Ancora sulle devastazioni di Torino

Note critiche su uno scritto di Marco Revelli

Giudico acuta ma poco condivisibile la riflessione di Marco Revelli sugli scontri e le devastazioni del 26 ottobre scorso a Torino, in coda alla mobilitazione dei commercianti contro le chiusure dei negozi. L’articolo è stato pubblicato dal sito on-line Volere la luna, che si distingue per l’intelligenza dei testi; ma stavolta le argomentazioni di Revelli – questa la mia impressione – colgono solo di sfuggita le necessità più stringenti dell’attuale fase storica.

Ovviamente, io concordo con l’affermazione che la cifra più autentica delle devastazioni di Torino, e dei connessi saccheggi, è antropologica e sociale, non politica e giudiziaria. E trovo più che giusto stigmatizzare le letture simmetricamente riduttive di quegli avvenimenti. A seconda dell’orientamento politico è stato infatti scritto che i giovani incappucciati erano fascisti e ultrà dello stadio o, al contrario, che erano frequentatori dei centri sociali e microdelinquenza della periferia.

Su questo Revelli ha perfettamente ragione: per quanto dicano qualcosa di vero, sono letture riduttive, e in qualche modo rassicuranti perché provano a spiegare le cose sul presupposto che nulla sia cambiato, grosso modo, negli ultimi 50, 60 anni.

Correttamente Revelli indica nel carattere intrinsecamente precario, umbratile e vaporoso dell’attuale sistema di produzione sociale – e dunque nell’attuale, disperante fase del capitalismo – la ragione profonda di una simile inattesa jacquerie. È stata cioè una rivolta già in partenza senza alcun obiettivo di ampio respiro, che si è consumata nel semplice atto di devastazione e di appropriazione. In sostanza: una violenta espressione dei desideri frustrati di consumo e della psicologia di massa più immediata dei momenti difficoltà collettiva, con le ritualità liberatorie e la costruzione del capro espiatorio.

Più in generale, considero decisivo guardare alla soggettività di quelli che hanno agito, prima ancora che alla fisionomia di coloro che hanno provato a sobillarli contro le misure (comunque confuse e contraddittorie) di contenimento della pandemia. Chi si è mosso non l’ha fatto perché qualcuno lo ha chiamato, ma ubbidendo alle ragioni storiche della sua condizione.

E però: quali sono queste ragioni? Basta dire, come in fondo fa Revelli, che queste ragioni sono quelle del corposo “non sense” generato dall’attuale articolazione sociale, che non si presenta più con le forme geometriche del XX secolo e somiglia invece a una dinamica compiutamente frattale? Basta dire che il venir meno delle connessioni sociali, traducendosi nel venir meno delle connessioni sul piano della coscienza e della conoscenza, ci ha portato nel mondo tendenzialmente babelico dell’oggi? E soprattutto: è sufficiente reagire a tutto questo semplicemente richiamando noi stessi al dovere epistemico e morale di porci a difesa della complessità dell’analisi e della bandiera delle “connessioni”?

Provo, dunque, a dire la mia.

Che l’articolazione sociale non si presenti più con le forme geometriche del passato è certamente vero. E anzi, la metafora della geometria è davvero utile per capire ciò che abbiamo oggi attorno, e nel cui ambito noi stessi siamo compresi.

Le figure geometriche euclidee hanno avuto da sempre il pregio della semplicità, essendo costituite da due dimensioni: il piano e le linee. Per meglio dire, da un’unica dimensione: quella del punto geometrico, che genera, col suo moto, tanto il piano quanto le linee.

Ma già tra Ottocento e Novecento, e poi con pienezza nel XX secolo, la geometria euclidea è stata affiancata da una meno intuitiva geometria non euclidea, quella delle curve geodetiche e dello spazio iperbolico. Che è stata poi ulteriormente complicata dalla costruzione dello spazio-tempo come reale dimensione fondativa della realtà.

Probabilmente una delle ragioni di fondo delle insufficienze della filosofia sociale del Novecento, come anche dei marxisti, è stato proprio il ragionare con una logica euclidea, quando si sarebbe dovuto già pensare con una logica non euclidea.

In altri termini, la struttura di ragionamento che, ad esempio, ci viene dalla matematica degli insiemi potrebbe dirci molto più, a proposito delle soggettività sociali, di quanto non dica il paradigma delle classi sociali articolate per chiare e definite linee geometriche.

Un insieme, infatti, è anzitutto un “insieme di sottoinsiemi”: con la particolarità che ciascuna entità si colloca – contemporaneamente, senza un prima e un poi – sia dentro il sottoinsieme che la comprende e sia dentro l’insieme che, a sua volta, ricomprende in sé quello specifico sottoinsieme, unitamente a tanti altri.

