Venti giorni esatti per arrivare a Trieste. Circa 600 km a incolonnare passi foderati di neve.
Eravamo in ventinove tra uomini e donne. Siamo rimasti in tredici, e ci vuole uno sforzo di fantasia per distinguere i maschi dalle femmine. Tredici. Anche l’esattezza di un numero pieno si guarda bene dal contaminarsi con la nostra disperazione in cammino.
Manco il tempo di elaborare un accenno di speranza che siamo stati consegnati alla polizia slovena. Da quella slovena ai gendarmi croati, senza neppure la possibilità di distinguere le diverse uniformi e i differenti accenti. Tappa successiva, la Bosnia, campo di Lipa: già, proprio da dove siamo partiti.
Nessuno dovrebbe far ritorno da dove è fuggito, questa è la verità.
Milan, l’anziano del gruppo già a 40 anni, perché dalle nostre parti, a 40 anni, si sono patite troppe guerre e infinite disfatte per essere considerati ancora giovani…; Milan, dicevo, dall’alto della sua laurea in scienze politiche, blatera di violazione del diritto d’asilo e del divieto di respingimento previsto dalla Carta per i diritti fondamentali dell’UE.
Io, per quanto mi riguarda, so solo che l’Unione ha sbarrato il confine orientale e continua a ricacciare indietro i profughi. Nikola il guercio, che ormai non passa notte senza sognare un sentiero, un tratturo finalmente libero al di là della segregazione, racconta di migranti che rimbalzano contro il muro dell’Unione europea, ritrovandosi così impantanati in quella zona grigia di disumanità e violazioni dei diritti umani che è la Bosnia; ma che potrebbe essere benissimo, annuisce Dranka basandosi sui racconti della sorella, anch’essa migrante («l’emigrazione fa parte del patrimonio genetico della mia famiglia»), pure la Libia.
Con l’unica differenza che lì, nello “scatolone di sabbia”, l’ostacolo è rappresentato dal Mediterraneo.
Ovviamente prendo per buone le parole della sfinita Dranka, non conoscendo la situazione libica. La nostra, di situazione invece, la conosco alla perfezione: il “game”, come noi tutti definiamo il disperato passaggio per la Croazia, magari provenendo proprio da Trieste, si continua a concludere, nove volte su dieci, con il “game over”.
Nei bar della nostra Bosnia-Erzegovina, quando il gioco finisce, compare in sovraimpressione la scritta “Insert coin”. E noi, così come quei videogiochi già superati in Europa da almeno trent’anni, di “coin” non ne abbiamo neanche l’ombra. Senza nessun soldo per comprarsi uno straccio di diritto, questo è il dramma.
Eppure, sempre il saggio Milan racconta che l’Alto rappresentante della Polita Estera UE non si stanca di fare la voce grossa con la Bosnia-Erzegovina per non aver, nonostante i circa 3,5 milioni ricevuti, costruito dei campi per noi profughi. Dal canto suo, il governo bosniaco ci avrebbe pure provato ad alloggiarci da qualche parte, ma qualsiasi posto scelto ha subito incontrato la strenua resistenza delle popolazioni locali.
Comunque stiano le cose, io so solo che i disperati, è cosa nota, temono sempre gli altri più disperati di loro; non foss’altro che per paura di vedersi sottrarre le briciole del benessere scialacquato dalla classe agiata.
I reietti sono stati ammaestrati dal capitalismo a farsi la guerra da sé.
«E quindi, niente campi di concentramento per noi profughi.»
Alla parola “concentramento” fermo la mia marcia. Trovo la forza per sollevare le palpebre dal loro estenuante carico di neve. Il mio compagno si accorge dell’equivoco. Vorrebbe spiegare che il concentramento a cui lui si riferisce è un termine neutro, scevro degli orrori della storia.
Poi anche lui si arresta. Si guarda attorno. Abbassa lo sguardo e invita con un cenno del capo a proseguire la marcia: «Non ci provare, Dragan. Non ci provare nemmeno. Ritieniti addirittura fortunato se stai marciano a -20°C, se comunque riesci a consumare un pasto al giorno, se hai un sacco a pelo e un po’ d’acqua donatoti dalla Croce Rossa. Nel campo di concentramento si moriva di inedia, gasati, cremati.»
La neve ormai raggiunge il polpaccio. Un lupo spelacchiato ogni tanto fa capolino, scettico, dagli scheletri di abeti in colonna.
Sarà sicuramente come dice Milan. Ma io, proprio qui al centro del petto, ho un sudario che soffoca i battiti.
Avanti. Sempre. Alla ricerca di una sacca di umanità che foraggi il nostro pretenzioso respiro.