può anche essere chiamata democrazia partecipativa”. Ma attenzione: non si tratterà di una partecipazione episodica o puramente consultiva, del tipo che talora esiste anche qui in Italia (proposte di legge di iniziativa popolare, referendum, bilancio partecipato, ecc.).
Per dirla con le parole di Öcalan: “Quello che chiamiamo democrazia è l’applicazione di processi decisionali democratici dal livello locale a quello globale, nell’ambito di un processo politico continuo … Tutte le aree della società devono passare all’autogoverno, tutti i suoi livelli hanno bisogno di essere liberi di partecipare”.
È indubbiamente una idea nuova di rivoluzione. Ed è una rivoluzione sorprendente, perché non punta a costruire uno Stato-nazione curdo ma “solo” una società libera e solidale. Tuttavia, i contenuti concreti che la sostanziano hanno radici antiche.
Non mi riferisco tanto alla suggestiva riflessione del socialista libertario americano Murray Bookchin sulla “ecologia della libertà”, un testo dell’inizio degli anni ’80 che ha certamente influenzato la riflessione di Öcalan, quanto piuttosto alla comune di Parigi del 1871, soprattutto per il tema dell’autogoverno; e, per certi versi, anche ad alcuni momenti della Rivoluzione culturale cinese (la Comune di Shanghai del 1967, ma non solo). E, in verità, si potrebbero rinvenire somiglianze nella stessa fase iniziale della Rivoluzione d’ottobre, quando i soviet costituivano ancora l’elemento decisivo del processo rivoluzionario.
Resta comunque il fatto che solamente in quest’ultimo decennio è stato posto, con la dovuta forza teoretica e politica, il tema del superamento dell’approccio statalistico nella trasformazione sociale.
Questa, mi pare sia la sollecitazione fondamentale che l’esperienza rivoluzionaria curda consegna a coloro che non si sentono riconciliati col capitalismo e che prospettano, a sé e agli altri, una società di liberi ed uguali.
Peraltro, anche dagli zapatisti ci viene una sollecitazione analoga: dalla critica del potere che ha accompagnato la loro lotta fin dal suo nascere, due decenni fa.
Quando nel marzo del 2001 gli zapatisti organizzarono la marcia verso Città del Messico con la partecipazione di centinaia di migliaia di persone, un giornalista chiese al subcomandante Marcos se andassero nella capitale per prendere il potere. Marcos rispose che essi stavano lottando per qualcosa più grande del potere. E alla richiesta di spiegazione, rispose: “noi lottiamo per la memoria”.
In effetti, l’insieme del marxismo occidentale, in questo avvio del XXI secolo, viene posto di fronte all’ineludibile tema della rivoluzione come contrapposizione non al semplice governo borghese, ma come contrapposizione allo Stato-nazione in quanto tale.
Öcalan insiste continuamente su quanto abbia pesato la visione positiva dello Stato nel naufragio delle promesse di liberazione e giustizia sociale che si sono susseguite nel Novecento attraverso lotte e rivoluzioni eroiche.
La tesi è che il fallimento del socialismo reale, della socialdemocrazia e delle rivoluzioni anticoloniali sia dipeso essenzialmente dal fatto che tutti e tre hanno condiviso l’assunto fondamentale della cultura borghese, e cioè che la politica abbia sempre, come suo strumento fondamentale, lo Stato; e che abbia sempre, come suo obiettivo necessario, il controllo delle istituzioni e del potere statale.
In sostanza, Öcalan e l’iniziativa rivoluzionaria curda mettono radicalmente in discussione la convinzione largamente egemone nel movimento operaio del Novecento, per la quale anche la modifica e il rivoluzionamento degli assetti di dominio e di sfruttamento non possono fare a meno dello Stato e del potere statale.
Ritorna al centro la questione della libertà. Soprattutto nelle opere giovanili, Marx la proponeva in strettissimo intreccio col tema dell’uguaglianza.
Ad esempio, in uno scritto poco noto del settembre 1847, che costituiva l’articolo di apertura del primo numero di Kommunistische Zeitschrift, la rivista comunista degli esuli tedeschi a Londra, lui ed Engels si esprimevano in questo modo:
“Noi non siamo dei comunisti che vogliono abolire la libertà personale e fare del mondo una grande caserma o una grande officina. Ci sono comunisti che se la prendono comoda e che negano e vogliono sopprimere la libertà personale, che secondo loro ostacola la via dell’armonia; ma noi, noi non abbiamo nessuna voglia di comprare l’uguaglianza a prezzo della libertà”.