Non solo. Poiché gli insiemi e i sottoinsiemi sono tendenzialmente molteplici, l’essere in un posto e in un tempo e in una condizione verrà qualificato – contemporaneamente e senza un più o un meno – dall’appartenenza simultanea a una pluralità di condizioni collettive.

Si dirà: nulla di nuovo, è stato così da sempre. Tutti gli individui, d’altronde, appartengono simultaneamente a un determinato reticolo familiare, a una determinata comunità locale, a una determinata tradizione culturale e morale, a una determinata entità politica, a una determinata attualità storica… Certo, è sempre stato così.

Ma il punto è che questa compresenza di appartenenze, proprio le filosofie sociali del Novecento, e le stesse componenti maggioritarie del marxismo, l’hanno regolarmente ignorata o depotenziata. Hanno congetturato con insistenza una identità comunque prevalente, cui tutte le altre identità si subordinavano.

La conseguenza diveniva facilmente che si assolutizzava un aspetto della vita e si cancellavano gli altri. Fino al punto che la condizione operaia, quella che si costruiva dentro la dinamica della creazione del valore e della sua espropriazione, poteva ricapitolare in sé tutta quanta l’esistenza degli individui-lavoratori. Così come, sul versante opposto, la condizione borghese, col suo parassitismo sociale e l’individualismo esasperato, ricapitolava in sé tutta l’esistenza privilegiata possibile.

Esistenza subordinata ed esistenza privilegiata divenivano così entità fisse. In sostanza, figure geometriche.

L’azione umana che, nel corso del Novecento, ha provato ripetutamente a costruire un mondo armonico sulla base delle sue presunte articolazioni geometriche, ha tuttavia fallito l’obiettivo. Il mondo armonico non è stato costruito neppure dalle rivoluzioni che si sono avviate in nome della giustizia sociale.

Poiché è risibile l’idea dei “tradimenti progressivi”, così come anche l’idea tranquillizzante della semplice “immaturità dei tempi”, occorrerà convenire che qualcosa non ha funzionato nelle stesse intenzioni di partenza.

Per come la vedo io, la separazione delle trasformazioni economiche dalle trasformazioni politiche, e ancor più la separazione delle trasformazioni economiche e politiche da quelle di natura antropologica e culturale – ovvero, l’idea che il tempo della società nuova dovesse precedere cronologicamente il tempo della umanità nuova -, è stato il vero “tallone d’Achille” di tutti i tentativi di palingenesi del Novecento.

Oggi, nel XXI secolo, stiamo scoprendo un po’ tutti, e i marxisti con ancora più stupore degli altri, che non esistono le identità monocromatiche, e che le soggettività sono esse stesse plurime, anche quando le incarna lo stesso singolo individuo.

La qual cosa spiega perché un giovane sfruttato e precario di oggi, che non ha alcuna memoria storica del conflitto sociale novecentesco, possa tranquillamente disporsi, in rapida successione, alle jacquerie urbane, agli scontri insensati delle tifoserie di stadio e alla affannosa ricerca di un capro espiatorio qualsiasi.

Per chi guarda con gli occhi del Novecento, e della geometria euclidea, quel giovane articolerà, in questo modo, semplicemente il “non senso” della sua realtà fenomenologica rispetto alla ontologia della sua condizione sociale di “proletario sfruttato”.

Dal suo punto di vista, invece, cioè dal punto di vista che poi concretamente agisce, non v’è alcuna separazione tra quei momenti, poiché sono tutti ricompresi nel grande “insieme degli insiemi” del nostro tempo: la costitutiva precarietà dell’esistenza.

Si badi bene: non la semplice precarietà sociale, ma anche la precarietà culturale, la precarietà morale, la precarietà delle convinzioni politiche, la precarietà delle relazioni interpersonali, la precarietà dei reticoli comunicativi, la precarietà dei desideri e delle realizzazioni. In una parola: l’esistere moderno, o almeno l’esistere moderno del mondo occidentale o occidentalizzato.

La civiltà occidentale è divenuta intrinsecamente – ma anche giustamente, non vorrei essere frainteso – laica ed a-sacrale; e però, proprio per il suo radicale “antropocentrismo” – che resta comunque una dimensione positiva di libertà, lo sottolineo ancora – questo moderno essere umano si è ritrovato inaspettatamente sciolto dalla “visione del futuro” e più distaccato dalla pratica del “progetto collettivo” e dalla logica dei “tempi lunghi”.

