Non stiamo vivendo una semplice parentesi

Perché ragionare direttamente sulla pandemia, e non limitarsi alle analisi e alle proposte sul concreto rapporto tra la pandemia e le politiche sociali o le politiche sanitarie o le politiche ambientali? Ovviamente a caldo, in questo anno 2020 – e lo stesso accadrà verosimilmente nel 2021 -, tutta l’iniziativa politica, anche l’iniziativa politica che critica gli assetti sociali capitalistici, non ha potuto che costruirsi in relazione agli effetti globali del virus. E però, se rimarremo fermi ai nodi della politica e dell’economia, considereremo, sì, i problemi immediati che il Covid19 consegna all’insieme della società, ma ci sfuggiranno proprio i cambiamenti di spessore storico, quelli che già emergono da questi mesi così complicati, e che ancor più emergeranno dai prossimi complicati anni.

Partendo, invece, dalla pandemia in sé – o meglio: dal rapporto tra l’attuale pandemia e la storia complessiva degli esseri umani – potremo recuperare, forse, una visione di più lungo periodo. Ricondurre la pandemia alla storia umana significa, perciò, esaminare specificamente le trasformazioni d’insieme che la pandemia sta creando e provare ad indagare le questioni che hanno una effettiva rilevanza storica.

1) Un primo esempio di “questione storica” può essere costituito dall’accelerato declino del liberismo economico. È questo un esito possibile, anzi probabile, dell’attuale congiuntura storica. Non lo si ricava semplicemente dagli ultimi provvedimenti dell’Unione Europea, che sono andati visibilmente al di là dell’austerità tradizionale, ma da più organiche ragioni di sistema.

Intanto, va ricordato che l’austerità di bilancio perseguita dai neoliberisti del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale e dell’Unione Mondiale del Commercio, così come dai centri decisionali dell’Unione Europea, non è mai stata “austerità” in senso classico: alla maniera, cioè, dei mercantilisti europei del XVI e XVII secolo, i quali pensavano che bisognasse soprattutto “accrescere il tesoro”, ovvero, avere sempre colmi i forzieri dello Stato grazie al continuo travaso d’oro proveniente dalle transazioni internazionali; o anche alla maniera dei  fisiocratici francesi del Settecento, che finalizzavano l’intera economia alla creazione di un costante surplus di ricchezza da reinvestire. E neppure è stata uguale alle politiche restrittive dei monetaristi dell’epoca di Reagan e della Thatcher, che proponevano in partenza valute forti e consumi deboli.

L’austerità di bilancio predicata negli ultimi trent’anni è stata tutta dentro il quadro della globalizzazione neoliberista, era anzi l’altra gamba del postulato della “libera (ed intensa) circolazione” delle merci e dei denari. La globalizzazione liberista delle produzioni e dei mercati si è sostanziata, infatti, in un traffico abnorme di compra-vendite, ma anche in stringenti regolamentazioni di tale traffico. La tenuta dei bilanci dei paesi indebitati, con le connesse regole di austerità per accedere ai crediti ulteriori, ha costituito una condizione fondativa per le dinamiche reali della mondializzazione dei commerci e delle produzioni. Non a caso, questo specifico “neoliberismo della globalizzazione” ha avuto il suo centro operativo nelle grandi istituzioni sovranazionali del FMI, della BM, del WTO e della BCE, preposte, per l’appunto, a potenziare gli spostamenti continui della ricchezza partendo dal movimento dei capitali, ma anche a regolarli con i precetti della austerità.

In sostanza, la dimensione dell’austerità non è mai stata, in questi ultimi trenta/quarant’anni, una “cosa a sé”, bensì una articolazione concreta del nuovo neoliberismo economico. Il suo fragoroso accantonamento nell’anno del Covid19, sia in Europa che nei principali Paesi del mondo, diviene, così, una riprova evidentissima del declino storico dello stesso liberismo economico.

In realtà, è da un quinquennio almeno che le difficoltà degli assetti liberisti dell’economia mondiale riempiono il dibattito degli economisti e dei politici nelle stanze medesime delle grandi istituzioni finanziarie; adesso la pandemia segnala che non c’è più tempo. L’economia politica borghese e la concreta pratica economica degli scambi e delle ragioni di scambio sono poste di fronte alla urgente necessità di trovare nuove vie di salvezza per gli assetti produttivi incentrati sulla valorizzazione puramente economica degli investimenti.

