1. La svolta neoliberale e la crisi della democrazia rappresentativa
A partire dalla seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso una serie di eventi di portata epocale ha scosso le solide fondamenta dell’assetto economico e politico della società consolidatosi dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Questo assetto coincideva con la diffusione della democrazia rappresentativa liberale, saldamente ancorata ad una fase di intensa costituzionalizzazione delle società occidentali uscite dalle macerie della guerra. Il costituzionalismo liberale novecentesco aveva trovato nel corso della ‘Grande Crisi del ‘29’ il suo modello di riferimento nel new deal roosveltiano, dando vita a quello che sarebbe stato definito come il ‘compromesso keynesiano’. Una società fortemente massificata trovava nella democrazia liberale rappresentativa un punto di equilibrio capace di offrire gli strumenti utili a mediare le forti tensioni sociali prodotte da uno sviluppo economico senza eguali nella storia. Il compromesso keynesiano si basava essenzialmente sulla capacità, costituzionalmente definita, di mediare il conflitto sociale attraverso la costruzione di istituzioni capaci di regolare le istanze di progressiva espansione dei diritti sociali provenienti in particolare dal mondo del lavoro. La costruzione del welfare state, unita ai processi di costituzionalizzazione del lavoro, garantiva – nonostante i periodici sussulti e l’elevata conflittualità sociale – la salda tenuta delle istituzioni democratiche di fronte alle pretese autoregolative del mercato. La fine di questo assetto politico ed economico coincide, per dirla in breve, con alcuni fenomeni di portata globale, che intervengono a mutare il quadro delle relazioni sulle quali tale sistema si basava. In primo luogo, nell’agosto del 1971, il presidente americano Nixon decideva per lo sganciamento del dollaro dall’oro, ponendo fine al sistema dei cambi fissi stabilito dagli accordi Bretton Woods. In secondo luogo, due anni dopo, la crisi petrolifera doveva imporre un brusco freno all’espansione economica occidentale, fondata su di una struttura dei consumi progressiva (boom economico), e l’avvio di politiche di ‘austerità’. In ultimo, le fortissime pressioni sociali redistributive – in particolare gli aumenti salariali – avevano avuto ricadute inflattive particolarmente gravi per l’equilibrio economico. Questo insieme di fattori critici venne puntualmente registrato dal rapporto della Commissione Trilaterale nel 1974, in cui veniva per la prima volta analizzato il problema della ‘governabilità’ delle democrazia occidentali a fronte delle insistenti pressioni sociali redistributive[1].
La svolta neoliberale della società ha preso quindi avvio nel corso degli anni ’80, trovando particolare riscontro nelle riforme dei governi Reagan e Thatcher, che hanno dato avvio a processi di intensa rimodulazione degli assetti complessivi della società. La mondializzazione ha poi impresso alla svolta neoliberale una velocità di penetrazione capillare in ogni area del globo. La liberalizzazione dei movimenti finanziari, unita alle trasformazioni dei sistemi produttivi, ha imposto una crescente accelerazione ai processi di smantellamento del sistema fordista-keynesiano. La grande fabbrica ha infatti ceduto il posto all’economia di rete, in cui il sistema delle relazioni industriali è stato fortemente modificato in favore di un modo di produzione in cui assume egemonia il settore dei servizi e del lavoro ‘immateriale’[2].
