L’abitudine all’orrore

Reputo senz’altro utile il moltiplicarsi delle pubblicazioni – in verità, poche volte sorrette da una indagine storiografica rigorosa – a proposito delle sofferenze che alcune minoranze etniche e linguistiche patirono per colpa della dittatura staliniana, in particolare durante la Seconda guerra mondiale. Si tratta, sovente, di narrazioni e testimonianze, e però anch’esse adatte a colmare i vuoti che, per svariate ragioni, si sono cumulati nella memorizzazione del Novecento. Ma quei vuoti vanno riempiti con sobrietà, senza pregiudizi ideologici e politici; e, soprattutto, senza mai perdere di vista l’insieme delle vicende che hanno segnato il “secolo breve”, che è stato davvero terribile e grandioso, e così lungamente rosso di sangue e di speranze. E che, purtroppo, stenta a passare. Incombe ancora, senza quasi lasciarci respirare, giusto un passo dietro le nostre spalle.

IL CASO DEI TARTARI

Tra le vicende che cominciano a riveder la luce ci sono quelle che vissero le minoranze etniche e linguistiche, e cioè non russe e non russofone, della penisola di Crimea. Il caso più significativo, anche perché si trattava della comunità di gran lunga più numerosa, è stato quello dei tartari, i quali nel 1944, dopo che i russi riconquistarono la penisola e costrinsero alla ritirata definitiva l’esercito tedesco, furono deportati nella Russia asiatica, in particolare nell’attuale Uzbekistan. Oltre 200.000 persone furono costrette a lasciare le proprie case ed obbligate ad un viaggio terribile, segnato da morti e sofferenze.

Si trattò di una pesantissima prova per una comunità che aveva già conosciuto le discriminazioni della Russia zarista, perché di religione islamica.

Formalmente dipendente dall’impero ottomano, almeno per la maggior parte della sua storia, il Kanato tartaro e sunnita di Crimea era esistito giuridicamente per tre secoli e mezzo, dal 1441 fino al 1783. Finì nel 1783, dopo una ennesima vittoriosa guerra della Russia contro il Sultano di Istanbul, il cui esito fu appunto l’annessione della Crimea alla Russia. Molti tartari, vessati dall’amministrazione zarista, emigrarono nei decenni successivi verso l’impero ottomano, in Turchia e in Bulgaria soprattutto. C’erano un milione e passa di tartari in Crimea prima del 1783; un secolo dopo ne rimanevano poco più di 200.000. Di fatto, lungo il corso dell’Ottocento i tartari si ridussero progressivamente a un quarto della popolazione totale della Crimea, riempitasi invece di coloni russi. Così, all’avvio del Novecento, la Crimea appariva ampiamente russificata e contava quasi un milione di abitanti.

Questo retroterra complicato aiuta a capire – ma solo in parte, beninteso – sia la posizione assunta dalla maggioranza dei tartari durante la guerra civile degli anni 1918 – 1922, allorché parteggiarono ampiamente per le armate bianche contro il potere dei Soviet, e sia le concretissime manifestazioni di collaborazione con gli occupanti dopo l’invasione nazista della Russia, negli anni che vanno dal 1941 al 1944.

Ce lo fa capire solo in parte perché, nel periodo tra il 1917 e la Seconda guerra mondiale, la loro effettiva vita quotidiana non era stata per nulla diversa da quella di tutte le popolazioni dell’immenso paese: soffrirono molto, come tutti, per la grande carestia del biennio 1921-1922, che falcidiò forse il 15% della popolazione della Crimea, e poi conobbero un decennio almeno di lenta ripresa. Inoltre, come tutte le altre molteplici comunità etniche e linguistiche della Russia, godevano di una relativa autonomia. All’interno della Federazione, e poi Unione delle repubbliche socialiste sovietiche, era stata proclamata, infatti, la Repubblica socialista sovietica autonoma di Crimea, e in essa le lingue ufficiali erano sia il russo che il tartaro. Ed anzi, buona parte dei dirigenti di tale Repubblica erano tartari. Negli anni ‘20 e fino all’inizio degli anni ‘30 ci fu anche una qual certa rinascita di vita nazionale, con un teatro in tartaro e la pubblicazione di giornali.

