Il governo Draghi? Un misto di infantilismo, fantasticheria e inadeguatezza.

1) Per capire l’evoluzione della crisi di governo in Italia, può essere utile partire dal contesto culturale che la sta accompagnando. E voglio dirlo con la necessaria brutalità: si tratta di un contesto strapieno di motivazioni infantili e di narrazioni irrealistiche, attraversato da troppe puerilità e troppe fantasticherie.

L’infantilismo, che straripa sui giornali e che viene ripetuto in continuazione dalle televisioni a reti unificate, consiste nell’idea che ci voleva giusto lui per risolvere i problemi. Proprio come Il “cavaliere pallido” del film di Clint Eastwood, che arriva nel paesino disastrato e, coi suoi modi spicci, mette tutto a posto. L’idea – un’idea propriamente infantile – è che per risolvere le cose bisogna semplicemente affidarsi all’uomo migliore.

E già qui: deve essere ovviamente un uomo; non certo una donna. Ma soprattutto deve essere “il migliore”: il miglior pistolero, il miglior detective. O anche il miglior economista, il miglior politico, il miglior generale.

Discorso semplice; e semplicemente regressivo. E, in aggiunta, senza alcun sugo.

Quel messaggio, oggi come oggi, può andar bene al cinema e nei racconti sui cavalieri del West o del Medioevo. Nel mondo reale è un messaggio del tutto fuori luogo. Perché la realtà vera è fatta di complesse relazioni sociali; e i singoli individui, qualunque sia il loro cognome, si collocano – lo vogliano o no, ne siano consapevoli o meno – dentro ben definite dinamiche collettive.

Il che significa che anche Mario Draghi pensa e agisce in un ben determinato ambito sociale e politico; e la sua azione tenderà ad esprime non genericamente le speranze e l’interesse di tutti, ma esattamente le speranze e l’interesse del suo concretissimo ambito di appartenenza.

E tutti sappiamo di cosa sto parlando.

Draghi non è mai stato un semplice “lavoratore dipendente”, ma ha avuto importantissimi ruoli di direzione in grandi banche private e in grandi istituzioni finanziarie pubbliche. È questo il suo contesto di appartenenza. Non è un “migliore” in astratto; tutt’al più è uno dei migliori banchieri.

Il che non vuol dire, ovviamente, che non possa svolgere anche un ruolo di primo ministro. Ma bisogna saperlo che non stiamo parlando di una figura astrattamente qualificata; è, invece, una figura qualificata in una precisa direzione.

2) Ma oltre agli evviva infantili che l’hanno accompagnato, mi stanno lasciando sbalordito le narrazioni fantasiose. Ci viene detto e ripetuto che Draghi ha salvato il debito pubblico italiano, evitandoci il fallimento tra il 2011 e il 2012.

Anche qua, ammesso e non concesso che un salvataggio ci sia stato, non è dipeso certo da individui singoli, bensì da decisioni collettive. E tali decisioni non sono maturate semplicemente nella testa di Draghi o nell’ambito della Banca Centrale Europea, la quale, ovviamente, non è un organo sovrano ma ha solo autonomia gestionale.

La maturazione di quelle decisioni è avvenuta – non penso sia così difficile da capire – nell’ambito dell’Unione Europea complessivamente intesa, e segnatamente nel governo tedesco, che dell’Unione Europea era ed è l’elemento di maggior forza.

Va però osservato che la decisione di calmierare la pressione sul debito italiano è maturata solamente dopo che la speculazione al ribasso sul nostro debito pubblico era stata ampiamente permessa, e anzi favorita, dalle stesse istituzioni europee; le quali concordemente, dalla Merkel a Draghi, giudicavano un bene che i mercati finanziari punissero l’Italia e gli altri paesi europei (come la Spagna e la Grecia) che non facevano “abbastanza” per far scendere il loro debito complessivo. Qualcuno, come il ministro delle finanze tedesco, voleva una punizione esemplare; qualcun altro, per esempio Draghi, si batteva per una punizione “sostenibile”. Ma sul principio della punizione erano tutti d’accordo.

E punizione fu, almeno fino al luglio del 2012.