2. Il ‘giano bifronte’ del pubblico e del privato
La svolta neoliberale dell’economia contemporanea ha imposto una notevole trasformazione non solo degli assetti politici e istituzionali della società, ma anche dei paradigmi concettuali intorno ai quali essa era venuta costruendosi lungo il corso di diversi secoli. Tra questi, le categorie di ‘pubblico’ e di ‘privato’ – e i loro corrispettivi istituzionali, lo Stato e il mercato – sono oggi sottoposte a notevoli tensioni critiche, nonostante esse abbiano rappresentato il polo di un’alternativa che il compromesso keynesiano era riuscito a regolare con una certa efficacia. Per quanto riguarda il pubblico-statuale, la sua crisi coincide con la progressiva erosione della sovranità dello stato-nazione che, a partire dal 1648 (pace di Westfalia), aveva rappresentato la chiave di volta di un certo equilibrio nell’organizzazione dei poteri a livello internazionale. Si pensi, a titolo d’esempio, alla sovranità monetaria, elemento cardine delle politiche economiche nazionali: oggi nessun governo nazionale è in condizioni di gestire la propria moneta con discrezione sovrana. Lo statuto della Banca Centrale Europea, da questo punto di vista, parla chiaro: la moneta viene gestita da un’autorità indipendente dalle decisioni dei governi nazionali. Inoltre, all’interno dei processi di mondializzazione, è cresciuto il numero degli attori globali (privati) capaci di esercitare una forte influenza – quando non una vera e propria forma di commissariamento – nei riguardi dei governi nazionali (FMI, WTO, Banca Mondiale, etc.). La crisi dei debiti sovrani – come nel caso della Grecia nel 2015 – ha mostrato con notevole evidenza quanto tali organismi possano, sulla base di meccanismi creditizi, imporre ricette economiche agli stati nazionali senza passare attraverso le procedure parlamentari della decisione politica. Da un lato, quindi, il pubblico-statuale è sottoposto a notevoli spinte disgregatrici, dovute all’azione di organismi per lo più privati, che ne impediscono la capacità di mediazione. Dall’altro lato, invece, anche la dimensione del privato (intesa con riferimento al mercato come luogo della produzione e dello scambio finalizzato al profitto) è sottoposta alle conseguenze di un’economia sempre più basata su processi di cooperazione, che rendono la cattura privata del profitto il prodotto di espedienti giuridici esterni al circuito produttivo[3]. Due esempi su tutti: il primo riguarda ciò che Carlo Vercellone chiama il ‘divenire rendita del profitto’, il fatto cioè che le grandi imprese economiche trovano occasioni di profitto nei mercati azionari piuttosto che nella produzione materiale di ricchezza[4]. È così che il denaro viene generato dal denaro, senza passare attraverso la mediazione di un circuito produttivo in profonda crisi di sovrapproduzione. Il secondo è rappresentato, invece, da un vero e proprio paradosso: quanto più la dimensione economica acquisisce una prevalenza decisiva nella società, tanto più ci si accorge dell’esistenza di forme di vita (cooperazione), di circuiti dello scambio (sapere), di istituzioni sociali (welfare), che solo a prezzo di un’evidente forzatura possono essere organizzate e gestite secondo una logica privatistica. Si fa qui riferimento a tutte le difficoltà con le quali è possibile imporre un’ottica privatistica a fonti di ricchezza – come il sapere e la conoscenza o come la gestione di servizi essenziali per la vita di una comunità politica – che sono tanto più produttive quanto più sono affidate alla libera cooperazione. Tali fonti di ricchezza possono essere messe a valore e mercificate solo grazie ad espedienti giuridici ‘esterni’ alla loro produzione immediata (brevetti, copyright, etc.) e che sempre più spesso bloccano la loro effettiva produttività.
3. Oltre il pubblico e il privato