Indubbiamente, il percorso del movimento operaio non è stato coerente con una simile intenzione, soprattutto nel Novecento. A tanti, la parola dittatura, dittatura del proletariato, è sembrata più carica di status rivoluzionario, che non la parola “democrazia”. È stato un grave errore, un tragico errore.
Tanto più che l’atteggiamento di sufficienza, se non di vero e proprio disprezzo per il termine e il concetto di democrazia, ha inibito qualsiasi ricerca teoretica sul carico di senso che poteva contenere. E chi all’interno del movimento operaio ne parlava, lo faceva restando perlopiù prigioniero della declinazione borghese della parola. La schiacciava, cioè, sulle forme istituzionali, sulle caratteristiche dello Stato; o anche la derubricava a un semplice metodo, addirittura ad una pura tattica.
Insomma, non si è ragionato abbastanza sul fatto che tutte le rivoluzioni, nella modernità e prima della modernità, siano partite quasi sempre da una rivendicazione di libertà.
Ora l’esperienza curda prova a mettere fine a questo disconoscimento, a questa incomprensione, recuperando pienamente il valore sovversivo di una parola, democrazia appunto, che nelle rivoluzioni socialiste del Novecento è stata sì utilizzata, ma senza un ruolo realmente fondativo.
Non solo. Contemporaneamente l’esperienza curda sta inaspettatamente ridisegnando anche la parola nazione, spogliandola delle logiche identitarie del suolo, della razza, della lingua e della storia, e collegandola unicamente alle affinità di vita: affinità che spesso ci vengono dalla nascita o dall’educazione, ma che – nell’attuale stadio avanzato della civiltà – possiamo anche liberamente scegliere per convinzione politica, morale o culturale.
A ben vedere, siamo anche ad una “rivoluzione epistemologica”. La parola democrazia è stata modellata dalla modernità capitalistica come una qualità delle istituzioni, e ha perso via via l’elemento costitutivamente originario della partecipazione, del protagonismo diretto e immediato di ciascuno. È divenuta, nel linguaggio comune, una mera forma della politica e non più il suo fondamento.
A sua volta, la parola nazione è stata drammaticamente compromessa dalle guerre e dai nazionalismi proprio nel corso di quello che Eric Hobsbwan definiva impropriamente “secolo breve” (dico “impropriamente”, perché a me pare evidente che le dinamiche del Novecento, che pure sono storicamente superate, resistono tuttora in molte forme e molti modi; e questo rappresenta un freno non da poco per il rinnovamento indispensabile delle culture che l’anno cruciale della modernità, il 1789, felicemente sintetizzò con la triade di liberté, égalité, fraternité).
È dunque un’autentica audacia intellettuale, prima ancora che politica, quella del Confederalismo democratico, allorché mette a base dell’autogoverno non statale la nazione democratica. Lo dico ancora con le parole di Öcalan:
“La nazione democratica non è vincolata da confini politici rigidi, da una sola lingua, cultura, religione o interpretazione della storia; al contrario essa significa pluralità e coesistenza solidale di comunità e di cittadini liberi ed uguali … La nazione democratica permette alle popolazioni di formare loro stessi delle nazioni attraverso la loro politicizzazione … costituendo istituzioni autonome in campo sociale, diplomatico, culturale, in economia, diritto e autodifesa, senza dover diventare Stato o prendere il potere”.
In sostanza, l’idea è che la società possa esprimere direttamente le sue molteplici forme attraverso il suo costituirsi in una o più “nazioni democratiche”: ovvero, degli insiemi di persone liberamente connesse, specifici “collettivi di popolo” che condividono, in partenza o per scelta, determinate pratiche e valori; la qual cosa fa di ogni “nazione democratica” una entità più organica di una semplice associazione, ma con meno rigidità formali.
Più concretamente, sempre con le parole di Öcalan: “la nazione è una comunità di persone che condividono una mentalità comune, mentre la lingua, la religione, la cultura, il mercato, la storia e i confini politici giocano un ruolo strutturale ma non decisivo”.
