Da Platone in poi, i filosofi, allo stesso modo delle persone comuni, hanno adoperato il vocabolo altro soprattutto come strumento descrittivo della realtà. In tale accezione, l’alterità è una leva fondamentale per la definizione di tutte le cose, in quanto narrate da un soggetto, che per scelta, per necessità o per destino, si trova a relazionarsi con esse, e che a sua volta è già visibilmente ‘altro’ rispetto agli oggetti di cui parla. Il concetto di ‘altro’ esplica così una azione di distinzione.
Se io enuncio la parola ‘mondo’, o la parola ‘uomo’, o la parola ‘sapere’, potrò sicuramente arrivare a precisarle senza ricorrere subito alla parola altro; e però, in mancanza del lavorìo di destrutturazione e ricostruzione che il concetto di ‘altro’ immediatamente attiva, si tratterebbe di un enunciato affacciato per mera impressione, che avrebbe bisogno di essere comunque spiegato. Così io posso dire che il mondo è l’insieme di tutte le cose, ma potrò specificare veramente questo concetto solo se vi aggiungo, implicitamente quanto meno, l’idea che il mondo è tutte le cose che sono ora, e che cioè sono altro dalle cose passate, quelle che non sono più, e altro dalle cose future, quelle che ancora non sono venute. E, analogamente, potrò dire che l’uomo è l’essere dotato di ragione, in quanto è costitutivamente altro dalle condizioni della pura biologia e della pura vitalità vegetale e animale. Ed infine, potrò dire che il sapere è la spiegazione del mondo, proprio in quanto è altro dal fantasticare e dal sognare.
In breve, c’è una funzione nel discorso che il concetto di ‘altro’ svolge, e tale funzione è il distinguere. Attraverso la dimensione dell’altro si differenzia cosa da cosa, concetto da concetto, discorso da discorso.
Ma la distinzione, considerata in sé e per sé, non esaurisce l’attività dell’altro, poiché come esso distingue, al tempo stesso identifica. E identifica anzitutto il ‘me che parla’. Anzi, prima ancora della distinzione tra gli oggetti che stanno di fronte a me, la condizione dell’altro fonda la possibilità medesima del discorso, ponendo da un lato il soggetto che discorre e, dall’altro, l’oggetto che è discorso; e a questo punto la distinzione non concerne semplicemente il contenuto dei discorsi che si fanno, ma direttamente la coscienza primigenia, quella che nasce nell’atto dell’io che guarda le cose altre, le quali sono da lui guardate. Insomma, l’altro rinvia immediatamente al me, ed anzi è assolutamente necessario per la mia stessa fondazione.
Nonostante la preoccupazione di Emmanuel Lévinas sull’imperialismo del medesimo, nonostante il suo grido di allarme sul pericolo del “disoccultamento” irrimediabile dell’altro, allorché viene fagocitato dal me, la costruzione dell’identità deve necessariamente, almeno in primissima battuta, ridurre l’altro a puro strumento per l’autodefinizione del sé. E ciò proprio nel senso indicato, a suo tempo, da Hegel, per cui una cosa arriva a caratterizzarsi solo in un percorso storico, come risultato dell’incontro con l’altro da sé; e anzi, la dimensione della identità vive proprio in quanto attività perennemente dinamica, ovvero come “ritorno in sé dal suo essere altro”.
Ovviamente, nella riduzione strumentale dell’altro, il soggetto – essere umano, essere vivente, materiale inerte, discorso, concetto, ecc. – non solo rischia di ipostatizzare la condizione della ‘lotta per l’esistenza’ che denunciava Sartre o di perdersi nel puro ascolto sentimentale dell’essere tematizzato da Heidegger, ma si realizza sempre e solo ad un primo livello, come puro ‘soggetto inerte’. Per divenire ‘soggetto pieno’, e cioè identità reale, che agisce realmente e produce effetti reali, avrà bisogno di rinvenire nuovamente l’altro, ma stavolta in tutta la propria alterità.
Ed è proprio tale processo di rinvenimento dell’altro nella sua alterità, che la filosofia contemporanea ha provato in vario modo a descrivere, vedendolo all’opera sia attraverso le dinamiche operazionali (per esempio, Jacques Derrida) e sia attraverso le connessioni culturali, storiche e antropologiche che sussistono tra gli ambiti della pre-esistenza, esistenza e post-esistenza.