Queste brevi considerazioni rappresentano il contesto all’interno del quale la tematica dei beni comuni ha acquisito una importanza sempre crescente. Per come viene posta all’interno del dibattito contemporaneo, la questione dei beni comuni riguarda precisamente il tentativo di superare – o quantomeno di problematizzare – la dicotomia pubblico/privato che ha orientato i dispositivi economici, politici e giuridici della modernità e che oggi avrebbe raggiunto un apice critico irreversibile. La riflessione sui beni comuni muove infatti da una domanda fondamentale: esiste una possibilità di pensare l’organizzazione della società oltre la dicotomia tra pubblico e privato? Da questo punto di vista, un primo approccio alla tematica dei beni comuni consiste nell’inquadrare tale problematica in una prospettiva storica, che faccia luce sulla genesi del pubblico e del privato come orizzonti della razionalità politica, economica e giuridica della modernità. Fondamentale, al riguardo, è il riferimento ai lavori del giurista italiano Ugo Mattei, secondo il quale pubblico e privato non rappresenterebbero un’alternativa, ma le due facce di un medesimo processo storico che, a partire dal XVI secolo, ha imposto il diritto pubblico come l’altra faccia del saccheggio privato dei commons, la cui origine sarebbe da ricercare nella tradizione giuridica medievale degli usi civici[5]. Il riferimento di Mattei è al fenomeno storico che Karl Marx ha descritto – nel capitolo XXIV del libro I de Il Capitale – come ‘accumulazione originaria’, ovvero quel processo di privatizzazione attraverso il quale l’uso comune delle terre, tramite le enclosures, è stato sostituito dall’appropriazione privata come base per una nuova configurazione del diritto proprietario. Da quel momento in poi avrebbe avuto origine, secondo Mattei, l’istituzione del diritto pubblico come legittimazione del ‘saccheggio’ privato. Mattei ricostruisce la genesi della sovranità statale, che si sarebbe costruita proprio sul modello romano della proprietà esclusiva del suolo: l’ordinamento sovrano, nel rapporto tra lo Stato e il suo territorio, prodotto successivamente alla pace di Westfalia (1648), sarebbe stato ricalcato «su quello ben più antico della proprietà fondiaria romana, una forma di appartenenza assoluta del pater familias sul suo fondo rustico»[6]. È a partire da questo apparato concettuale attinto alla tradizione romana del dominium che lo Stato moderno avrebbe soppiantato l’esistenza di un diritto dei beni comuni. Il diritto pubblico – secondo Mattei – avrebbe incorporato una nozione di proprietà derivata dall’ambito privatistico. A differenza della modernità giuridica, in cui prevale un orientamento unitario centrato sullo stato sovrano, il medioevo risultava essere caratterizzato, secondo Mattei, da un sistema sociale pluralistico e policentrico, in cui nessuno spazio era concesso all’idea moderna di proprietà individuale. Mattei non esita a definire il modello giuridico medievale come ‘ecologico’, nel senso che, a differenza della modernità giuridica fondata sulla dialettica tra soggetto (individuo proprietario) e oggetto (la cosa appropriabile), esso avrebbe posto al centro le esigenze di una comunità in equilibrio dal punto di vista del rapporto di sussistenza con il proprio ambiente:
La descritta economia di sussistenza era incompatibile con una percezione della realtà fondata sull’individuo. Era, infatti, il ruolo svolto nella cooperazione sociale all’interno di gruppi ristretti che determinava lo status di ciascuno. Tale cooperazione sociale si svolgeva per lo più localmente su un determinato territorio, che costituiva ad un tempo il fondamento e il limite geografico dell’economia. Per utilizzare da subito le categorie che stiamo elaborando, possiamo dire che tale territorio era costituito dall’aggregato di beni comuni, che rendevano possibile tanto l’esistenza umana quanto la sua riproduzione; il bosco, che offriva legname, bacche, funghi e selvaggina; i fiumi e i torrenti, che offrivano acqua, pesci e possibilità di trasporto[7].
E l’elenco potrebbe proseguire includendo anche i campi da pascolo e le terre liberamente coltivabili in comune dai contadini, secondo la tradizione degli usi civici. In sostanza, a parere di Mattei – in questo in buona compagnia di autorevoli storici del diritto del calibro di Paolo Grossi – l’ordine giuridico medievale non è individualistico, bensì ‘reicentrico’: esso poneva al centro la ‘cosa’ e non il soggetto che se ne appropria escludendone altri. Da qui la conclusione di Mattei:
La sovranità statale e la proprietà privata hanno struttura identica, quella dell’esclusione e dell’arbitrio sovrano. Entrambe non sopportano limitazioni, se non quelle dettate dall’esigenza di convivere con altri sovrani (proprietari o Stati) su territori contigui. […] Proprietà privata e Stato moderno divengono alleati naturali contro il comune, come dimostrato dall’epopea delle enclosures[8].
