“Non sono d’accordo con i tuoi intenti criminali, ma sono pronto a morire affinché tu possa incitare le masse a perseguirli.”
Questo è il contenuto originale della famosa frase attribuita a Voltaire che molti telebani pseudoamanti della libertà hanno rispolverato in relazione alla chiusura, adottata da molte piattaforme Social, degli account di Trump in risposta al goffo colpo di Stato del 6 gennaio.
Ovviamente, non è vero. Così come non è vero che Voltaire sia l’autore della frase analoga: “Io combatto la tua idea, che è diversa dalla mia, ma sono pronto a battermi fino al prezzo della mia vita perché tu, la tua idea, possa esprimerla liberamente”. L’autore di quest’ultima è, infatti, Stephen G. Tallentyre, pseudonimo con cui era nota Evelyn Beatrice Hall, saggista inglese di fine Ottocento.
Stupisce che novelli difensori della libertà, tipo Salvini (che un tempo faceva rimuovere dalla DIGOS gli striscioni alle finestre quando esprimevano contrarietà alle sue politiche neofasciste e discriminatorie) o Meloni (secondo cui un uomo non può avere la libertà di sposare un altro uomo), abbiano concepito uno sforzo intellettuale tale da addentrarsi in una problematica così complessa. E mi ha particolarmente colpito che questi due neofascisti non sono stati i soli a lanciarsi in una simile impresa.
In ogni caso, venendo al merito, a me pare che i termini della discussione, per come è stata impostata, siano decisamente falsati.
Innanzitutto, partiamo da come viene descritta l’azione delle piattaforme Social: “censura privata”. Quasi un ossimoro, se si considera che per definizione la censura è collegata al controllo esercitato dalle autorità pubbliche (quindi, non da soggetti privati) sulla libertà di manifestazione del pensiero o sulle espressioni artistiche dei privati. Che poi le piattaforme Social abbiano conquistato un ruolo paragonabile a quello delle autorità pubbliche, è un’altra storia; che attiene all’insieme dei rapporti sociali nelle società contemporanee. Sul piano giuridico esse restano comunque soggetti privati, e per accedervi è necessario dichiarare di voler sottostare ad una serie di regole; tra queste vi è (nella stragrande maggioranza dei casi) l’impegno a non utilizzare le piattaforme Social per finalità contrarie alla Legge.
Alcuni di coloro che si sono indignati per le misure adottate dalle piattaforme Social parlano di “attacco alla libertà di pensiero”. Ma la libertà di pensiero non fu attentata nemmeno da Hitler, o da Berija o da Pol Pot. Semmai ad essere colpita è libertà di manifestazione del pensiero, concetto evidentemente del tutto differente. A meno che i talebani pro-Trump non volessero dire che senza Social non sono in grado di pensare.
Il diritto (e la possibilità) di pensare non è certo intaccata dall’oscuramento degli account Social. Il diritto di manifestare il proprio pensiero senz’altro sì. Ma qual è il contenuto di questo diritto? Esso copre il diritto di dire qualunque cosa? Qualunque cosa detta è qualificabile come una “opinione” e, come tale, coperta dal diritto di manifestazione del proprio pensiero?
Se io dico che il Napoli ha vinto dieci scudetti non sto affermando la mia opinione. Sto dicendo una cosa falsa, smentita da fatti oggettivi. Analogamente, se dico che la terra è piatta, non sto affermando la mia opinione; sto dicendo una cosa scientificamente errata. Come se dicessi che il tronco degli alberi è composto di metallo. Ed io magari sono anche disposto a lottare per poter dire queste falsità; ed è pure giusto che mi venga consentito, perché in fondo hanno un tasso di dannosità molto basso, se non nullo.
Ma può considerarsi una opinione coperta dal diritto di manifestare il mio pensiero anche l’invito a suicidarsi fatto ad un operaio disperato, con tre figli ed un mutuo a carico, che è appena stato licenziato e che si vuole suicidare? Non lo è. In Italia è istigazione al suicidio; in altre parole, è un reato, che viene punito dalla Legge in quanto non è tollerabile il comportamento di colui che “determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione” (art. 580 c.p.).
E come si qualifica l’esortazione a rapire un bambino per poi ammazzarlo e cavarne gli organi perché è giusto farlo per salvare un altro bambino malato? È una opinione? No, in Italia è un reato, anch’esso punito perché è riconosciuto come disvalore il comportamento di chi “pubblicamente istiga a commettere uno o più reati” (art. 414 c.p.).
L’invito di Trump (esplicito o implicito) ed attivarsi per evitare il (presunto) “furto delle elezioni” è una evidente istigazione a delinquere, perché – ammesso pure, cosa che si contesta l’esito elettorale e che vi siano state delle irregolarità – la sede dove far valere queste ultime esiste: sono i Tribunali e le Commissioni elettorali. E non mi pare che a Trump sia stato negato questo diritto. I suoi legali hanno inondato entrambi di una serie di ricorsi ed istanze che sono state TUTTE respinte. Anche gli organismi sotto il controllo delle autorità repubblicane hanno dovuto ammettere che NESSUNA irregolarità era riscontrabile.
Risultano invece provate – addirittura da intercettazioni – le pressioni che Trump ha esercitato sul Segretario di Stato della Georgia nel corso di una telefonata dai toni intimidatori per far uscire dal cilindro 11.780 voti.
Fomentare le masse al fine di commettere un reato attraverso i Social è senz’altro un comportamento che va stigmatizzato ed impedito. A maggior ragione perché nel caso specifico il soggetto in questione ha una enorme responsabilità, essendo un Presidente ancora in carica.
La scelta dei Social, conforme alle loro policy accettate da tutti gli utenti (Trump compreso), non è quindi da condannare in sé. Semmai, vanno fatte altre riflessioni: ad esempio, sul perché abbiano sospeso gli account solo a Trump (scelta più che opportuna) e non anche ad altri fomentatori di odio ed istigatori al crimine; o anche sul fatto che le sospensioni in alcuni casi sono state previste a tempo indeterminato; o, infine, sul potere che queste piattaforme hanno acquisito col tempo (potere che andrebbe regolamentato dalle autorità pubbliche).
Tanto più di sicuro non può essere definito “diritto di esprimere una opinione” ciò che chiaramente si configura come istigazione a delinquere. Una istigazione che, nel caso di Trump, avrebbe potuto avere risvolti ancora più drammatici di quanto non lo siano stati.