Il trattamento punitivo si concretizzava, nel caso dell’Italia, nel famoso innalzamento dello Spread.

Lo Spread è una sorta di termometro che misura il rapporto di valore tra i titoli di stato italiani e i titoli di Stato tedeschi. Più lo spread saliva in quei due anni, più l’Italia aveva difficoltà a reperire sui mercati finanziari la liquidità necessaria per investimenti, acquisti e spese ordinarie e correnti. Era perciò costretta a “svendere” i propri titoli (a collocarli, cioè, con tassi di interesse sempre più alti).

E quando ciò avveniva, quando tra l’inverno 2011 e l’estate 2012 l’Italia era in visibile affanno, la BCE di Draghi se ne stava ancora ferma a guardare, la Commissione europea diceva che era colpa degli italiani e la Germania, facendo finta di niente, sollecitava a più non posso misure “rigorose” di austerità.

Tutti assieme avrebbero potuto rapidamente fermare la pressione finanziaria sull’Italia. Bastava che si acquistassero direttamente, come Banca centrale europea, i titoli italiani che faticavano a trovare compratori perché i liberi mercati (lasciati cioè liberi di speculare) aspettavano, per l’appunto, che scendessero ancora di più prima di acquistarli. Ma gli acquisti da parte della BCE e dell’Unione Europea, in quei mesi cruciali, non venivano. La logica era sempre di punirla, l’Italia.

Una logica davvero incredibile. Anche ammesso, per assurdo, che in un contesto unitario come l’Unione Europea fosse giusto punire qualche Stato membro, si può mai punire chi ha fatto troppi debiti, costringendolo a farne altri ancora più onerosi?

Ad ogni modo, la punizione sfuggì visibilmente di mano a chi l’aveva permessa e incoraggiata. E lo Spread arrivò a un differenziale di oltre 500 punti tra gli interessi sui titoli di Stato italiani rispetto ai titoli di stato tedeschi, segnalando un effettivo rischio di collasso del sistema-Italia.

Solo che l’Italia è un paese troppo importante sul piano economico per fallire da sola. Un suo eventuale fallimento portava immediatamente con sé il reale fallimento dell’euro e dell’intera costruzione europea. Ad andare sottosopra sarebbero stati i titoli di Stato di tutti i paesi, compresi quelli tedeschi.

Così, quando tutti capirono che la speculazione sui titoli italiani era andata molto oltre le previsioni, finalmente agirono e fecero quello che non avevano fatto fino ad allora. A partire dal luglio 2012 comprarono i titoli italiani, producendo un abbassamento dei relativi tassi di interesse.

E però, anche qui: come li comprarono? Non come chi viene davvero in aiuto, ma come chi ti dà i denari di cui hai bisogno e però ti impone rigidissimi sacrifici. Dall’allungamento dell’età pensionabile alla sterilizzazione della contingenza, dal blocco del turnover nel pubblico impiego al blocco della contrattazione: tutti sappiamo quanto abbia inciso nella vita quotidiana di noi tutti l’intervento europeo di cosiddetto “salvataggio”.

Dunque, la storia va raccontata perbene, senza fantasticherie, senza dire che a “salvarci” (tra virgolette) è stato Draghi.

L’intervento c’è stato sì. Ma: 1) è stato un intervento tardivo, e comunque deciso dall’insieme delle istituzioni europee, non dal solo Draghi. Anzi, se qualcuno ha deciso più di altri, è stata sicuramente la Germania; 2) l’intervento non è stato fatto “per salvare l’Italia”, ma per salvare l’Europa e l’euro, che sarebbero affondati assieme all’Italia; 3) non è stato un salvataggio senza condizioni, bensì con condizioni pesantissime, tutte scaricate sulle fasce più povere della popolazione.

3) Ma al di là delle motivazioni infantili e delle narrazioni irrealistiche che così tanto abbondano in mezzo agli applausi che l’accompagnano, Draghi si sta muovendo in un quadro straordinariamente afono sul punto decisivo. Lui e gli altri che gli fanno corona – giornalisti, politici, uomini d’affari e sindacalisti – sono attentissimi a svicolare, a non rispondere alla vera domanda di fondo.

