1) Richiamo l’attenzione sui due straordinari paradossi che segnano oggi i diritti dell’individuo proclamati dalla fine ‘700 in poi, dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino durante la Rivoluzione francese alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo adottata dall’assemblea generale delle Nazioni Unite nel dicembre del 1948, dichiarazione ripresa poi dalle due Convenzioni del 1966, quella sui “diritti politici” e civili e quella sui “diritti economici, sociali e culturali”.
Sono formulazioni solennemente scritte anche nelle Costituzioni di quasi tutti gli Stati, con sottolineature particolari e però dentro un quadro comune; ma il dato obiettivo è che da nessuna parte hanno una reale concretezza universale. Non si traducono in un ‘dato vero’ per la maggioranza degli esseri umani di questo nostro tempo, e ciò sia sul versante dei diritti di civili e politici e sia, ancora di più, su quello dei diritti economici, sociali e culturali.
2) È questo il primo paradosso: solenni formulazioni, da un lato, e una prassi storica del tutto inadeguata, dall’altro.
Si afferma che non debbano esserci discriminazioni “per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione”. È l’articolo due della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, riportata anche dal comma 2 del secondo articolo della Convenzione internazionale relativa ai diritti economici, sociali e culturali. Si aggiunge anche il diritto di ogni persona “a un livello di vita sufficiente a se stesso e alla propria famiglia”, in particolare per quanto riguarda “l’alimentazione, il vestiario e l’alloggio” (articolo 11 della Convenzione e articolo 25 della Dichiarazione universale).
Sono parole energiche, piene di sonorità positive; ma non basta dire, come fa sempre l’articolo 11 della Convenzione, che è un “diritto fondamentale di ciascuna persona sentirsi al sicuro dalla fame” perché poi tutti riescano davvero a nutrirsi in modo sufficiente. È arcinoto, infatti, che la sottoalimentazione accompagna la quotidianità di milioni di persone non solo in Africa, Asia e America Latina, ma anche nelle zone degradate dei paesi ricchi.
Analogamente non basta dire che ci deve essere una “ragionevole limitazione” delle ore di lavoro e il riconoscimento del “diritto alle ferie e al riposo retribuiti” perché questa cosa diventi effettiva. Basta guardarsi intorno – anche qui, nella nostra ricca Italia – per vedere condizioni di lavoro che hanno poco da invidiare ai vecchi regimi dello schiavismo antico. Così come non basta scrivere che l’impiego salariato della manodopera infantile “sarà proibito e sanzionato dalla legge” (articolo 10 della Convenzione) per debellare sul serio la piaga del lavoro minorile.
3) Insomma, sia sul piano dei diritti politici e civili che sul piano dei diritti sociali e culturali, il panorama reale del mondo di oggi si presenta terribilmente angosciante. Le persecuzioni di coloro che si oppongono ai poteri costituiti sono all’ordine del giorno quasi ovunque; e le carcerazioni senza garanzie e i trattamenti degradanti e inumani dei detenuti politici (che sono centinaia di migliaia in tutto il mondo) arrivano sì, di tanto in tanto, nelle tv e sui giornali, ma sono date ampiamente per scontate.
Del resto, la stessa fisicità terribile della miseria e delle privazioni la si vive come un dato di fatto pressoché ineluttabile, con la speranza di non esserne toccati se le cose ci vanno bene, e di uscirne con un colpo di fortuna se le cose ci vanno male. Perfino la sanità rimane un miraggio per centinaia di milioni di persone: non solo nei paesi poveri del mondo, ma finanche nei paesi più ricchi, per esempio gli Stati Uniti d’America, dove l’assistenza medica non è gratuita. Chi non se la può permettere, chi è povero, chi non ha “l’assicurazione” o non è in regola col pagamento delle quote, ovviamente non si cura.