Tutto ciò ebbe una brusca battuta d’arresto con le grandi purghe staliniane degli anni ’30, con le grandi repressioni del 1933 e poi soprattutto del 1937. Anche tra i tartari arrivò la cappa di piombo staliniana; ma le brutalità, il soffocamento della vita culturale, gli arresti e le fucilazioni non avvennero, neppure in questo caso, con una logica di oppressione della nazionalità tartara in quanto tale. Come abbondantemente noto, ma questo è un argomento che esula dal nostro discorso, furono anni terribili per l’intera Russia. E lo furono in particolare per gli stessi comunisti. Le purghe staliniane liquidarono l’80% del gruppo dirigente bolscevico che aveva fatto la rivoluzione. Prestigiosi capi comunisti, da Bukharin a Zinoviev, per citare solo i più noti, finirono davanti al plotone di esecuzione; e fu decimato spietatamente il gruppo dirigente intermedio del Partito Comunista e il quadro superiore dell’Armata Rossa. Gli oppositori di Stalin, in gran parte comunisti di antica e provata fede – il nome più illustre resta senz’altro quello di Lev Trotzkji, assassinato nel 1940 a Città del Messico, dove viveva in esilio -, furono perseguitati in tutti i modi. La Russia aveva cominciato la rivoluzione con l’obiettivo di costruire una società più giusta e più umana e si trovò nel pieno di una ferrea, crudele dittatura.

Dentro questo quadro, anche in Crimea la situazione per le minoranze divenne difficile. Non direttamente per la loro condizione di minoranze etniche e linguistiche, ma per il clima generale di sospetto che il potere centrale sviluppava nei confronti di tutti gli aspetti della società. Diveniva sospetto anche chi continuava a mantenere una diversa tradizione linguistica e culturale. Ma questo spiega solo in parte, in piccola parte, le simpatie dei tartari per il nazismo. Ci fu qualcosa di più, in effetti. Mi riferisco ad un vischioso risentimento identitario e nostalgico, di carattere etnico-religioso, che covava da tempo sotto la cenere, anche da prima della Rivoluzione d’Ottobre.

Del resto, sollecitazioni a combattere una violenta jihâd a fianco dei nazisti giungevano esplicitamente proprio da una importante autorità sunnita, Amīn al-Ḥusaynī (o Husseini), Gran Muftī di Gerusalemme e leader, negli anni ’30 e ‘40, del Congresso Islamico Mondiale. Costui visse a Berlino il periodo della guerra, in sodale amicizia soprattutto con le SS di Himmler, e fu molto attivo nel promuovere l’alleanza politica e militare tra i tedeschi e le varie comunità islamico-sunnite dei Balcani, dell’Asia Minore, del Caucaso e della Crimea.

Dieter Wisliceny, aiutante di Adolf Eichmann e condannato all’impiccagione per crimini contro l’umanità, additò al processo di Norimberga proprio nel Muftī uno dei più accaniti fautori dello sterminio sistematico degli ebrei europei. Testualmente: “Era uno dei migliori amici di Eichmann e lo spronava costantemente ad accelerare il processo di sterminio”. In ogni caso, i seguaci del Muftī di Gerusalemme furono particolarmente attivi nella costituzione delle brigate musulmane delle SS, come appunto quella dei tartari di Crimea, composta da diverse migliaia di combattenti che si distinsero per ferocia.

È alla luce di questi passaggi storici drammatici che va letta la deportazione crudele del maggio 1944, attuata con brutalità contro l’intera comunità tartara, in una logica punitiva generalizzata. Nel contesto spietato di una guerra spietata, si consumò una vera e propria “vendetta di Stato” contro l’intera comunità, anche contro chi non aveva fatto parte dei battaglioni sanguinari dell’esercito nazista, quelli che meritavano davvero una punizione per le loro atrocità, a cominciare dal fatto che non facevano prigionieri. Si realizzava di fatto una ennesima “pulizia etnica” dei territori, con lo sradicamento di circa 240.000 persone dalle loro città e villaggi, che venivano dispersi nelle steppe desertiche dello Uzbekistan, alle prese con condizioni durissime di vita, con carestie e malattie che causarono migliaia di morti. E solo negli ultimi decenni i tartari sono potuti ritornare in Crimea, nella loro vecchia terra. Attualmente vi risiedono in circa 270.000.

LA PICCOLA COMUNITÀ ITALIANA DI CRIMEA

L’ho presa larga, parlando di tartari di Crimea, perché la loro vicenda ha qualche punto in comune con la dolorosa deportazione della piccola comunità italiana, un’altra delle minoranze etniche e linguistiche della Crimea, e ciò a partire dal fatto che solo da qualche anno se ne parla.

Non è che in assoluto non si sapesse dell’insediamento nel tempo degli italiani in Crimea; ma esso è stato considerato, forse per i numeri ridotti, un fatto tranquillamente e lungamente trascurabile; sicché gli stessi storici della Seconda guerra mondiale hanno poi raramente accennato alla autentica odissea vissuta dai circa 5.000 oriundi italiani residenti nel 1941 nella penisola, in buona parte nella città di Kerč‘.