E la domanda di fondo è semplicemente la seguente: in che direzione deve andare il processo di fuoriuscita dalla fase acuta della pandemia? Ripristinando ciò che c’era nel 2019 o camminando lungo sentieri nuovi, sul presupposto evidente che proprio quello che c’era prima ha aggravato l’attacco del Covid19 e non ci ha permesso una difesa efficace?

Ci siamo, infatti, difesi male: sia perché la sanità pubblica era già stata ampiamente penalizzata dai tagli e dalle privatizzazioni e sia perché un sistema di ammortizzatori sociali efficace e universale non era mai stato messo in cantiere.

Lo stesso reddito di cittadinanza è stato costruito non come misura di sostegno stabile e universale, ma come un provvedimento provvisorio, condizionato, anzi molto condizionato, dalle più svariate barriere. E, comunque, quantitativamente insufficiente.

Dunque: tornare al 2019 o costruire un’Italia con meno disarmonie sociali, con meno distanza tra le classi popolari e le classi agiate? Più in dettaglio: la variamo o no, una legge che riduca l’orario di lavoro a parità di salario? E una legge che sostenga stabilmente il reddito di chi il lavoro lo cerca e non lo trova? O che lo perde per le distorsioni innumerevoli del sistema produttivo?  Dunque: la vogliamo o no, un’Italia capace di salvaguardare i diritti di ciascuno, di difendere i beni comuni – sanità, istruzione, trasporti – e di intervenire contro il capitalismo di rapina ambientale che abbiamo conosciuto in questi decenni?

Draghi, l’insieme variegato dei partiti che l’accompagna e il corteo di infantilismo e narrazioni fantasiose che lo circonda sono forse in grado di dire qualcosa al riguardo? In verità, tutti lo constatiamo che non dicono nulla. Semplicemente tacciono. Per ora. E quando parleranno, diranno cose generiche e non si faranno capire.

Non credo di essere particolarmente prevenuto se dico che, a ben vedere, non può essere Draghi la persona capace di rispondere ai veri interrogativi di fondo. La sua cultura e la sua biografia lo spingono naturalmente a ripetere, in modo più o meno altalenante, le logiche economiche che abbiamo conosciuto negli scorsi decenni.

E questo, in un mondo che sta realmente cambiando, ha davvero poco senso.

In sostanza: non è solo questione di infantilismi e narrazioni fantasiose. È che Draghi lo vedo del tutto inadeguato per governare, o per iniziare a governare, una transizione complessa come quella attuale, che ha effettivo spessore storico.

Voglio anche precisare, a scanso di equivoci, che pure il governo che c’era prima era inadeguato. Ma, diversamente da quello che si profila, il governo Conte due è sembrato, almeno a tratti, un poco più consapevole del fatto che bisognava muoversi in una fase storica nuova.

Non che i protagonisti avessero le idee chiare. I Cinque stelle, che addirittura erano nati all’insegna delle novità, hanno dimostrato ampiamente di non saper padroneggiare le domande nuove della nuova epoca, e meno che mai di costruire le risposte giuste. E i democratici, ancora peggio. Tuttavia, quel governo, forse anche per il peso preponderante dei Cinque stelle, aveva quantomeno una blanda attitudine all’ascolto e alla ricerca.

Era perciò un governo inadeguato, il Conte due. Ma meno inadeguato di quello che si sta profilando adesso. E poi, accanto all’inadeguatezza, c’era la debolezza. Tanto è vero che una piccola congiura di palazzo, con un piccolo gioco di sponda tra Renzi e Berlusconi, l’ha fatto cadere.

Ma è molto più inadeguato, ed ancora più debole, proprio il governo che si profila adesso, nonostante l’ampiezza che raccoglierà alla Camera e al Senato nel voto di fiducia. Lo sottolineo: non solo inadeguato, ma anche debole. E la sua debolezza non dipende dalle differenze, pur grandi, tra i partiti che lo sosterranno in Parlamento.

Dipende invece da un più profondo, e non sanabile, malessere che lo caratterizza in partenza: dal fatto, cioè, che è totalmente scollegato, a partire dal suo principale protagonista, dal mondo nuovo che la pandemia e l’assetto multipolare stanno già portando alla luce sotto i nostri occhi.

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