Discorsi generici e vecchi dogmi

In Parlamento, per il voto di fiducia, Mario Draghi ha fatto un discorso generico, senza nessun affondo specifico sui singoli ambiti d’intervento. Una lettura senza sussulti e a tratti deconcentrata, con semplici enunciazioni di intenti, per lo più limitate ai vincoli di spesa fissati dall’Europa per il Recovery Plan.

Il tripudio dei media e degli opinionisti e il consenso generale delle forze politiche avevano creato l’aspettativa di un Draghi e di un governo in grado di avviare grandi cose per la ricostruzione e rinascita del Paese. Ma l’attesa è andata largamente delusa.

Sul lavoro, com’era prevedibile, ha proposto “politica attiva”, “meno sussidi”, “più investimenti”. In sostanza, nessun bagliore di luce. Solo vecchi dogmi da stanchi amministratori dell’alta finanza.

Sull’utilizzo dei 209 miliardi di euro che dovrebbero venire dall’Europa nei prossimi sei anni, ha riconosciuto al governo uscente di aver fatto un buon lavoro, ma ha aggiunto che va approfondito, completato e integrato con ricerca e sviluppo a guida statale. E, cioè, solo “guida” e non intervento pubblico diretto.

Ha proseguito sull’economia con indicazioni programmatiche ancora più generiche, riservando qualche parola in più alla riforma fiscale: nel senso che ha citato la necessità di una riforma per abbassare l’aliquota massima e elevare l’esenzione dall’imposta, mantenendo la progressività. Fin qui, quindi, in linea con la proposta Conte due.

Ma poi ha aggiunto che prospetta tale intervento nell’ambito di una riforma complessiva del sistema della tassazione, tesa a ridurre il prelievo fiscale per tutti. Parole che dimenticano come le imposte, negli ultimi anni, siano state già ridotte per gli “altri redditi”, mentre è proseguito l’innalzamento medio del prelievo fiscale sul lavoro in danno di lavoratori e pensionati. 

Infine, Draghi, bontà sua, ha aggiunto, con un po’ di enfasi, che il Parlamento sarà informato su tutta l’attività di governo. Quasi come se una tale prassi non fosse già prescritta dalle norme costituzionali…

Questa sorprendente dimenticanza e l’errore sul dato dei malati di Covid in terapia intensiva, scambiata per il dato sui contagiati, sono stati solamente momenti di comprensibile confusione? O sono la spia che abbiamo di fronte un manager che appalta ad altri tecnocrati (mediocri) perfino il discorso programmatico su cui chiedere la fiducia del Senato e della Camera?

L’emersione della mediocrità dell’intervento al Senato rivela, in effetti, l’errore grave delle forze politiche presenti in Parlamento: aver dato a Draghi il consenso pieno e incondizionato a prescindere da un accordo sul programma. A prescindere perfino da una discussione preventiva sullo stesso intervento programmatico per le aule parlamentari.

Ma forse è più appropriato leggere il “mandato in bianco” non come un errore, bensì come conferma che ormai la destra economica, la destra sovranista e la sinistra liberale si identificano in toto con il sistema capitalistico e le sue sovrastrutture finanziarie. Con poche impercepibili sfumature.

Riccardo Realfonso e Emiliano Brancaccio, due economisti dell’università del Sannio, hanno opportunamente ricordato che Draghi nel recentissimo G30 sull’economia esortava i governi a sostenere la “distruzione creatrice” del libero mercato. Che è una cosa ben diversa dalla pratica keynesiana.

Più in generale, i due studiosi hanno contestato la narrativa tecno-keynesiana che disegna un Draghi ottimo gestore del denaro che verrà dal Recovery plan. E hanno ricordato che la storia recente mostra come i tecnocrati abbiano avuto sempre un ruolo negativo nella gestione politica ed economica della società italiana, come siano stati sempre protagonisti di una cultura di indebolimento del ruolo del Parlamento e di rafforzamento dell’autonomia e dei poteri dei governi. Determinando, in sostanza, vistosi fenomeni di regressione sociale. È stato così con Amato nel 1992, Ciampi nel 1993 e con Monti nel 2011.

In effetti, la politica di Draghi potrebbe rivelarsi non troppo diversa dai tecnocrati che lo hanno preceduto. L’intervento al Senato, costituito dall’elencazione scontata delle problematiche che il suo governo dovrà affrontare – pandemia, crisi economica, ricostruzione, promozione del capitale umano, in particolare per le nuove generazioni – non fa presagire granché.  I temi realmente decisivi del declino del Mezzogiorno, delle diffuse nuove povertà, delle diseguaglianze crescenti, delle infrastrutture carenti, delle mafie aggressive e della legalità sotto schiaffo vengono elencati come semplici problemi da affrontare, senza nessunissimo accenno agli strumenti e alle risorse necessarie.

E comunque, seppure vi fosse stato una indicazione di soluzione, non sarebbe parsa credibile. La questione del Mezzogiorno, infatti, entra in obiettiva contraddizione con i quattro ministeri economici, attribuiti tutti a lombardi e veneti, e con l’insieme di un governo a chiara trazione nordista. E, per il resto, la cultura di questa compagine è quella tipica della destra economica.

Non a caso, Draghi ha chiuso il suo intervento con una stanca ripetizione sulla collocazione internazionale del nostro Paese nel campo dell’atlantismo e dell’europeismo. Ignorando completamente la necessità per l’Italia di sviluppare un ruolo attivo e rapporti stretti con i paesi del bacino del Mediterraneo e del Nord Africa.  

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