Non è venuta meno soltanto la regola del pareggio di bilancio in quest’ultimo anno, ovvero uno dei tasselli dell’austerità; ciò che sta venendo meno è proprio il cuore della impalcatura liberista: vale a dire, l’idea che si potesse continuare all’infinito con la globalizzazione di sistemi produttivi, merci e denari senza pagare dazio. L’intromissione nelle vicende economiche di un evento storico assolutamente non previsto dai flussi di mercato – questa è stata la pandemia: un gigantesco evento storico fuori dal mercato capitalistico – ha mostrato tutta l’inadeguatezza del liberismo anche nel gestire il semplice muoversi delle merci e dei denari.

2) Anche se non sono stati molti ad accorgersene, il liberismo era in crisi da prima della pandemia, pressato dal multipolarismo della geopolitica mondiale. Attorno a ben definiti Stati-guida, è cresciuta negli ultimi decenni una spettacolare competizione internazionale, che ha creato durevoli linee di frattura e inattese barriere. La pandemia ha raccolto, e sta ulteriormente potenziando sullo stesso piano economico, questa tendenziale ricostruzione dei blocchi politici ed economici. E l’attuale “corsa ai vaccini”, che è un vero e proprio braccio di ferro tra più Sistemi-Paesi, la dice lunga su come il mondo si sta rimodellando.

Attualmente sono in cantiere una decina di vaccini, mentre già si avviano qua e là le somministrazioni. Soprattutto si è aperta una contesa globale tra le grandi potenze sul “vaccino migliore”. È una competizione apparentemente scientifica e tecnologica, ma ha invece carattere squisitamente politico ed economico, e anzi quasi militare, con gli hacker che rubano informazioni e sabotano gli avversari. La Russia ha appena avviato la profilassi di massa e ha venduto il suo vaccino a più di 50 paesi del Terzo Mondo. Stanno per essere diffusi un vaccino americano-tedesco e un ulteriore vaccino americano-europeo, ed è già all’opera il vaccino cinese. E poi ce ne saranno altri a breve tra Corea, Giappone, Francia… Di fatto, tende a solidificarsi l’articolazione multipolare del mondo, che già costituiva un evidente fattore di crisi del neoliberismo, cresciuto, non a caso, nella fase dell’unipolarismo USA dopo la guerra fredda.

Ma non sono solamente il quadro economico internazionale e il quadro geopolitico a ridisegnarsi velocemente con la pandemia. Sono sottoposti a torsione anche i cicli propri dell’assetto capitalistico, poiché la produttività dei fattori di produzione viene posta ruvidamente di fronte alla enormità, oltre che la imprevedibilità, delle catastrofi naturali, con pesantissime ricadute sulle lavorazioni e sul commercio. Per l’economia capitalistica, che è capace di pensare e agire solo partendo da se stessa, si tratta di una novità davvero spiazzante. Nel nuovo stadio della modernità così platealmente aperto dall’epidemia di Covid19, tenderà a modificarsi proprio il quadro di fondo dei processi di valorizzazione capitalistica, cioè la dinamica dell’accumulo continuo, per cui da un valore 100 si passa a un valore 110, poi 120, 130, 140 e così via.

Va considerato, infatti, che il capitalismo coincide con l’impiego socialmente combinato dei fattori produttivi e si sostanzia nella espansione continua dei valori: non è un assetto proprietario, ma è produzione e scambio in funzione della valorizzazione dell’investimento. Il fatto che l’investimento sia proprietà giuridica di qualcuno, rappresenta la parte meno significativa del sistema capitalistico, il quale è sempre stato attività produttiva per il valore, non per il profitto. E, in aggiunta, con la particolarità che il valore viene a determinarsi unicamente nella crescita tendenziale dei valori di partenza.