4. Il ‘comune’ come sfera pubblica non statuale
È proprio ad una nuova ‘accumulazione originaria’ che fanno riferimento Antonio Negri e Michael Hardt per spiegare gli assetti produttivi del capitalismo contemporaneo[9]. Secondo i due autori, infatti, la fase attuale del capitalismo sarebbe caratterizzata da nuove forme di appropriazione privata della ricchezza sociale. La finanziarizzazione dell’economia, secondo Hardt e Negri, sarebbe il sintomo di una privatizzazione crescente delle condizioni in cui si svolge la produzione di ricchezza nella società contemporanea. Tale privatizzazione – affermano i due autori – opera come un meccanismo di cattura della cooperazione sociale che è alla base dell’economia capitalistica odierna; economia che pone al centro l’egemonia del lavoro cognitivo, immateriale e affettivo come nuovo perno del modo di produzione contemporaneo. La tesi che sostengono Hardt e Negri è che il ‘comune’ sul quale oggi si esercita l’appropriazione privata è rappresentato da quell’insieme di diritti sociali che, nel corso del Novecento e grazie alla lotta di classe, lo Stato sociale era stato costretto a garantire: istruzione, sanità, trasporti e mobilità, il lavoro di cura e di servizio, ovvero quelle che gli autori definiscono come le ‘condizioni di possibilità della società’, le ‘produzioni dell’uomo per l’uomo’. La privatizzazione del welfare e la patrimonializzazione dello stato sarebbero così l’effetto di nuove enclosures. Secondo Hardt e Negri, il ‘comune’ sarebbe oggi la forma principale nella quale si presenta il modo di produzione capitalistico: attraverso la finanziarizzazione, il capitalismo odierno opera per espropriare la ricchezza prodotta da una cooperazione sociale, che vede come protagonisti del nuovo modo di produzione una ‘moltitudine’ di nuove soggettività di lavoratori. La configurazione globale dei poteri è orientava verso una progressiva patrimonializzazione delle strutture pubblico-statuali; è così che le finalità dell’accumulazione capitalistica vengono piegate alle regole dell’appropriazione privata diretta di ogni bene pubblico:
In questo processo, la finanziarizzazione ha imposto la sua logica al mondo intero, facendo della crisi il fondamento del suo stesso modo di funzionare. È un processo, quello della finanziarizzazione, di inclusione della cooperazione, del comune cognitivo e sociale, e poi di esclusione, cioè di estensione del modo capitalistico di produzione a mercati pre-capitalistici, e di successiva espulsione e pauperizzazione di coloro che in questo processo sono stati privati dell’accesso ai beni comuni. Una sorta di riedizione continua dell’accumulazione primitiva, di recinsione delle terre (beni) comuni e di proletarizzazione di masse crescenti di cittadini[10].
Da questa analisi Negri e Hardt fanno derivare una serie di proposte di trasformazione della società al fine di istituire una ‘democrazia del comune’, in cui la ricchezza prodotta socialmente possa essere redistribuita all’intera società – tramite l’istituzione del reddito di cittadinanza – e in cui i dispositivi di governo siano aperti alla partecipazione diretta dei lavoratori.
5. Il diritto ai beni comuni come ‘diritto di accesso’
Un primo e concreto tentativo di inquadrare giuridicamente i beni comuni è stato realizzato in Italia da un’apposita commissione – istituita con decreto ministeriale del 14 giugno 2007 – presieduta dal giurista italiano Stefano Rodotà. La commissione era stata incaricata di redigere una proposta di legge per la riforma della disciplina contenuta nel codice civile in merito alla classificazione dei ‘beni pubblici’. La commissione ha avuto il merito di porre, per la prima volta in ambito istituzionale, il problema della definizione dei beni comuni, intesi come “cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona”. Il punto di partenza dell’analisi che Rodotà ha offerto dei beni comuni riguarda la formulazione di una distinzione tra accesso e proprietà: secondo il giurista italiano, infatti, si può accedere ad un bene e goderne delle utilità senza assumere la qualità di proprietario[11]. È intorno a questa prospettiva che la commissione da lui presieduta ha lavorato nel tentativo di aprire il diritto al riconoscimento dei beni comuni. A differenza delle tesi di Hardt e Negri, che intendono disarticolare la proprietà privata, la riflessione di Rodotà è mossa dal tentativo di ripensarne in profondità lo statuto. In questa prospettiva, i beni comuni sarebbero da collegare ad un interesse generale relativo all’uso e alla fruizione di un determinato bene o servizio, indipendentemente dal titolo giuridico che ne stabilisce la proprietà. Rodotà afferma infatti che: «La proprietà non ha bisogno di essere confinata, come ha fatto la teoria liberale, nel diritto di escludere gli altri dall’uso o dal godimento di alcuni beni, ma può egualmente consistere in un diritto individuale a non essere escluso ad opera di altri dall’uso o dal godimento di alcuni beni»[12]. La riflessione di Rodotà rappresenta il