Uguaglianza e ineguaglianza

Le critiche di Ugo Grozio a Tommaso Campanella

1) In una opera considerata secondaria (e forse lo è davvero, ma a volte è nei dettagli che si nasconde la più chiara verità) l’olandese Grozio si esprime, a proposito dei fondamenti del potere, con una efficacia maggiore che negli scritti più noti, anche perché lo consente il tipo di opera di cui parliamo. Si tratta delle “Observata in Aphorismos Campanellae politicos (postille agli aforismi politici di Campanella)”

Pubblicata per la prima volta a Rotterdam nel 1652, a cura dello studioso e filologo olandese Isaac Gruterus (1610-1680), in una miscellanea che comprendeva vari scritti politici, giuridici e filosofici, alcuni anche di dubbia attribuzione a Grozio (non però le postille), l’opera prende in considerazione e commenta gli aforismi politici di Campanella con riferimento, molto probabilmente, all’edizione pubblicata, a cura dello stesso autore, a Parigi nel 1637, anno nel quale anche Grozio era nella capitale francese, sebbene non si abbia notizia di incontri tra i due.

Le postille, pertanto, dovrebbero essere state scritte tra il 1637 e l’agosto del 1645, epoca della morte dell’olandese, quindi nel periodo di piena maturità del pensiero groziano. Dei 150 aforismi di Campanella, redatti in uno stile asciutto e lapidario, Grozio ne commenta solo 61, con lo stesso stile conciso ed essenziale. Molte postille riguardano più direttamente la natura e l’origine delle forme politiche, nonché il rapporto tra potere politico e religione, e più in generale il ruolo della religione nella definizione della comunità umana. Alcune hanno per oggetto il concetto stesso di legge, la sua origine e il rapporto tra Natura e legge, e sono, per la loro lucidità, veramente significative.

2) Prima di esaminarne qualcuna in dettaglio, va sottolineato come fosse internazionale il dibattito filosofico-politico nella prima metà del ‘600. Un filosofo nato in Olanda, cresciuto, come politico e pensatore politico, alla corte di Svezia, e di matrice protestante, seppure in una forma tollerante e non estrema, si confronta con il predicatore calabrese, ritenuto eretico per le sue critiche al dogmatismo e per il naturalismo di scuola telesiana, che aveva apertamente sostenuto nei suoi scritti. Vero è che la ‘comunità dei sapienti’ era, all’epoca, molto meno numerosa di oggi e le pubblicazioni erano rare nel numero ma, grazie alla stampa, abbastanza diffuse. Vi era anche il vantaggio di una lingua condivisa dall’intera comunità degli studiosi, il latino, che facilitava di molto i rapporti tra dotti di diverse provenienze. 

Non di meno, la vivacità del dibattito filosofico dell’epoca rimane davvero notevole. Del resto, in quei decenni, da varie parti, da contributi diversi e spesso contrastanti, nasceva con grande impeto quella modernità che l’umanità avrebbe poi conosciuto in pieno nei secoli successivi.

Diversi certamente erano Grozio e Campanella, anche se l’antidogmatismo e l’ansia di ricercare senza pregiudizi la strada della vera conoscenza è un tratto che li accomuna. Li accomuna anche l’idea che la ricerca filosofica non fosse fine a se stessa, ma fortemente collegata all’azione concreta nel mondo delle relazioni politiche e istituzionali: uomini di pensiero e di azione entrambi, ed entrambi apprezzati e perseguitati per il loro pensiero e per la loro pratica politica.

Tra le maggiori diversità di visione che si possono attribuire ai due pensatori, viene subito in risalto quella relativa alla nascita e alla qualità del nuovo ordine sociale e politico, che entrambi intuivano ormai alle porte. Alla visione utopistica ed integralista di Campanella, fondata su un presunto ordine naturale, del  quale la religione cristiana, tra tutte le religioni, era il riflesso più coerente, e nel quale ruoli sociali, rapporti di potere e meccanismi istituzionali dovevano essere rigidamente modellati sulla Ragione/Natura, e nella quale si intravedeva il riflesso neo-platonico della filosofia naturalista del ‘500, Grozio contrapponeva una visione più “realistica”, sicuramente più consapevole delle novità sociali della sua epoca.