È questo, dunque, il primo paradosso: le enunciazioni giuridiche, che pure costituiscono un impegno solenne e generale sottoscritto dagli Stati (pressoché tutti), non hanno vera vita sul piano della realtà fattuale, non portano benefici concreti alla maggioranza degli esseri umani di questo nostro pianeta. Per tanti e tante, i “diritti” restano ancora semplici parole, flatus vocis.
4) Vorrei però mettere soprattutto a fuoco il secondo paradosso, che probabilmente è anche più spinoso del primo, e che in parte dà conto della stessa ostinata distanza tra le parole e i fatti. Questo secondo paradosso risiede nella debolezza, sempre più evidente, del ‘ragionamento in sé’ a proposito dei diritti dell’individuo. La pandemia che stiamo vivendo lo ha reso chiaro anche a chi normalmente è distratto e non si occupa delle cose del mondo: c’è un obiettivo punto di criticità nei discorsi che partono dall’individuo in quanto tale.
Ho insistito, in altri scritti e occasioni, sul fatto che la modernità è stata soprattutto una complessa “costruzione dell’individuo”. È anzi occorsa una lunga fatica perfino per definirlo, l’individuo. Prima della modernità, l’individuo in sé, l’essere umano nudo, non esisteva. Ogni ‘io’ era inglobato in maniera inestricabile nella condizione collettiva che continuamente lo definiva e lo modellava. Ciascun uomo e ciascuna donna appartenevano, non solo storicamente ma soprattutto psicologicamente, ovvero come autocoscienza in costruzione, al contesto dentro il quale erano inseriti.
Beninteso, le espressioni “uomo onesto”, “donna sincera” (o anche il loro contrario: “disonesto” e “falsa”) venivano adoperate. Ma si riferivano, quanto al loro senso interno, soprattutto agli attributi topici della gens, del populus, della religio o della koiné di appartenenza. L’uomo onesto era perciò l’identica cosa di “vero greco”, di “romano onorato”, di “cristiano meritevole”. E gli individui infidi e sleali venivano giudicati simili agli uomini barbari, o agli uomini non investiti della cittadinanza romana o, successivamente, agli infedeli. Era l’appartenenza collettiva che qualificava l’io. Gli uomini e le donne venivano chiamati a mostrarsi degni di quel ‘noi’ che li sovrastava e li identificava dalla nascita.
L’essere umano era anche immerso, tanto praticamente quanto giuridicamente, in un sistema gerarchico di ordini e corporazioni, in vere e proprie caste. Fino alla Rivoluzione francese, nella nostra civile Europa restavano rigorosamente separati gli ordini della Nobiltà, del Clero, del Terzo Stato (che poi, a sua volta, si diversificava piuttosto rigidamente al proprio interno). Ed esisteva ancora, come normale condizione, la schiavitù, che era l’ultimissimo scalino della società. Insomma, gli esseri umani erano definiti non genericamente dalla loro ricchezza, ma ancora più profondamente dal retaggio di appartenenza, che si stampava loro addosso come una ‘seconda pelle’. L’ambiente di nascita, la loro koiné, li definiva e li accompagnava per tutta la vita.
5) In effetti, è solo tra il Seicento e il Settecento che l’individuo comincerà a viversi come tale, indipendentemente dal contesto di nascita (dalla sua qualificazione di greco, romano, cristiano; ovvero barbaro, non-romano, infedele e via dicendo). È stata perciò una conquista davvero enorme quella che ha consegnato la modernità, allorché ha posto l’accento sull’individuo. Tuttavia, questo individuo-in-sé la modernità lo ha anche assolutizzato, staccandolo dall’insieme, dalla totalità del reale. La dichiarazione dei diritti dell’ONU è universale perché riguarda tutti gli individui; e però li riguarda ciascuno singolarmente considerato.
In altre parole, quel formidabile iato tra le sonore proclamazioni teoretiche, giuridiche e morali della modernità e la realtà livida dei fatti che essa ha costruito, rinvia a qualcosa che va ben oltre l’applicazione o la mancata applicazione dei principi con tanta forza affermati. I veri nodi irrisolti, a me pare che siano proprio le definizioni di “individuo” e “diritti dell’individuo”.