Nell’attuale fase di “totalizzazione del rapporto sociale di capitale”, le dinamiche di valorizzazione vengono attivate ben oltre la semplice e immediata attività di lavoro, poiché dipendono essenzialmente dall’insieme del corpo sociale disposto come concreto “individuo produttivo” e come effettiva inter-agenza di tutti i fattori sociali. Ciò significa che i valori e la crescita dei valori possono vivere solo dentro una complessa rete di combinazione sociale dei lavori e delle produzioni, che va dalla ricerca scientifica alla forza delle braccia, dalla formazione degli individui alla antropizzazione degli spazi, dalla coesione sociale alla mentalità delle persone. Di fatto, ognuno di noi, anche nelle ore in cui formalmente non lavora, si ritrova continuamente intento a produrre il modello di produzione e di consumo dentro il quale è inserito. E questo modello diviene, esso stesso, fattore produttivo. Anzi, il principale dei fattori produttivi.

Ebbene, tutto questo consolidato andamento si ritrova oggi scosso nelle fondamenta. Non significa che non ha possibilità di resistere e riprendersi, ma viene messo di fronte all’alternativa secca di cambiare o perire. Se si riprenderà, non potrà più essere uguale a prima. Dovrà trovare nuovi assetti, nuovi punti di equilibrio e nuove priorità: tutte cose che non erano previste dentro l’andamento consueto dell’economia e della politica. Sicché avremo comunque grandi trasformazioni nei prossimi anni, impensabili solo l’anno scorso.

3) I cambiamenti economici e politici, per quanto spettacolari, rappresenteranno, comunque, la minor parte delle dinamiche che il virus sta generando. Le novità più corpose, infatti, già cominciano a riguardare direttamente l’io, i comportamenti umani e la mentalità delle persone.

Va colto soprattutto come il virus stia svelando qualcosa che finora non era chiaro, e cioè che la potenza smisurata degli esseri umani ha davvero dei limiti. Il nostro procedere non è così agevole come ci siamo abituati a pensare sulla base delle strabilianti acquisizioni della scienza e della tecnica negli ultimi due secoli, e segnatamente negli ultimi sessant’anni. E stiamo ricominciando ad aver paura. Non la paura specifica di qualcosa, ma la paura-in-sé, la paura ontologica legata al nostro essere una “fragile canna”.

Blaise Pascal, un fondamentale pensatore del Seicento, definiva l’uomo, per l’appunto, come una “canna pensante”. La modernità ha scisso progressivamente quel concetto, mettendo in risalto l’onnipotenza del pensiero e relegando nell’ombra la fragilità della canna. Si è trattato di un esito globalmente positivo, di un senso comune obiettivamente benefico, che ci ha proiettato in avanti con una rapidità senza precedenti. Ma siamo alfine giunti al punto che non volevamo: il misconoscimento del nostro “essere canna” non regge più ai nostri stessi occhi. Questo è il tema vero che ci consegna l’inedita situazione che stiamo vivendo: inedita di sicuro per l’Occidente ricco del mondo; ma, con gradazioni diverse, anche per il resto del pianeta.

In prima battuta, può sembrare che il problema di fondo sia la specifica paura per una minaccia subdola e sconosciuta. E questa paura immediata è effettivamente enorme e diffusa, benché non si estenda in modo uniforme e non produca ovunque i medesimi atteggiamenti. Soprattutto avviene che le reazioni alla pandemia non si presentino uguali lungo le gerarchie sociali. Negli strati popolari vediamo anzitutto spavento e confusione; negli strati privilegiati si manifestano soprattutto insofferenza e irritazione. Del resto, anche la letalità del virus si sta rivelando diversa tra i settori ricchi e i settori poveri della popolazione, poiché i ceti benestanti godono in partenza di migliori condizioni di salute, riescono comunque a curarsi meglio e possono permettersi una minore esposizione al contagio.

Ma la questione decisiva non è costituita dalle differenze facilmente messe in luce da un approccio sindemico alla epidemia, ovvero dalle indagini che intrecciano la virulenza del contagio coi vissuti clinici normalmente connessi allo status sociale. Il punto decisivo, infatti, è che da entrambi i lati della stratificazione delle classi qualcosa di profondo, di veramente essenziale, sta cambiando sotto i nostri occhi. Non è una faccenda di semplice paura, più o meno giustificata, ma di vero e proprio smarrimento.

