E’ dinnanzi a Roma città aperta, pellicola del ’45 a firma di Roberto Rossellini che si apre, nella cinematografia italiana un nuovo capitolo. Che si rivelerà, troppo presto, purtroppo, solo una parentesi.
Ma veniamo al film, al suo valore oltre che estetico, soprattutto ideologico e concettuale. E la sua funzione,(politica e sociale) che ricoprirà un ruolo di primissimo ordine nel panorama non solo italiano ma internazionale. Il momento è significativo oltre che significante: il recente passato dittatoriale da un lato, le devastazioni morali e materiali della guerra appena conclusasi dall’altro.
E, la difficoltà evidente, di fare cinema. Tutto è distrutto, ma soprattutto lo sono le coscienze.
La prima riflessione necessaria, perché intellettualmente onesta è che Roma città aperta è un film epico, questo aldilà di ogni rivisitazione o interpretazione si voglia attribuirgli . E, come tutti i grandi classici, subisce la medesima sorte, cioè quella di rivivere e morire, di volta in volta, nel fiume delle interpretazioni che si sono succedute sin dalla sua primissima proiezione, vale a dire nell’autunno del ‘45. Rivivere e morire, quindi, in un oceano di attribuzioni, di definizioni, che non tardano a ripetersi con una puntualità quasi ossessiva e che non accennano ad interrompersi, nemmeno oggi. Il film ha assunto, per certi versi giustamente, per altri incomprensibilmente, una sorta di patina leggendaria, all’interno della quale sembrano spesso essersi perse la genuine e reali intenzioni dell’opera. Essendo investiti da una miriade inverosimili di accezioni ed interpretazioni, vagli e revisioni, si incorre con molta facilità e con logica in un pericoloso e inevitabile
«già detto, già sentito» in cui l’oggetto viene sproporzionatamente caricato di accezioni interpretazioni, di letture eccessive, spogliandolo delle veraci intenzionalità. Questa analisi
vuole sottolineare le motivazioni morali e le istanze sociali che sottendono l’opera, cercando, di individuare alcune sue caratteristiche portanti, i topoi,e, con il riferimento ad alcune espedienti tecnici e stilistici adottati dal regista, si tenterà di ricapitolare il messaggio antifascista e solidaristico presente nel film.
E’ una delle più fortunate espressioni del Cinema al servizio dello Stato, ovvero L’etica dell’estetica neorealista, perché come ci ricorda magistralmente Lino Miccichè, più di mezzo secolo di distanza ci permette in maniera maggiormente documentata e con una serenità storiografica di gran lunga superata, la possibilità di potersi elevare al di sopra di tutte quelle sterili polemiche che hanno alimentato i dibattiti e le controversie sul movimento. Una continuità acritica quella che ha caratterizzato gli sviluppi delle cinematografie post belliche dei vincitori, la nostra posizione di «vinti cobelligeranti con i
vincitori» atipica ma la nostra posizione storico politica contribuì a dare al cinema italiano un o statuto molto particolare. Perché si accompagna ad una rottura col passato recente, con l’estetica del passato recente, con quella che è stata definita Il Fascismo di
pietra da Emilio Gentile. Un vuoto che si è cercato di colmare con l’architettura delle grandi opere, che si riflettevano con la stessa puntualità e in modo sfarzoso nel cinema. L’esigenza di rifiutare l’apparenza, l’imbonimento delle platee, il continuare a negare il
presente per eludere i problemi e distraendo le masse, affinché il presente continuasse a vivere indisturbato.
Anche a livello di politica internazionale, come dichiarò scherzando, ma neanche troppo, lo stesso Rossellini: «Roma città aperta giovò più di tutti i discorsi del nostro ministero degli esteri a far riavere all’Italia il suo posto nel concerto delle nazioni». Riabilitò l’immagine dell’Italia e soprattutto degli italiani agli occhi del mondo.
La capitale d’Italia, Roma, dichiarata città aperta, attende trepidante l’arrivo degli
Alleati. E’ una città ancora sotto il giogo dei fascisti. Molto cinicamente non si poteva chiedere set migliore: le strade, le case, i palazzoni parlano da soli. Si esprimono, catturando lo sguardo del pubblico, senza aver bisogno di essere forzati, formalizzati. Se da un lato intuisce mirabilmente l’esigenza di alcune precise rinunce, indulge in svariati tratti e affonda al patrimonio estetico e narrativo imperante fino a qualche anno prima. Forse è proprio questo scarto, questa via di mezzo a colpire il consenso di un pubblico intorno a questo tematiche, risultato che non sarà mai più raggiunto. Forse è questo suo
porsi a metà strada fra documentario e fiction a riscuotere larghi ed irripetibili consensi. Nonostante alcune posizioni non proprio positive della critica, per fare un esempio, Antonio Pietrangeli sulle pagine del settimanale Star scrisse che «una simile compagine di elementi reali andava portata a una condizione espressiva, andava trasfigurata e dissolta in una corrente lirica, andava secondo l’espressione di un fine critico letterario «portato in posizione di canto». La nuda e cruda citazione, l’osservazione del vero, la trascrizione – per quanto incisiva fedele di un fatto – non basta. Si rimane nella cronaca». Questa critica
solleva alcune considerazioni importanti: critica più generale al Neorealismo. Si intende in quest’analisi, evidenziare in prima istanza la natura solidaristica dell’opera. Perché, il primo spunto di riflessione ci viene servito dallo stesso Rossellini che, ad una sollecitazione di Francois Truffaut rispose d’istinto: «Il mio neorealismo altro non è che
una posizione morale racchiusa in tre parole: l’amore per il prossimo».
