Il dolore e l’orrore

È bene che ci sia una Giornata della Memoria. È bene, perché ci spinge a ricordare.

E però: com’è che si può ricordare? Come si può ricordare l’orrore inaudito che anche Primo Levi riteneva impossibile da comprendere? Come si fa a ricordare i campi di sterminio?

Certo, saranno stati tanti i pensieri dedicati in questi giorni alle vicende sanguinose di oltre 75 anni fa.

Ma basta un pensiero? Può mai bastare il pensiero che ci arriva nella mente con le vesti di un rito, una giornata da consumare vedendo qualche film o leggendo rapidamente qualcosa sui social?

E ammesso pure che si sia trattato di un pensiero lungo, che sia stato un pensiero proteso a spiegare i nessi storici dell’orrore, indirizzato a cogliere persino la sua continuazione in altre forme per tutta la seconda metà del ventesimo secolo, fino ai nostri giorni; ammesso cioè che sia stato un pensiero consapevole e partecipe, dovremmo per questo, per questa sola caratteristica, dirci sicuri che avrà ricordato l’essenziale?

E d’altra parte: di cosa può mai esser fatto “l’essenziale”?

No, non mi riferisco solamente al ricordo che si appunta sull’arrivo dell’Armata Rossa ad Auschwitz, avvenuto, per l’appunto, il 27 gennaio del 1945.

Gli applausi, i like, alle foto dei soldati che abbracciano i volti smagriti e sorreggono i corpi denutriti andrebbero bene se si trattasse di celebrare la liberazione dei prigionieri di Auschwitz ad opera dei russi. O dei prigionieri di Dachau, il 29 aprile, ad opera degli americani.

Ma qui siamo chiamati a ben altra memoria. Alla memoria, tutta assieme, del dolore e dell’orrore.

Torna allora la domanda: è possibile una memoria vera, per chi quell’orrore non l’ha subito e quel dolore non l’ha vissuto?

Io non ho una risposta sensata.

Credo però che il dolore e l’orrore possano essere ri-vissuti solo con sbigottimento, col fiato sospeso. Come dei bagliori informi che percorrono senza strepito le viscere e le emozioni.

Messi assieme, quell’orrore e quel dolore possono solo chiedere un po’ di silenzio al nostro tempo, una breve sospensione delle voci che riempiono la nostra babelica quotidianità.

Quasi ci impongono una prova sottile di smarrimento, con gli occhi chiusi attraversati dai passi cadenzati e dalle grida e dal pianto e dai gemiti.

L’orrore e il dolore chiedono forse il silenzio. Soprattutto a noi, che una sorte di prodiga indifferenza ce ne ha tenuti lontano. Il silenzio, e tuttalpiù una meditazione non urlata sul senso della storia degli esseri umani. E sulla loro civiltà.

Non ho dunque risposte sul dolore e l’orrore. Su quel dolore e quell’orrore.

Posso solo dire che mi hanno parlato a lungo e mi parlano tuttora. Io ho risposto come ho potuto, talvolta con lo sguardo dello storico che con crudeltà se ne distacca scontento, e talaltra con le parole di sbieco della poesia, che riportano solo il poco che riescono ad afferrare.

E so che risponderò ancora nell’un modo e nell’altro. E ugualmente non riuscirò a venirne a capo.

Mi muoverò nuovamente confuso tra immagini staccate.

Qui i cristalli infranti, lì passanti che guardano, e qualcuno sorride. E poi uomini in divisa che spingono donne e bambini spaventati. E lì bambole rotte e libri infangati e finestre che si chiudono, qui persone che giocano a bigliardo e parlano del calcio e della guerra che forse viene e forse no. Ma che venga presto, se deve venire, dicono.

E poi gli scoppi e i morti. Tanti morti e nessuno ci fa più caso.

Quelli che non stanno con noi, sono contro di noi. Dicono. E noi siamo sopra gli altri. Tutti gli altri. Un mondo a strati. Strati duri come mattoni. Non strati di burro. Strati duri come cannoni.

In cima, lassù, occhi azzurri e chiome bionde. In fondo, all’ultimo girone, in fondo a tutto, i nasi adunchi e i volti affilati. E poi tanti altri, cerchio dopo cerchio. Tutti gli altri, quelli che si allontanano, strato dopo strato, dalla perfezione.

Che si confondono alla fine coi volti adunchi e i nasi affilati.

Così è fatto il mondo. Dicono. Così. Con quelli che stanno sopra e quelli che stanno sotto.

E non è neppure questione di ricchezza. Anzi, poveri e ricchi, se stiamo sopra e perché siamo uniti da un unico, luminoso destino.

Proprio così, il destino. Il destino di chi sta sopra, il destino di chi sta sotto.

Parole. Parole staccate e figure evanescenti. E il dolore e l’orrore. Il dolore come orrore e l’orrore come dolore.

Come un’unica lama scomposta che ci attraversa le viscere e le emozioni.

E che infine ci stanca.     

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