tentativo di ripensare lo statuto della proprietà privata senza giungere ad un suo superamento, ma allargandone i confini anche al diritto individuale di godimento, e quindi di accesso, ad un bene. Da una proprietà ‘esclusiva’ si passerebbe così ad una proprietà ‘inclusiva’. Ne risulterebbe un cambiamento profondo: infatti, l’accesso ai beni comuni disegna una trama che ridefinisce il rapporto tra il mondo delle persone e il mondo dei beni. Se nella modernità il rapporto tra gli uomini e le cose era stato affidato alla mediazione proprietaria, oggi si tratterebbe per Rodotà di pensare ad un nuovo modo di concepire il rapporto con la ricchezza. La proprietà, pubblica o privata che sia, non può comprendere e esaurire la complessità del rapporto persona/beni: l’istituto giuridico dell’accesso, inteso come diritto fondamentale della persona, configura un nuovo insieme di diritti, da inquadrare nell’ambito dei diritti di cittadinanza.
6. Una tassonomia dei beni comuni
L’obiettivo di inquadrare una più dettagliata articolazione dei beni comuni in termini tassonomici proviene dalla giurista italiana Maria Rosaria Marella[13]. Secondo Marella, tra i beni comuni bisognerebbe annoverare:
– I beni materiali e naturali come l’acqua, l’ambiente, un bosco, ma anche un paesaggio o un bene di natura storico-artistica.
– I beni immateriali, come la conoscenza, investiti dall’ondata di nuove enclosures attraverso brevetti e copyright (si va dalle creazioni intellettuali, ai geni, ai saperi tradizionali e alle tradizioni popolari).
– Alcune istituzioni erogatrici di servizi oggetto di diritti sociali: la sanità, l’università, l’istruzione pubblica, il sistema dei trasporti, etc.
– Lo spazio urbano, anche quest’ultimo oggetto di politiche di spossessamento e di saccheggio sia sul piano abitativo e immobiliare (gentrification), sia sul piano della mercificazione di intere aree urbane.
Nella prospettiva di Maria Rosaria Marella, questa tassonomia aprirebbe al problema della concreta articolazione di un possibile ‘diritto dei beni comuni’. In primo luogo, tale tentativo dovrebbe partire, secondo Marella, dall’assumere la mancanza di un regime giuridico proprio dei beni che si definiscono commons. Ciò implicherebbe la diversità delle strategie da adottare per affermare la loro natura di bene comune. A differenza di Ugo Mattei, infatti, Marella afferma l’esistenza di una ‘tensione verso il comune’ sia all’interno dell’odierno diritto pubblico (vedi artt. 42 e 43 della Costituzione italiana in merito alla cd. ‘funzione sociale’ della proprietà), sia all’interno del diritto privato (è il caso del diritto di proprietà sui propri geni, teso a contrastarne l’appropriazione da parte delle case farmaceutiche e dei centri di ricerca privati a fini di profitto; ma è anche il caso delle pratiche riconducibili al copyleft o creative commons, che predispongono una sorta di via di fuga, per svuotamento dell’interno, dalla logica del diritto di autore, senza formalmente contrastare l’esistenza della sua disciplina). Un secondo aspetto del diritto dei beni comuni sottolineato dalla Marella dovrebbe riguardare il legame tra la risorsa (o servizio) e la comunità di riferimento. L’individuazione della comunità di riferimento è infatti essenziale ai fini della definizione dello statuto di commons di un bene o servizio. L’uno sarebbe costitutivo dell’altra e viceversa. Si tratta di un punto di notevole difficoltà, in quanto la comunità di riferimento si modifica non solo a seconda del bene o servizio in questione, ma anche del tipo di relazione che tra questi si instaura: l’insieme delle persone che lavorano/studiano in una scuola; la popolazione residente in un dato quartiere, la popolazione di una metropoli, una comunità nazionale o addirittura l’intera umanità. Si pone cioè anche un problema di ‘scala’, in cui sarebbe difficile elaborare modelli validi universalmente. Inoltre, la questione della comunità appare alla Marella come un punto scivoloso, in quanto essa, anziché favorire processi di emancipazione, potrebbe favorirne altri tesi invece ad accentuare il carattere di esclusione (gated community). Insomma, secondo Marella, la riformulazione dell’idea di comunità dovrebbe procedere di pari passo con l’affermazione dei beni comuni. L’ultimo punto sottolineato dalla Marella riguarda, infine, il problema della gestione, che per i beni comuni dovrebbe essere collettiva e partecipata. Marella cita come esempi concreti la ripubblicizzazione del servizio idrico a Napoli (ABC, Acqua bene comune), e l’esperimento della fondazione Teatro Valle Occupato a Roma. Sul terreno delle articolazioni pratiche, secondo Marella, la proposta licenziata dalla Commissione Rodotà sconterebbe notevoli limiti, in quanto, se da un lato in essa si afferma il diritto di accesso ai beni comuni a prescindere dalla loro appartenenza – pubblica o privata – dall’altro individua nella persona singola il titolare dell’accesso, comportando una mortificazione nel riconoscimento dell’importanza dell’esperienza collettiva.