Nel suo pensiero, come è noto, già comincia a prender corpo l’opzione che poi sarà definita “contrattualistica”: vale a dire la centralità della volontà dei soggetti sociali, ovviamente sorretta dalla ragione e dalla fede, nella costruzione della comunità umana. Illuminante, a tal proposito, è proprio la prima postilla, riferita al primo aforisma di Campanella.

3) Campanella elenca quelle che, a suo dire, costituiscono le formazioni sociali naturali dell’uomo, quelle che nascono per soddisfare il bene comune: “Naturalmente s’accompagnano coloro i quali s’uniscono per il ben reciproco naturale.”

L’elenco di tali formazioni è il seguente:

  • Però la prima unione o communità è del maschio e della femmina.
  • La seconda è dei generanti e figli.
  • La terza è di padroni e servidori.
  • La quarta è d’una famiglia.
  • La quinta è di più famiglie in una villa.
  • La sesta è di più ville in una città.
  • La settima è di più città in una provincia.
  • L’ottava è di più provincie in un reame.
  • La nona è di più reami in un imperio.
  • La decima di molti imperii sotto più climi e meridiani e sotto il medesimo.
  • La undecima è di tutti gli uomini sotto la specie umana.”

Ciascuna di queste “communità” trae origine dall’ordine naturale e trova giustificazione in una finalità che l’ordine naturale stesso assegna loro. Nella visione campanelliana, la migliore e più corretta interpretazione terrena dell’ordine naturale resta la religione cristiana.

Grozio condivide solo parzialmente questa elencazione, ritenendo che “naturale” in senso proprio possono essere definite solo le unioni tra maschio e femmina e tra genitori e figli, mentre per gli altri tipi di relazioni la questione è diversa:

“Conforme alla legge di natura è l’unione di maschio e femmina, di genitori e figli; più violenta è quella di signore e servi; volontaria quella dell’ingaggiatore e dei mercenari, come accade anche fra quelli che, essendo indipendenti, si riuniscono in una sola casa, in un solo villaggio, in una sola città, in una sola regione, tutti luoghi questi, i quali si differenziano soltanto a seconda se sono più grandi o più piccoli”.

Ecco uno straordinario esempio di come poche frasi possano compendiare una intera visione della realtà sociale.

4) Mentre la “naturalità” assoluta, sostiene Grozio, può ascriversi ai legami connessi al genere e alla filiazione, condizioni ed atti che accomunano la specie umana a tutte le altre specie del regno animale, gli altri legami seguono strade diverse. Ed è estremamente significativo, perché rivelatore dei nuovi tempi, la distinzione operata tra il legame servile, basato sulla violenza, e quello mercantile (tra ingaggiatori e mercenari) che invece è di natura volontaria.

Come non leggere, in questo, la distinzione tra il regime feudale, nel quale lo scambio servo/padrone è fondato sulla sottomissione e sull’autorità, ed il nascente mondo dei bourgeois che si va affermando nell’Europa del Centro Nord, fondato sullo scambio, di natura volontaria, tra lavoro e capitale?

La Natura – da leggersi come ragione, e quindi come agire razionale, secondo schemi e finalità preordinate, di cui l’uomo è consapevole – è solo lo scenario di fondo, dentro il quale l’agire volontario degli individui determina le dinamiche sociali. L’utopia campanelliana aveva bisogno di un ordine naturale molto più agente nella vicenda umana. Il realismo groziano, no.

È lo stesso agire volontario, per Grozio, e non la diretta azione della natura, a determinare la nascita delle aggregazioni sociopolitiche: “come accade (volontariamente) anche fra quelli che, essendo indipendenti, si riuniscono in una sola casa, in un solo villaggio, in una sola città, in una sola regione, tutti luoghi questi, i quali si differenziano soltanto a seconda se sono più grandi o più piccoli.

Gli Stati, grandi o piccoli che siano, nascono quando gli individui “indipendenti”, ossia liberi dal servaggio, decidono di unirsi.

Ma chi sono, nella visione groziana, questi individui “indipendenti”?

5) La domanda non è affatto irrilevante. Già nello De Iure Belli ac Pacis, Grozio aveva distinto il rapporto tra uguali da quello tra “Superiori ed Inferiori”. In quest’ultima relazione aveva inquadrato sia la servitus perfecta, ovvero la condizione degli schiavi, sottomessi sostanzialmente contro la loro volontà e la cui intera esistenza dipendeva dal padrone, sia la servitus imperfecta, quella cioè che si istaurava tra un padrone e un mercenario, ossia un soggetto che cedeva in affitto il proprio lavoro al padrone. Sebbene per Grozio quest’ultima relazione fosse di natura diversa da quella servile (ed in effetti per buona parte lo è), anche essa, tuttavia, era una relazione tra un superiore e un inferiore.