6) Detto in breve: ciascuno di noi è sì un individuo singolo, ma è comunque un individuo-in-relazione. È in relazione con altri individui ed è in relazione con la natura, con l’ambiente circostante. Per liberare l’individuo dal contesto di appartenenza che lo determinava fin dalla nascita, la modernità ha dovuto lacerare proprio il concetto di ‘relazione’. E ciò non poteva restare senza conseguenze.
Non sono stati pochi quelli che si sono semplicemente opposti all’individuo in nome di entità storiche – la razza, il popolo, la nazione – che semplicemente ammodernavano, traslandole sullo scenario mondiale, le vecchie segmentazioni per ordini e la tradizionale identità umana fissata dalla nascita. E però non sono mancati neppure quelli che hanno cercato di tenere vivo il concetto di ‘relazione’ dentro le coordinate della modernità.
Ma proprio costoro si sono immancabilmente ritrovati, anche quando l’hanno fatto con le migliori intenzioni, in un percorso sommamente accidentato. In sostanza, si sono trovati alle prese – penso alle sacrosante rivoluzioni in nome dell’eguaglianza tra gli uomini – con la difficoltà di conciliare il risultato comunque positivo della modernità, e cioè l’individuo in sé per sé, con una prassi politica costrittiva che operasse sull’individuo per armonizzarlo con tutti gli altri individui.
Difatti, mantenendo la centralità storica del “noi” non si riusciva a salvare l’individuo. Si cadeva comunque nella unilateralità: opposta a quella di chi, ragionando a partire dall’io, sacrificava in partenza le ragioni del noi. Si è trattato comunque di una visione unilaterale, che ha prodotto anch’essa una modernità monca.
7) Probabilmente gli storici del futuro vedranno il Novecento come una lunga fase di faticosa, incerta e contraddittoria transizione verso una sintesi più compiuta tra i diritti dell’uomo, che fu l’aspirazione rivoluzionaria del Settecento illuminista, e i doveri del cittadino, che fu al centro della storia e della cultura dell’Ottocento. Il XX secolo doveva costruire la sintesi tra quelle due spinte; in realtà le ha mantenute distinte, così come ha mantenuto la distinzione, e anzi l’opposizione, tra le determinazioni dell’io e del noi.
Siamo adesso nel XXI secolo. E a me pare che stia diventando sempre più urgente la sintesi tra questi due elementi. È questo il secondo paradosso: i diritti universali non sono stati realmente conquistati, nel senso che sono ancora disattesi per la grande maggioranza degli esseri umani, e però si presentano già oggi storicamente superati. Superati proprio perché si è aperta la necessità, e anche la possibilità, di un nuovo paradigma storico, che metta assieme il bene di ciascuno col bene di tutti.
In sostanza, siamo chiamati a far valere pienamente il fatto che gli individui sono sempre individui-in-relazione, spostando l’accento esattamente dall’individuo alla relazione; e però mantenendo, in questo spostamento, la densità dell’individuo.
8) L’individuo è anzitutto relazione con gli altri individui e con l’ambiente, con la natura. Che cosa vuol dire? Che se si parte dalla relazione si possono probabilmente recuperare tanto le esigenze del noi quanto i bisogni e le speranze, le volizioni dell’io.
Per dirla in una battuta, bisognerebbe scrivere una sorta di “Dichiarazione dei diritti della convivialità”: nel senso proprio etimologico del termine (cum alio vivere, vivere assieme all’altro). Ma non si tratta di convivere solamente con l’uomo-distinto-da-me-che-mi-sta-di-fronte, bensì con l’altro-vivente in generale: anche quelli che il grande poeta russo Esenin chiamava “i nostri fratelli minori”, gli animali, e quella che tutti oggi ritorniamo a vedere come una “forza-viva”, e cioè la Terra, il nostro pianeta, sempre più irriconoscibile per i cambiamenti climatici, e percepito anche come ostile per questa pandemia che sta mettendo a torsione tutti i nostri paradigmi interpretativi.
