1) La riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario da tempo sembra non essere più nelle dinamiche rivendicative del movimento operaio. Sembra aver perduto la sua potenzialità, come forza trasformatrice per cambiare, coi tempi di lavoro, la vita stessa e la società.
Questa percezione è oggi ancora più forte, sia per la difficoltà dei lavoratori a mettere in piedi percorsi di lotta, sia perché, nella nuova epoca di totalizzazione del rapporto di capitale, tutto, anche il tempo del non-lavoro, tende ad essere a disposizione esclusiva del capitale e della sua valorizzazione.
In breve, la riduzione dell’orario di lavoro, tanto agitata ed evocata nelle lotte del Novecento, è divenuta, nelle attuali condizioni, uno strumento effettivamente utilizzato dai capitalisti per ottenere maggiore flessibilità e sfruttamento dei lavoratori.
2) Una vera e propria decostruzione, quella operata dal capitalismo; che ha trasformato la riduzione dell’orario di lavoro, da mezzo per i lavoratori atto a mitigare lo sfruttamento e recuperare tempo di vita, in un meccanismo utile alla valorizzazione. E questo avviene ogni giorno, con sempre maggior intensità, attraverso contratti di solidarietà e part time verticali e orizzontali, volontari e non.
Il tutto è contrattato dalle organizzazioni sindacali maggioritarie con le aziende, come scambio per bloccare i licenziamenti dei lavoratori ricevendo meno salario.
Il “lavorare meno, lavorare tutti” degli anni ’70 e ‘80, che alludeva a un futuro migliore, che prospettava un’era in cui il lavoro costrittivo avrebbe pesato di meno nella vita delle persone grazie al progresso tecnologico e sotto la spinta delle lotte, sembra non attrarre più i lavoratori.
Ed anche sono lontani i tempi in cui la riduzione dell’orario di lavoro veniva inserita nei programmi elettorali, ed era persino causa della caduta dei governi, come avvenne sul tema delle 35 ore nel caso dell’ultimo governo Prodi.
Attualmente, invece, la durata del tempo di lavoro, declinata in una logica tutta capitalista, fatta di scambi, precarietà, decurtazioni salariali e contratti di solidarietà, è diventata, nella coscienza collettiva, qualcosa di non significativo. È divenuta un affare esclusivamente per il padronato.
Per i lavoratori, in sostanza, risulta essere un ammortizzatore sociale soft. Il male preferibile al peggio. Ma di fatto li immiserisce, frena la conflittualità dovuta ai licenziamenti, e il risultato è che con meno salario sono costretti a lavorare in nero per sbarcare il lunario, andando ad arricchire ulteriormente l’insieme dei capitalisti.
3) Ma se per i lavoratori la riduzione dell’orario di lavoro è scomparsa dagli orizzonti da raggiungere, in altri ambienti assolutamente inaspettati, istituzionali e non, se ne discute, eccome! Ovviamente, nella scia delle necessità del sistema.
Tra le voci più autorevoli che solo in questo ultimo periodo si sono dichiarati favorevoli a diminuire l’orario, troviamo la ministra del lavoro Nunzia Catalfo, il presidente dell’Inps Tridico, alcuni esponenti della maggioranza di governo del PD, il sociologo Domenico De Masi, ex consigliere per il lavoro del movimento 5S, il neosegretario della Uil Bombardieri ed altri appartenenti alle varie organizzazioni sindacali maggioritarie.
Resta contraria la Confindustria, che con le sue pressioni ha fatto bocciare la proposta inserita nel decreto rilancio nel mese di maggio, presentata appunto dalla ministra del lavoro Catalfo.
4) Tuttavia, il padronato, come chiarisce tra le righe il presidente di Confindustria Bonomi, pur bocciando la misura proposta dal governo, e dichiarandosi contrario, aspetta comunque di trarre dalla riduzione dell’orario affari vantaggiosi in termini di flessibilità nell’organizzazione del lavoro, bonus, sgravi fiscali e quant’altro serva a valorizzare il capitale.
La Confindustria da questa attesa ha ben da sperare, poiché negli ambienti favorevoli a ridurre l’orario, le proposte ruotano sostanzialmente intorno a una riorganizzazione del lavoro tutta funzionale al sistema.
Le nuove necessità sociali e produttive del capitalismo devono andare incontro, di fatto, alla IV rivoluzione industriale, quindi al passaggio dal lavoro analogico-meccanicizzato a quello digitalizzato-robotizzato negli uffici e nella produzione.
Questa nuova epoca è iniziata qualche decennio fa e ora aspetta di essere realizzata con i suoi risvolti sociali. Su questo s’arrovellano le classi dominanti in Italia, e non solo.
La nuova modernità, infatti, oltre a portare ad un aumento ulteriore della valorizzazione del capitale e a richiedere un’adeguata formazione, comporta un aumento molto sostenuto della disoccupazione. Le nuove tecnologie legate all’intelligenza artificiale renderanno a breve obsoleti ed inutili circa tre milioni di posti di lavoro solo in Europa.