La proposta, così, è di dar vita a una pluralità di nazioni democratiche, tra loro collegate in forma, appunto, di Confederalismo democratico; e costantemente attraversate da processi che io chiamerei di vera e propria costruzione della “dimensione umana”.
E stavolta si tratterà di una dimensione umana del tutto opposta a quella che conosciamo con le stimmate della modernità capitalistica, perché tenderà innanzitutto ad essere una autocostruzione; e poi a porsi in rapporto solidale con la natura, con la propria storia e con il proprio universo immaginativo e affettivo. E sarà soprattutto aperta verso l’esterno, con modalità di accoglienza e condivisione attiva.
Una tale società vedrà, non a caso, il protagonismo particolarmente accentuato delle donne, con la loro capacità, molto più sviluppata che negli uomini, di relazionarsi alla cosalità (e non solo all’utilità) di ciò che ci circonda, siano esseri viventi o materia inanimata.
Più capaci anche di sentire la presenza della vita nella realtà che ci comprende. Più capaci, cioè, di camminare nel mondo e nella società senza la logica strumentale che è tipica della identità maschile, abituata da millenni a guardare il presente in funzione del futuro e le cose in funzione del loro valore di scambio.
Non i contenuti molteplici del presente che ci comprende o l’armonia, la bellezza in sé delle cose; ma solo ciò che ci serve, solo ciò che possiamo dominare o manipolare. È questo il limite, l’autentica dannazione dello sguardo maschile sul mondo.
In tal modo, dunque, la democrazia, come partecipazione attiva e immediata, il femminismo come iniziativa delle donne consapevoli del loro ruolo storico di liberazione generale e l’ecologismo come modalità amichevole e paritaria di approccio al reale, diventano gli assi portanti, strettamente connessi tra loro, di una complessiva trasformazione generale.
È una trasformazione sotto attacco, come sappiamo. Aggredita da molti nemici ed esposta a molti rischi. È una rivoluzione vera. Che avrebbe estremo bisogno dell’emergere della rivoluzione anche nel mondo ricco.
L’attuale transizione storica, segnata dal multipolarismo degli assetti capitalistici e da una pandemia globale, è costitutivamente fluida. Ma la fluidità, purtroppo, non è sinonimo di situazione rivoluzionaria.
Quello che adesso possiamo fare, qui in Italia, è soprattutto costruire dinamiche di sostegno e solidarietà con l’esperienza rivoluzionaria dei curdi. Ma possiamo anche raccogliere l’innovazione teoretica che ci viene da loro e rielaborarla a modo nostro.
Cioè con caratteristiche che contrastino efficacemente le alienazioni e le ingiustizie della nostra società opulenta.
E’ stato decisivo il dialogo di Ocalan con le femminisge di Kobane. Vedi il libro: Rojava,Una democrazia senza stato.
Non so nulla, devo dire, del “confederalismo democratico” curdo. In compenso ho letto Bakunin, che nel XIX secolo prospettava l’assetto politico come un’unione di comunità locali partecipative, rendendosi conto che non si poteva né doveva tornare a piccole comunità separati eo poco integrate, di tipo premoderno, “medievale”. Il confederalismo, credo, riprende questa prospettiva anarchica, finora sempre sconfitta. Perché non è facile capire come concretizzarla e come evitare “lo Stato”.
Dire che un assetto politico non sarà statale vuol dire che non userà la forza per far rispettare le sue decisioni? Vuol dire che alla forza si potrà ricorrere ma il suo uso sarà diffuso, opera di molteplici soggetti sullo stesso territorio, soggetti che eviteranno di scontrarsi tra loro?
Si dovrebbe chiarire, cioè, cosa significa “superamento dello Stato”
– e a quale assetto economico tale superamento si accompagnerebbe perché, ad esempio, si direbbe che meno le decisioni sulla distribuzione dei beni sono centralizzate su una vasta area e meno si può limitare “il mercato”, lo scambio tra numerosi soggetti autonomi, tradizionale bestia nera di tanti marxisti.
Lo so, sto facendo il guastafeste. Vorrei evitare che certe aspirazioni fossero un dejavu, quello dell’anarchismo e dei suoi scontri con i socialisti e, soprattutto, la resistenza della complessità sociale.