Propongo, insomma, di declinare anzitutto i diritti della connessione, e quindi i diritti della convivialità, del vivere con gli altri, e i diritti della naturalità del vivere dentro e con la natura.
9) Nessuna delle dichiarazioni che ho prima ricordato parla della naturalità dell’uomo: è un concetto che semplicemente non c’è. E nessuno parla della correlazione integrata tra gli individui, perché l’idea di fondo è che essi siano ontologicamente ‘separati’, conchiusi in sé; e la definizione dei diritti serve a non farli entrare in conflitto e a circoscrivere il campo di ciascuno. Noi invece abbiamo bisogno di aprirlo questo campo, e di mantenere in questa apertura, e in questa inedita dimensione dell’‘incontro’, la conquista positiva dell’individuo.
È questo, dunque, il doppio paradosso che abbiamo davanti: ci sono grandi proclamazioni sui diritti dell’individuo che non hanno vigenza reale e c’è, contemporaneamente, la necessità di andare oltre gli stessi diritti dell’individuo e costruire nuovi e più ampi scenari pratici e teoretici. Non sto suggerendo, dunque, di superare le aporie del moderno paradigma dell’individuo ripigliando semplicemente il noi. Sto suggerendo, invece, di continuare senz’altro a batterci affinché le affermazioni novecentesche sui diritti divengano effettiva realtà storica; ma, nello stesso tempo, invito ad aprire un ulteriore terreno di ricerca e sperimentazione, che parta dall’io-in-relazione e tesaurizzi le cogenti potenzialità racchiuse nella dinamica della convivialità.
10) Ma chi potrà mettersi alla guida di una simile impresa? Le Nazioni Unite per come sono oggi strutturate? Non mi pare realistico. Le Nazioni Unite possono essere tutt’al più sollecitate.
A fare la loro parte dovranno essere soprattutto le correnti che si sono mosse nel solco dell’umanesimo. Per dirla in soldoni: l’umanesimo di derivazione marxista e l’umanesimo di derivazione cristiana. E si badi bene: non i marxisti o i cristiani ‘presi in sé’, ma il versante umanista che si è progressivamente definito (anche in contrapposizione con le rispettive ‘ortodossie’) nell’ambito di quelle culture e di quelle soggettività storiche.
Negli ambienti del cristianesimo, i pronunciamenti dell’attuale pontefice vanno esattamente in tale direzione. Non sono invece emerse, o meglio: non sono emerse in modo significativo, analoghe progressioni di ricerca sul versante delle soggettività e delle teorie che si richiamano alla tradizione socialista e comunista. Ma è una sfida storica che anche all’interno di quelle coordinate è necessario raccogliere. Se non altro, per ridare attualità ad una visione del mondo che ha accompagnato le speranze di tante generazioni di oppressi in tutte le latitudini del mondo.
Non è che ci sia proprio il vuoto assoluto. Alcune esperienze, per esempio la comunità del Rojava e, ancor più, la vicenda degli zapatisti del Chiapas, appaiono del tutto consapevoli della improcrastinabilità di una nuova idea di socialismo. Anche le spinte verso un “nuovo socialismo” che emergono da qualche decennio in America Latina si presentano come un terreno promettente di innovazione.
Del resto, l’America Latina – accanto all’urgenza dei ‘diritti negati’ che l’accomuna all’insieme dei paesi poveri, e di conseguenza la pone in una posizione attiva per rivendicare una effettiva coerenza tra la teoria e la pratica sul versante dei “diritti umani” – possiede due caratteristiche spontaneamente congruenti con l’orizzonte storico della convivialità: un robusto vissuto popolare comunitario, ancora vivo persino nelle cinture urbane, e la memoria indigena della sacralità della natura. Sono elementi particolarmente utili proprio per declinare il concetto di “relazione” e prospettare a sé e agli altri, con la persuasione della teoria e con la forza della pratica, l’orizzonte urgente e necessario della convivialità umana.