L’interrogativo di riferimento riguarda le possibilità effettive, per noi esseri umani, di andare oltre il ‘ciò-che-è-già’. Rispondere in modo affermativo ad un simile interrogativo non solo ci pone in obiettiva posizione critica nei confronti di Michel Foucault e Jacques Lacan, che propongono un ‘io’ perennemente implicato da ciò che lo precede, ma ci obbliga anche a scegliere tra la rivendicazione della ‘individualità’ (Deleuze, Guattari, Baudrillard) e la sottolineatura del ‘collettivo’ non-oppressivo che ci viene da taluni pensatori marxisti-eretici, come ad esempio Max Horkheimer. In entrambi i casi, l’identità che ne viene fuori si concretizza in un doppio movimento: di uscita al di fuori delle ‘condizioni date’ e di approdo alle ‘condizioni altre’ che l’esistenza medesima concorre a costruire.
Il nodo teoretico, lo si intuisce facilmente, diventa, a questo punto, quello della ‘possibilità’. E qui si situa la tesi di fondo di questa rapidissima riflessione. Propongo, infatti, di considerare la possibilità come l’autentico prius, come il punto di scaturigine del movimento reale; e cioè come l’opposto di quanto viene rappresentato dalla opinione spontanea, che tende a declinare la possibilità solo in stretta connessione con i dati di fatto, in lineare assonanza con le cose già esistenti e definite. È possibile realizzare qualcosa di nuovo – così si argomenta – solo se le condizioni date lo permettono. Il risultato, cioè, dipenderebbe esclusivamente dalle premesse.
Orbene, io suggerisco di capovolgere questa visione, provando a congetturare il percorso contrario: il ‘risultato’ si alimenta certamente della concreta situazione di partenza, ma va iscritto soprattutto nell’orizzonte delle cose che, pur pensate (e dunque pensabili), ancora non sono. Sono esse a fungere, per così dire, da polo attivo, da ‘attrazione magnetica’ nei confronti di qualsivoglia identità, la quale è solo temporalmente definita. Nel movimento delle cose che passano incessantemente da uno stadio all’altro, occorre, per dirla in breve, considerare il protagonismo umano, la qualità specifica dell’esser-soggetto di ogni essere umano e dell’umanità nel suo complesso.
Beninteso, i dati di fatto sono certamente indispensabili affinché io o qualsiasi altro mio simile assumiamo un orientamento costruttivo; nel senso che il soggetto consegue l’attitudine costruttiva esattamente in quanto reagisce nei confronti del mondo che c’è. E reagisce per più ragioni: perché si sente insoddisfatto della sua spontanea collocazione nell’insieme delle cose che esistono; perché diviene progressivamente consapevole di poter essere altro dalla forma in cui si ritrova; perché può desiderare in astratto un’altra condizione e porsela di fronte; perché può arrivare ad avvertire come imperativa ed urgente un’azione specifica che dia corpo all’inveramento ulteriore della sua provvisoria identità in formazione.
Ma l’attitudine costruttiva, e la reazione al mondo-dato che la genera, appartengono ancora alla identità inerte; o meglio, esse sono l’identità inerte già disposta ad uscir fuori dalla propria inerzia. E però, il risultato effettivo, ovvero il superamento delle condizioni di partenza e l’approdo ad un novum, diventa realmente possibile solo in quanto esiste davvero, nel novero delle cose-che-non-sono-ancora, uno specifico ‘qualcosa’ che posso guadagnare veramente con la mia azione; e la mia azione può materializzarsi, a sua volta, proprio perché quel ‘qualcosa’, già per il solo fatto di esistere come possibile, mi consegna un effettivo potere di realizzazione.
Si tratta di una prospettiva che recupera con convinzione la elaborazione del concetto di ‘possibile’ lasciataci da Ernst Bloch nel suo straordinario “Principio-speranza”, inclinata però più pienamente nel senso della praxis marxiana, e soprattutto in direzione del paradigma dialettico della totalità, per come esso ci è stato consegnato dalla linea che da Hegel arriva fino a Lukàcs e poi a Marcuse. E che tesaurizza, per aggiunta, la modernità dispiegata dei nostri giorni, ovvero l’essere umano così potenzialmente ricco di possibilità che caratterizza questo nostro tempo storico, nonostante la crescita della barbarie e delle oppressioni.
In sostanza, la possibilità va riferita all’essere umano e alla sua azione. O meglio, all’uomo-che-si-riferisce-al-mondo e che già prefigura, in questo suo riferimento, la traiettoria del futuro. Il possibile si situa, così, nel soggetto e non negli oggetti che gli stanno attorno. E ciò può avvenire, e continuamente avviene, proprio perché il soggetto umano non è semplice ‘cosa tra le cose’. Egli è, invece, un insieme unico e inestricabile di pathos e logos. È cioè perennemente in bilico tra lo spazio del non-ancora e la speranza che lo attraversa: una sorta di docta spes e di ‘utopia concreta’ che muove tutti gli esseri umani, appunto in quanto tutti, verso un mondo-altro, magari confuso e contraddittorio ma univocamente avvertito come migliore di quello che c’è.