Differisce dalla schiavitù innanzitutto perché è un atto volontario, e quindi un accordo tra soggetti che dispongono liberamente di sé; ed in genere è temporanea e limitata alla sola erogazione dell’attività lavorativa e non a tutti gli aspetti della vita. Tuttavia, date queste distinzioni, il contenuto della relazione non si distanzia molto dalla servitus perfecta. Il mercenario, per il tempo e l’attività ceduta, sottostà in tutto al suo padrone, ne è dominato completamente.

Ora, senza dilungarsi in questa sede sulle complesse e affannose discussioni giuridico-filosofiche che attraversarono tutta la seconda metà del Seicento e buona parte del Settecento, e che ebbero per oggetto la definizione dei contenuti e dei limiti del rapporto tra padrone e mercenario (su cui scrissero a lungo sia Hobbes che Locke, e poi tutti i giureconsulti di ambiente anglosassone), quello che può riguardare la nostra ricerca è che l’approdo giusnaturalista al principio di uguaglianza, come postulato del diritto naturale, fu piuttosto faticosa e singolare, e soffrì di numerosi distinguo ed eccezioni. Nessuno mise mai in discussione la schiavitù, ed il rapporto tra i moderni padroni borghesi e le nascenti figure di operai–mercenari conservò a lungo il suo carattere di accordo tra pari (contractus) solo nella sua genesi iniziale (il che comunque lo rendeva sostanzialmente diverso dal servaggio medievale, che era invece una condizione ereditata  e immodificabile), atteggiandosi per il resto, nel suo concreto svolgimento, come una dominazione pressoché illimitata sulla persona.

Sul punto si esercitarono comunque, e a lungo, giureconsulti di diversa tendenza, divisi sostanzialmente dalla concezione di quanto dovesse estendersi il dominio del Padrone/Datore di lavoro sul Servo/Mercenario. Su un punto tuttavia tutti convergevano, e cioè che il nuovo assetto sociale, le nuove istituzioni che si cominciavano ad intravedere fin dalla metà del ‘600 e quindi le nuove regole che dovevano governare i nuovi fenomeni del mercantilismo e della prima industrializzazione (pur senza mettere ancora in discussione le gerarchie sociali e la struttura formale del potere), cominciavano ad avere come riferimento sociale la figura del borghese, e cioè quel soggetto indipendente, attivo economicamente, che misura le cose, le azioni e i rapporti col metro dell’economicità, considerata di per sé, una condotta razionale, e quindi “naturale”.

6) Gli “indipendenti” groziani sono dunque, a ben vedere, i borghesi, individui capaci di decidere di sé e per sé. Certo, lo sono anche gli aristocratici, ma questo è, come dire, ovvio, essi lo erano da sempre. È invece l’emergere di quel nuovo ceto “indipendente” che sconvolge e cambia la storia dell’umanità.

Nelle Postille groziane a Campanella, questo riferimento appare chiaro proprio quando si affronta l’argomento della genesi e della natura di leggi e regole sociali.

Il tema delle forme del potere, e quindi delle leggi, divide immediatamente i due filosofi, e non si tratta certo di una divisione di poco conto.

Nell’aforisma numero 13 (corrispondente alla postilla n. 5), Campanella elencava le diverse forme di potere, seguendo uno schema abbastanza classico:

“In ogni communità, o domina un, come il Re in Spagna; o molti, come i nobili in Venezia; o tutti, come gli Atenesi e Svizzeri; o uno e molti insieme, come in Polonia; o molti e tutti, come già in Roma la plebe et il Senato; o uno, molti e tutti insieme, come in Lacedemone il Re, gl’Efori et il popolo”.

Grozio, avvertendo il rischio di una deriva eccessivamente “democratica”, si affretta subito a chiarire quali sono i limiti nei quali il dominio dei “tutti insieme” può essere accettato:

“Quanto viene detto qui, è da intendersi con le dovute riserve. È infatti difficile che tutti gli uomini liberi, membri di una stessa città, possano essere partecipi del potere. Di solito sono escluse le donne, gli orfani, quelli molto poveri, i nuovi abitanti”.