Ma se il mondo è fatto in questo modo, non rischia di aver ragione chi, come Revelli, dubita della possibilità di riposizionare quel giovane all’interno di un percorso collettivo? Non sarà che davvero l’unica prospettiva rimasta sia proprio di resistere, con tetragona forza morale, sotto la bandiera epistemica delle “connessioni” novecentesche e col richiamo forte ai valori di solidarietà e di comune umanità?

Ad un tale dubbio io obietterei che sarebbe una resistenza votata in partenza alla sconfitta, proprio per le ragioni indicate dallo stesso Revelli: perché ci sono alte mura che impediscono alle nostre parole di arrivare alle orecchie di chi potrebbe (“dovrebbe?”) ascoltarle. E sono mura costruite dagli stessi potenziali ascoltatori, prima ancora che dal genio malefico dei poteri dominanti.

In tali circostanze, il nostro disporci “a quadrato” si tradurrebbe in una resistenza unicamente morale, che somiglia al “dixi et salvavi animam meam”. Servirebbe solo a metterci a posto con la coscienza.

Insomma, non è che insistendo sulla geometria euclidea contro la geometria non euclidea si possa davvero riconsegnare una dotazione di senso al mondo. Occorrerà piuttosto camminarci dentro con determinazione, in questo nostro nuovo Mondo non euclidamente strutturato.

Lo possiamo fare, e lo dobbiamo fare, un tale cammino; armandoci però di uno strumento efficace, che possa riannodare le identità plurime della catena dei sottoinsiemi. E dovremmo farlo con una pratica effettivamente capace di attraversare tutte quelle identità plurime, entrando e uscendo da ciascuno dei sottoinsiemi.

Si tratta, per dirla in una sola battuta, di agire il tema della “speranza”: di agirlo in tutte le circostanze di tempo e di luogo, e nella relazione immediata dell’incontro. Peer to peer, come dicono quelli che si interessano di informatica o di pedagogia: nel rapporto diretto e concreto, in un qui ed ora reali e non virtuali, con ciascuna singola persona.

Solo se ci sarà la pratica attiva dell’incontro, sarà forse possibile riavviare un cammino collettivo. Occorre far leva, insomma, sulla forza potente della speranza, che è un elemento comune a tutte le condizioni umane; depurandolo però dalle confusioni continuamente generate dal sentimento ambiguo del “desiderio”.

Il desiderio non è la speranza: si desidera per sé e non per gli altri; si spera, invece, un “qualcosa che avvenga”. E non la si avverte come offesa se magari la cosa avverrà anche per altre persone. Il desiderio si situa, perciò, dentro la relazione isolata dell’io col mondo; la speranza sta dentro una relazione aperta. Inoltre, il desiderio comincia e si sviluppa unicamente nel soggetto che desidera; la speranza, invece, nasce e vive nell’oggetto che si spera.

Siamo, allora, al punto decisivo di differenza tra come la vedo io e come la vede Revelli.

Per lui, alla fin fine, c’è un difetto di conoscenza. E ciò indipendentemente dal fatto che poi si illude di poter ripercorrere la via della conoscenza marcando semplicemente meglio le linee di connessione tra le diverse entità, tutte definite in partenza da chiare linee geometriche.

Per me, al contrario, la questione è di muoversi attivamente nell’incontro con le identità, sapendo fin dall’inizio che si tratta di identità con molte facce, e che perciò potremo incontrarle solo utilizzando una molteplicità di discorso. Le potremo incontrare (forse) attraverso la leva della speranza e con la pratica della condivisione.

È un percorso facile? Per nulla. È esposto allo stesso smacco di chi predica unicamente “le connessioni”? Forse no.

Forse no, perché non si propone di partire dalle relazioni degli esseri umani fra loro, ma dagli esseri umani in quanto tali, per come – soprattutto antropologicamente, e non solo socialmente e politicamente – sono stati definiti dalla modernità dispiegata del nostro tempo.

La quale modernità ci rende tutti diversi, ma tutti ugualmente ricompresi, sul piano delle relazioni politiche ed economiche, nel general intellect, nell’individuo produttivo sociale, nel corpo sociale che viene irreggimentato e che si auto-irreggimenta; e tutti ugualmente ricompresi, sul piano delle relazioni interpersonali, nella condizione dispersa, costitutivamente caotica ed atomizzata, che vediamo scompostamente muoversi in tutte le latitudini del nostro pianeta.

Si tratta di scommettere su qualcosa che non potrà mai essere dimostrato in anticipo: sul fatto che in questa oggettiva “condizione dispersa”, si annidi comunque la “voglia d’altro”, la speranza di una più umana condizione. Il “sogno di una cosa”, insomma.

Che attende “semplicemente” di essere scoperta come risorsa posseduta dalla notte dei tempi, per passare finalmente dal sogno al vivere reale.

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