7. Beni comuni e democrazia: per chiudere senza concludere
A partire da queste brevi considerazioni risulta evidente come il tema dei beni comuni ponga con urgenza il problema istituzionale di una nuova forma di democrazia, adeguata alle sfide del nostro tempo e alla crisi che da molto tempo accompagna i rituali della democrazia rappresentativa. Lo svuotamento dei canali classici della rappresentanza politica, così come le difficoltà sempre maggiori di arginare i fenomeni corruttivi, impongono infatti la necessità di pensare in termini nuovi le modalità di esercizio della democrazia. A questo proposito, Pierre Rosanvallon ha parlato di ‘controdemocrazia’ per esprimere la necessità di istituire nuove pratiche di sorveglianza, di interdizione e di giudizio, attraverso le quali i cittadini possano esercitare un controllo attivo verso il potere formalizzato negli organi rappresentativi e di governo[14]. Il tema dei beni comuni potrebbe rappresentare, da questo punto di vista, un utile strumento proprio per elaborare strategie efficaci per estendere e consolidare la partecipazione dei cittadini alla sfera pubblica.
BIBLIOGRAFIA
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U. MATTEI, Beni comuni. Un manifesto, Roma-Bari, Laterza, 2011.
[1] Cfr. M. J. Crozier, S. P. Huntington, J. Watanuki, La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione Trilaterale, trad. Vito Messana, Milano, FrancoAngeli, 1977.
[2] Cfr. M. Lazzarato, Lavoro immateriale. Forme di vita e produzione di soggettività, Verona, Ombre Corte, 1997.
[3] Cfr. A. Fumagalli, S. Bologna, Il lavoro autonomo di seconda generazione, Milano, Feltrinelli, 1997.
[4] Cfr. C. Vercellone (a cura di), Capitalismo cognitivo. Conoscenza e finanza nell’epoca postfordista, Roma, Manifestolibri, 2006.
[5] Il riferimento è a U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Roma-Bari, Laterza, 2011.
[6] Ivi, p. 9.
[7] Ivi, pp. 26-27.
[8] Ivi, p. 45.
[9] Cfr. M. Hardt, A. Negri, Comune. Oltre il pubblico e il privato, Milano, Rizzoli, 2011.
[10] A. Negri, A proposito di costituzione e capitale finanziario, in A. Arienzo, G. Borrelli (a cura di), Dalla rivoluzione alla democrazia del comune. Lavoro, singolarità, desiderio, Napoli, Cronopio, 2015, pp. 11-26, p. 14.
[11] Cfr. S. Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e i beni comuni, Bologna, Il Mulino, 2013.
[12] S. Rodotà, Il diritto di avere di diritti, Roma-Bari, Laterza, 2012, p. 37.
[13] Cfr. M. R. Marella (a cura di), Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, Verona, Ombre corte, 2013.
[14] Il riferimento è a P. Rosanvallon, La controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia, Milano, Castelvecchi, 2012.