La dico in breve: siamo, secondo me, alla crisi verticale dell’immagine di se medesimi che gli esseri umani hanno faticosamente costruito negli ultimi trecento anni. Non mancano, ovviamente, le dimensioni classiste all’interno dell’immagine moderna dell’uomo. I privilegiati non hanno mai pensato la condizione umana in maniera simmetricamente uguale a come l’hanno pensata gli strati poveri delle città o i derelitti delle campagne. E però, entrambi i poli, classi privilegiate e classi popolari, hanno lungamente coltivato dentro di sé il feticcio dell’onnipotenza tecnologica.

L’architrave di ragionamento, per le classi privilegiate, è stato costantemente il seguente: la tecnologia è una cosa talmente delicata che soltanto una élite (appunto i privilegiati per censo e per cultura) può davvero controllarla e padroneggiarla. Per le classi popolari, invece, le cose stanno altrimenti: la tecnologia è un bene così umano, così all’altezza dell’uomo, che non può essere maneggiata esclusivamente da “pochi”; ci vuole piuttosto il controllo popolare sulla ricerca scientifica, sulla tecnica e sulla conoscenza. Fino a questo straordinario 2020, la questione aperta era tutta qui: verteva su chi dovesse guidare il cammino benefico della scienza.

L’esperienza della pandemia mantiene certamente viva (ed anzi perfino la infittisce) questa tradizionale querelle dialettica sui soggetti più idonei a maneggiare il sapere; ma sta pure cominciando a produrre un nuovo e più spinoso interrogativo. Che, in realtà, è un dubbio. Riguarda la capacità effettiva della ragione e della conoscenza umana di sciogliere non soltanto le incognite delle produzioni e degli assetti sociali, ma anche, e soprattutto, le incognite dell’esistenza umana.

4) A ben vedere, la domanda sulla forza (e sul senso) del vivere ha accompagnato gli esseri umani lungo tutta la modernità, ed è stata particolarmente insidiosa nel corso del Novecento, il secolo più prometeico e tragico della storia. La pandemia tende però a declinarla senza mediazione culturale, direttamente nel vissuto immediato delle persone. E riesce agevolmente a farlo perché le persone dell’età contemporanea, proprio in quanto si ritrovano al vertice del sapere umano, divengono anche più facilmente esposte al dubbio. Viene a determinarsi, in sostanza, un intreccio complesso di sapere, incertezza e smarrimento, che si collega molto ai processi di de-teologizzazione del mondo, così intensi nei paesi più avanzati sul piano della tecnica e del sapere scientifico.

Dico subito, a scanso di fraintendimenti, che “il mondo senza Dio”, senza l’intromissione della religione nella quotidianità delle persone, ha significato un avanzamento globalmente positivo dell’uomo. Liberandosi dalla morsa del teocentrismo, dall’incombere della divinità sui percorsi di vita, l’essere umano si è ritrovato obiettivamente più libero, più capace di costruire da sé il proprio destino. E però, come spesso accade nei processi storici e antropologici di sviluppo, anche questo elemento di innegabile protagonismo possiede il suo risvolto della medaglia, poiché tende spontaneamente verso la logica angusta del “presentismo”, rafforza la sensazione di poter vivere unicamente nel presente.

Detto in breve: se vengono a mancare Dio e l’eskathòn (la finalità ultima del nostro vivere); e se ci ritroviamo inesorabilmente fissati dentro l’arco del nostro nascere e del nostro morire, conosceremo sì una gioiosa vertigine di libertà, ma avremo anche l’insuperabile difficoltà di relazionarci col futuro-in-sé, oltre l’orizzonte puramente storico dello sguardo. Il futuro come finalità, come destino, come eskathòn appunto, diviene adesso rapidamente evanescente. E lo diviene, nonostante continui a manifestarsi, anche nell’età moderna, come fortissimo desiderio dell’animo umano e come incessante tentazione del nostro esistere. Il nostro futuro tendiamo continuamente a perderlo vivendo la modernità, e però lo vogliamo testardamente riconquistare.

Ma per recuperarlo, per proiettarci oltre il mero appagamento del “qui e ora” (che riempie solamente il lato ferino dell’uomo come animale vivente), dovremo insistentemente faticare su noi stessi, puntando a una vera e propria creazione-ex-novo. Parlo, come è ovvio, di una creazione intellettuale. E la modernità e la contemporaneità sono strapiene di questi continui tentativi intellettuali; che però hanno avuto, ed hanno tutti, chi più e chi meno, una esistenza assolutamente provvisoria.

