da “i fantasmi e il mare. frammenti di un viaggio”, novembre 2010.
Sarà stata la cattiva digestione, ma l’altra notte non riuscivo a dormire.
Mi giravo continuamente e mi rendevo conto di essere decisamente fastidioso per la mia compagna che, per non essere “coinvolta”, si era spinta ai limiti estremi del lato sinistro del letto, quelli invalicabili, pena il rifugiarsi sul comodino.
Decisi allora di scendere al piano di sotto, in cucina, a sgranocchiare qualcosa, dare uno sguardo alla televisione, oppure provare a leggere un libro in funzione di sonnifero, avendo peraltro ampia scelta di saggi adattissimi allo scopo.
Ma, aperta la porta e accesa la luce, pensai immediatamente di stare ancora dormendo e sognando: di fronte a me, seduto su una sedia, sorridente e con gli occhi ironici dietro le lenti come al solito sporche con le solite montature massicce e nere, c’era il vecchio Angelo.
Non so se a voi è mai capitato di incontrare un fantasma. Perché Angelo non poteva che essere uno spettro, anche se non ondeggiava per niente. Lo avevamo seppellito tanti anni fa con la sua bandiera rossa. E su quella sedia stava troppo bene per essere un cadavere resuscitato.
Pur essendo rigorosamente ateo non posso dire, su queste cose, di essere proprio un coraggioso: e da ragazzo non ho partecipato, nonostante i cori dei compagni, a quelle stupide prove di coraggio davanti ai cancelli del cimitero di notte.
Insomma ero paralizzato dalla paura, il fiato restava cocciutamente nei polmoni e credo che la temperatura corporea sia scesa improvvisamente di almeno 10 gradi. La porta dietro di me era ormai perdutamente socchiusa e il tavolo era l’unico riparo da quella presenza incredibile.
Quand’era giovane Angelo faceva il pecoraio e lo chiamavano Cacianiello, dal nome dialettale del formaggio che si ricavava dal latte ovino. Analfabeta, aveva imparato a leggere e scrivere da autodidatta, esercitandosi sull’Unità clandestina della domenica.
Poi se l’era fatte tutte le lotte dei braccianti, sempre con in tasca l’Unità e la Costituzione, che imperturbabile leggeva a carabinieri, poliziotti, ma anche avvocati e giudici quando c’erano cariche, arresti o processi.
Aveva abbassato gli occhi, come per rompere la tensione, la mia. Che più che altro era terrore puro.
Poi li rialzò ed era scomparsa l’ironia. Erano occhi che piangevano.
Riuscii anch’io ad alzare gli occhi e nel guardarlo come d’incanto il mio terrore cessò.
Non disse niente, o meglio, non sentii nessun suono. Era solo un lungo sguardo affettuoso e triste, di nostalgica malinconia, denso, come un racconto antico. E davanti ai miei occhi scorrevano le serate passate con lui a parlare della rivoluzione, e a sentire quel vecchio vinile a 78 giri di Lenin che leggeva il proclama del 25 ottobre e poi l’internazionale, cantata naturalmente in russo.
Erano le giornate più tristi, di quando la malattia l’aveva preso a tradimento, rendendo le sue gambe pezzi di legno.
Erano i racconti allegri delle occupazioni di terra, degli arresti, dei processi, degli avvocati comunisti che difendevano non solo gli imputati ma anche i reati, perché prendersi la terra del latifondo per lavorarla era un atto di giustizia.
E poi mi ritrovavo di nuovo al liceo e all’assemblea in cui lui aveva contestato il segretario locale del PCI per l’incomprensione mostrata nei confronti degli studenti.
Erano i giorni tristi del suo funerale.
Ondeggiavo avanti e indietro nel tempo, poi ad un tratto tutto si fermò.
Che fosse il fantasma di Cacianiello oppure la proiezione della mia coscienza, a quel punto non cambiava molto, anche se la prima ipotesi avrebbe decisamente scardinato diverse mie certezze.
“Ci siamo di nuovo – dissi, prendendo finalmente la parola – i lavoratori non si riconoscono più come classe, la sinistra è sconfitta, divisa e dispersa, la guerra bussa alla porta. Come negli anni ’30”.
L’aria sembrò ferita dal suono delle parole, come se si rompesse un incantesimo. E davvero l’incantesimo si ruppe. Cacianiello parlò, in italiano quasi perfetto, come faceva esclusivamente quando citava Marx e Gramsci.
“E’ che non hai capito niente – disse accompagnando con un gesto lento della mano le parole. Secondo te avrei fatto tutto questo doloroso cammino, dall’altro limite del tempo, per parlarti di banalità che trovi scritte in tanti giornali e libri pieni di saggia e grigia teoria?
Certo che ho nostalgia: ma non delle cose che tu immagini e vorresti.
Io rimpiango le donne che ho lasciato passare, i bambini che ho guardato da lontano giocare, i fiori che sono cresciuti davanti ai miei occhi senza che io li vedessi, il caffè della mattina, e l’aria fresca delle campagne, e il vino la sera”.
Era sdegnato: si alzò, mi guardò in modo compassionevole, aprì la porta e entrò nel buio del salone.
Io rimasi seduto, fermo, immobile: non più la paura, ma la stanchezza mi convinse a lasciarmi andare sulla sedia.
Mi svegliai che l’alba inondava della sua luce tiepida il mondo.
Spalancai la finestra e respirai a pieni polmoni quell’aria fresca e viva.
E, stranamente, la gustai, con un piacere lento e appassionato, quasi fosse un buon gelato al cioccolato.