Questo è, a ragion veduta, uno dei fil rouge già presenti nelle primissime opere del regista che diverrà una costante dei suoi successivi lavori. Sottolineare il pathos e la funzione narrativa di alcune sequenze è particolarmente importante per tentare di analizzare i punti di forza del film, quelli che ne hanno consacrato il trionfo narrativo ed estetico. E’ anche vero che il contesto storico sociale ed ideologico in cui si muove il film, è un’occasione unica nel vero senso della parola e Rossellini, dimostra di avere il fiuto necessario per coglierla e “sfruttarla al meglio delle possibilità creando un mixaggio inequivocabilmente vincente”. L’impianto narrativo giovane è basato sull’ avvicendarsi di sequenze che conferiscono un ritmo incalzante al film, come lo staccodalla finestra al livello della strada quando arrivano le SS a perquisire il caseggiato. E’ una costruzione diversa quella che ci troviamo di fronte, in cui esiste una dilatazione spazio
temporale inusuale, in cui la scena si fa, è in fieri sempre. Ed è la novità assoluta che farà della scuola italiana un esempio, come lo erano state la scuola sovietica degli anni venti o l’espressionismo tedesco.
L’audacia del film consiste nell’aver lasciato agli spazi il tempo di parlare. Oggi per noi è un dato di fatto acquisito ma basti pensare al fatto di lasciare la macchina parlare, che gli attori diventino insieme spettatori e protagonisti. Si rivoluziona un’estetica, una forma
mentis di fare cinema. E’ come se si scegliesse la strada di Lumiere e non quella di Meliès, insomma. L’enfasi che nasce da alcune sequenze, non è “calcata particolarmente”, nonostante, per esempio, il momento della falciata a colpi di mitra di Pina, sia scandita da un montaggio e da inquadrature e sonoro un po’ accentuato. Ma, nonostante la potenza del momento, tutto sembra tornate a un’apparente normalità narrativa, noi, abituati a un cinema di finzione ci aspetteremmo la stasi, il trionfo del silenzio narrativo dopo la forza del momento.
La seconda parte, rispetto alla prima, subisce delle fasi di caduta, riprendendo forza e vigore attraverso la crudezza delle immagini della tortura, in quella stanza che diventa il simbolo della follia nazista e della Resistenza e integrità degli italiani. Costretti a convivere in uno spazio, con l’occhio della provvidenza con Don Pietro che si affaccia e condanna senza appello i nemici in casa propria. Dell’ultima sequenza se ne è parlato tanto, un po’ come tutte le infinite attribuzioni che ogni capolavoro richiede ed evoca inevitabilmente. Anche questa volta, nonostante sia l’epilogo concettuale e narrativo del film, la sequenza è realizzata senza l’enfasi attesa, ma contraddistinta dall’occhio, l’occhio della macchina e l’occhio dei ragazzi, l’impotenza della macchina cinema e l’impotenza dei ragazzi, dietro una rete di recinzione, a voler sottolineare il distacco ancora una volta tra le bestie naziste e l’ingenua popolazione, che può, se memore del proprio passato, incamminarsi verso un
mondo, ancora tutto da farsi, con la cupola della grande capitale aperta e liberata. L’immagine della cupola che si staglia con tutta la sua forza, l’ottimismo della fede. Quello della solidarietà. Anche l’aver rappresentato l’occhio delle nuove generazioni attraverso il ricorso ad un gruppo non è casuale, riporta all’idea della forza di cooperazione, dellainvincibilità della cultura romana, inattaccabile e inintaccata dalla brutture degli stranieri.
E’ una straordinaria affermazione del mezzo cinematografico, delle potenzialità meccaniche del mezzo che non bisogno di intercessioni, e che in senso intimo, essenziale della poetica neorealista. L’intuizione di Rossellini, di coniugare la realtà e la storia in un’efficace via di mezzo, ponendo l’una al servizio dell’altra, senza che l’una prevalga sull’altra, creando una commistione perspicace e interessante.
Probabilmente l’aspetto di unione perfetta che mancherà nella realizzazione di opere troppo radicali neorealiste successive.