Il perimetro del potere politico è evidente. L’esclusione di donne, orfani e poveri è chiara: secondo lo spirito del tempo, le donne sono soggetti giuridici e entità sociali inferiori; coloro che non risultano inseriti in un valido contesto familiare restano ai margini della comunità e i poveri sono ritenuti incapaci, per il loro stato di assoluta dipendenza dalla beneficenza privata o dalla munificenza pubblica, di determinarsi liberamente. Quanto all’esclusione dei nuovi abitanti, essa è probabilmente legata al timore che la crescente mobilità geografica, soprattutto dalle campagne verso i centri urbani, condizionasse troppo gli equilibri sociali e politici che si andavano costituendo attorno alle sempre più potenti corporazioni cittadine. 

Nella visione di Grozio, gli uomini liberi che hanno accesso al potere sono, dunque, i membri riconosciuti e riconoscibili della comunità (non nuovi abitanti), dotati di un livello decoroso di condizione economica. Nel perimetro del potere, in sostanza, ha acquisito piena facoltà di collocarsi la classe dei “nuovi ricchi”, la borghesia mercantile che nel XVII secolo sta già cambiando il volto economico, sociale e culturale dell’Europa.

7) Da queste diverse visioni della struttura del potere (in uno con la diversa concezione del rapporto tra Legge Naturale e Ragione Umana) deriva la radicale differenza tra i due filosofi circa la natura della legge come atto d’imperio.

Per l’utopista Campanella non v’è dubbio: la legge è tale se ha il consenso di tutti ed è il riflesso della razionalità divina:

[Afor.32] La legge è il consenso della ragione commune di tutti, scritto e promulgato per il bene commune e conformato alla ragione eterna.”

Al lapidario aforisma 32, corrisponde una altrettanto lapidaria postilla numero 13:

“Non vedo il motivo per cui gli editti di uno solo o di pochi che comandino, senza che si aspetti il consenso del popolo, non debbano meritare il nome di leggi. Infatti, nemmeno i medici, nel prescrivere farmaci, attendono e ricercano il consenso del malato”

Il sano realismo di Grozio rimette subito in chiaro su quale debba essere la prospettiva giuridico–politica da utilizzare per i nuovi tempi. Non una utopica “Ragione commune di tutti”, ma l’utilità concreta perseguita, in uno con la provenienza dal potere costituito, conferiscono ad un comando la dignità di legge.

La preoccupazione di Grozio, in verità, non è infondata. In Campanella la deriva “democratica” si spinge fino all’auspicio di un egualitarismo che non può essere accettato assolutamente né dall’aristocrazia, già in crisi di rappresentanza, né dal nuovo ceto borghese:

“Afor.40] Le leggi deono mettere l’equalità, nutrice della republica, togliere l’inequalità consumatrice, perché: L’uguaglianza tra i cittadini è frutto delle leggi.

La postilla 19 non lascia dubbi circa la incolmabile distanza tra i due pensatori.

Per Grozio l’ineguaglianza tra i cittadini non solo è una condizione oggettiva, come si è potuto notare nella postilla n. 5, dove l’elencazione degli esclusi dal potere appare come una registrazione, forse anche poco condivisa, di una dinamica sociale esistente di fatto. Entro certi limiti, infatti, l’ineguaglianza appare a Grozio addirittura auspicabile, essendo più funzionale al buon andamento della società:

Ciò che qui si dice riguardo all’ineguaglianza, non si deve ritenere che riguardi in generale qualsiasi cosa; né infatti da corde dello stesso tipo potrebbe nascere armonia, ma solo da corde molto gravi.”

La preoccupazione groziana, dunque, non riguarda tutte le sfere della condizione umana. L’ineguaglianza può essere tolta, ma in un ambito diverso dalla politica (e in realtà astratto rispetto alle concrete dinamiche sociali); basta che si salvaguardi l’essenziale, e cioè la conservazione dell’armonia sociale, ossia della pace e sella coesione sociale, per le quali l’ineguaglianza appare più funzionale.

È proprio questo il cuore del nascente pensiero politico borghese sugli assetti della società: le differenze esistenti tra gli individui hanno effettivo senso nel progredire delle cose; e il “buon funzionamento” dello Stato postula, per la nuova classe borghese, che ciascuno cooperi in ragione del proprio reale peso sociale.

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