In effetti, finanche la semplice motivazione del nostro affaccendarci tende a divenire malferma. Mi dirò che faccio ciò che faccio per i miei figli, o più genericamente per il mondo che verrà. E magari arriverò anche al concetto ampio di ‘umanità’. Ma sono tutte categorie filosofiche, ideologiche in senso proprio. Sono contenuti puramente razionali, sorretti dalla ragione universale, non dalla mia effettiva esperienza personale. La quale esperienza rimarrà sempre inchiodata alla sua specifica verità, ovvero al fatto che tutto il mio-mondo-reale finirà con la mia morte. Così, dentro lo sforzo creativo di dare un senso de-teologizzato al vivere, questa mia identità contemporanea mi si rivelerà intrinsecamente scissa: è largamente bloccata sul presente, e tuttavia anche costantemente attraversata dal desiderio inappagato del futuro.

5) Il mondo costruito dalla modernità è dunque approdato ad un vivere fortemente schiacciato sul presente: tutto riesce a valere solo nella sua immediatezza, tutto è obbligato a porsi come immediatamente compiuto. Ma la novità della pandemia è che adesso proprio l’immediatismo si ritrova con le spalle al muro. Nell’immediato c’è l’oscurità, c’è la solitudine. Siamo tutti relegati in casa nell’immediatezza dell’oggi. Perciò dal presente, oggi come oggi, tutti vorremmo semplicemente fuggire.

Che fare, allora? Ti metti a sperare nel vaccino. Emotivamente non puoi fare altro. Aspetti un qualcosa di rapido e risolutivo, e desideri intensamente che si ritorni al mondo di prima. Ma già qualcuno ti dice che dopo questa pandemia ce ne saranno altre, perché il rapporto che si è squilibrato tra gli esseri umani e la natura è davvero reale, non è una semplice opinione. Così il dubbio si fa più intenso: forse la verità è che non si può tornare indietro.

Ma è difficilissimo anche arrivare ad un nuovo armonico equilibrio tra l’uomo e la natura. E sicuramente è impossibile arrivarci dentro le coordinate di questo sistema sociale. Di più. Comincia a non sembrare per nulla peregrino il dubbio che l’armonia sia divenuta impraticabile in sé: proprio perché il livello di devastazione è andato molto avanti. Forse troppo avanti… E tutto questo non può che tradursi in un sentimento di violento smarrimento, di vera e propria paura ontologica. La mentalità degli esseri umani, comunque vada, ne resterà lungamente segnata.

D’altronde, non sta scritto da nessuna parte che le cose evolveranno per il meglio, che ciò che stiamo vivendo adesso si ridurrà a un semplice, bruttissimo sogno, dal quale a un certo punto ci saremo svegliati. La soluzione dovrebbe essere costituita dal vaccino e dalla cosiddetta “immunità di gregge”, ma nessuno può davvero assicurare che siano risolutivi, o che siano risolutivi in tempi brevi. E pure se le cose avvenissero tali e quali le vorremmo, e seppure l’epidemia di Covid19 venisse interamente debellata, noi oggi lo sappiamo – l’abbiamo scoperto in modo drammatico in questo memorabile 2020 – che troppi potenziali disastri incombono in questa nuova età dell’antropocene, delle zoonosi accelerate e dei cambiamenti climatici in piena espansione.

Detto in maniera brutale: la geologia e la biologia del mondo naturale si stanno difendendo, a modo loro, dagli sfregi che hanno subito, e tuttora subiscono, dalla civiltà umana; e questo fatto ci proietta in una evidente situazione di trasformazione storica, in una nuova fase della modernità. Molte delle coordinate con cui siamo stati abituati a pensare, e con cui abbiamo pensato finora, veramente non tengono più. Lo chiedo allora a noi stessi: oggi come oggi, in questo dicembre 2020, ha senso continuare a discutere tra noi come fossimo ancora nel 2017 o nel 2018? Ce la facciamo a dirci, per prima cosa, che questa pandemia non può essere derubricata a una parentesi del nostro percorso di vita?

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