5) È una prospettiva che potrebbe creare problemi di tenuta sociale. Qualificati esponenti PD dell’attuale maggioranza avevano presentato già a febbraio scorso un emendamento finalizzato a rendere più agevole la redistribuzione del lavoro che c’è, qualcosa di simile ai contratti di solidarietà, pensando con tale misura di allontanare un probabile conflitto sociale. La ministra del lavoro Nunzia Catalfo, da parte sua, ha puntato invece ad una riorganizzazione del sistema produttivo supportata dalla formazione per l’uso delle nuove tecnologie: le ore di formazione sottratte alla produzione, nelle intenzioni della rappresentante del governo, dovevano essere comprese nell’orario di lavoro attuale e sostenute dallo Stato.
Come detto, le pressioni di Confindustria hanno bloccato l’esperimento. Ma non è detto che la cosa non venga ripresa, come sollecitato dall’attuale segretario Uil Bombardieri nel discorso di investitura come responsabile dell’organizzazione.
Questo sollevare da più parti la necessità della riduzione dell’orario di lavoro è certo dovuta alla crisi pandemica (che sta funzionando da acceleratore) e al lavoro digitalizzato e robotizzato, che sta rendendo inservibile il vecchio orario di lavoro della fase fordista–taylorista, effettuato per lo più nelle ore diurne nella produzione. Tanti uffici vanno ora avanti anche con lo smart working, che pure pone l’esigenza di essere riorganizzato per ridurre i costi, avere maggiore flessibilità e produttività, distribuendo i lavoratori su tutto l’arco delle 24 ore, con più turnazioni.
6) Non c’è traccia, nei ragionamenti e nelle dichiarazioni dei favorevoli di parte governativa e sindacale a ridurre l’orario, dei sovraprofitti che il padronato ricava dalle flessibilità, con l’uso delle nuove tecnologie e con meno personale da impiegare nella produzione e negli uffici. Né c’è discussione, nel dibattito, sul punto decisivo che emerge da queste trasformazioni: e cioè che, con lo sviluppo della tecnica – lo affermano gli stessi economisti e centri studi filopadronali -, il lavoro vivo veramente necessario, quello che serve per riprodurre la vita materiale del lavoratore, diviene adesso appena di due ore; e le restanti ore di lavoro producono solo profitto, capitalizzazioni e sprechi.
Non si discute, insomma, sul fatto che il progresso tecnologico si traduca in vantaggio esclusivamente per il capitale, mentre per il lavoratore si delineano solo pericoli: per non pochi di essi c’è la prospettiva dell’espulsione dal ciclo produttivo poiché il loro lavoro è sussunto dal sistema macchinico e ciò li rende inutili per il sistema capitalistico.
7) Ma proprio perché si delinea un tale scenario, la riduzione dell’orario di lavoro diventa per i lavoratori un elemento cruciale per la difesa e l’emancipazione della propria condizione. È una questione che va strappata all’uso profittevole che si appresta a fare il capitale e che va riconsegnata alla coscienza collettiva. Una leva, insomma, che cambia la società e con essa lo stato di cose presenti.
La riduzione dell’orario di lavoro deve significare guadagnare tempo di vita, deve tradursi in miglioramento reale della condizione di vita dei lavoratori. Non è una questione che può essere condivisa con padroni, manager e dirigenti istituzionali che hanno come orientamento la crescita all’infinito del capitale e l’aumento del P.I.L. a discapito dei lavoratori, della società e dell’ambiente. Non è pensabile, nella prospettiva che si va delineando, che abbassando le pretese si difendono meglio i lavoratori.
È una convinzione sbagliata, e lo si vede anche dalle statistiche: solo nel 2019 i contratti di solidarietà sono aumentati del doppio rispetto agli anni precedenti, arrivando a 775 ossia nell 62% di tutti i decreti firmati per crisi industriali; e le ore di cig richieste dalle aziende nel 2019 sono state 259 milioni, con un aumento del 30% di quella straordinaria. Ed ancora: il reddito di cittadinanza è usufruito da 1 milione e 119 mila persone (dati Inps) e i disoccupati e inoccupati, secondo le tabelle istat, sono circa 6 milioni. Tutti dati che indicano un peggioramento delle condizioni delle classi subalterne già nel precovid, E tutti sappiamo di come siano peggiorate nell’attuale fase pandemica.
8) Di fronte a questa catastrofe sociale, le 28 ore settimanali (a parità di salario), già sperimentate in alcuni luoghi di lavoro, diventano una prospettiva realistica per arrivare a una equa e generalizzata ripartizione dei carichi di lavoro. E per mitigare almeno la disoccupazione e le ingiustizie.
E va appena ricordato come la riduzione dell’orario di lavoro sia anche una lotta densa di liberazione umana, poiché rappresenta una delle condizioni materiali per un altro vivere sociale, più dignitoso per tutte e tutti.