Si tratta di una emigrazione che risale agli inizi dell’Ottocento. È vero che in precedenza, a partire dal 1266, i genovesi avevano costruito i loro insediamenti portuali nel Mar Nero e segnatamente in Crimea. Caffa (o Caifa), quella che oggi si chiama Feodosija, fu per qualche secolo il porto più importante del Mar Nero, ed era una roccaforte genovese. Tra l’altro, è probabile che giusto da quel porto fosse arrivata in Occidente, sul finire del 1347, insieme al grano, e proprio su navi genovesi, la grande pandemia di peste che devastò dapprima Messina e poi, a partire dall’anno dopo e fino al 1353, tutta l’Italia e tutta l’Europa. Esattamente la stessa peste nera adombrata nel Decamerone di Giovanni Boccaccio.

In ogni caso, la presenza dei genovesi, e in parte anche dei veneziani, che a loro contendevano la supremazia in quell’area, fu sostanzialmente cancellata nel corso del XV secolo dalla conquista turca di tutte le coste del Mar Nero e della stessa penisola di Crimea. Da quel momento, come abbiamo visto, ci sarà il Kanato di Crimea fino al 1783.

L’emigrazione italiana in Crimea ricomincia, invece, nella prima metà del XIX secolo, e nasce in conseguenza della fuga in massa di quasi quattro quinti della popolazione tartara dopo l’annessione del 1783. I paesi e le campagne all’avvio dell’Ottocento apparivano largamente spopolati. L’intera penisola, che pure era meta ambita dei soggiorni estivi della nobiltà russa e importante zona strategica sul piano militare, versava in uno stato di abbandono. Lo zar Alessandro I promosse allora una nuova emigrazione da ovest, in particolare dalla Grecia e dal Regno delle due Sicilie, per ripopolare e sviluppare la penisola. Chiedeva soprattutto contadini ed artigiani, ma poi verranno anche ceti professionali e intellettuali. All’invito della delegazione ufficiale che giunse a Napoli nel 1820 risposero soprattutto i pugliesi di Molfetta, di Trani e di altre città costiere dell’Adriatico, ma anche non pochi campani.

Fu una corrente migratoria che restò nell’ordine delle migliaia, non veramente di massa; e però sufficiente a costituire degli espliciti nuclei italiani, in particolare pugliesi, in diverse località e soprattutto nella città di Kerč. Alla fine del 1800 le statistiche imperiali assegnavano alla comunità italiana poco meno del 2% della popolazione dell’ampia provincia di Kerč‘. Ed ancora un censimento delle autorità sovietiche del 1921 parla di un 2% della popolazione, sempre sull’intera provincia, con origini italiane. Questi italiani avevano conosciuto una qual certa prosperità lungo tutto l’Ottocento, dediti all’artigianato di qualità e all’agricoltura specialistica, nonché al commercio. Uno zio di Giuseppe Garibaldi, prospero commerciante, fungeva, sulla metà del secolo, da “aiuto rappresentante” del Regno di Sardegna.

Dopo la rivoluzione dell’ottobre del 1917, le vicissitudini della piccola comunità furono simili a quelle dell’intero, immenso corpo della Russia. Il potere sovietico fu proclamato, si vararono misure di abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, il che significò la statalizzazione delle grandi e delle medie aziende, e poi, in progressione, fu imposto alle sconfinate campagne russe, spezzando con la forza la resistenza dei contadini più agiati, il sistema dei kolchoz, le fattorie collettive, e dei sovkhoz, le fattorie di Stato.

Come in tante altre città della Russia, anche tra gli italiani le famiglie più ricche, timorose degli espropri, preferirono tornarsene rapidamente nella patria d’origine e si stabilirono soprattutto Roma. Questo avvenne negli anni immediatamente a ridosso del 1917. Più tardi, nella seconda metà degli anni ’20, quando cominciò l’espropriazione dei contadini ricchi, i kulaki, e si avviarono i kolchoz nelle campagne, altre famiglie preferirono l’espatrio, costituendo una piccola colonia di profughi a Trieste, dove giungevano via mare attraverso la Turchia e la Grecia. La maggioranza però rimase, chi continuando il proprio artigianato o la propria professione, chi divenendo parte del kolchoz “Sacco e Vanzetti”. A loro si aggiunsero altri italiani, comunisti ed esuli antifascisti.

Non mancarono ovviamente le persecuzioni contro gli oppositori del regime anche all’interno della comunità italiana, ma queste avvennero soprattutto negli anni ’30, quando il potere sovietico portò a pieno compimento la sua deriva autoritaria, costruendo quello che poi gli storici chiameranno “totalitarismo”, o anche “cesarismo”, staliniano.

Si è trattato certamente di una dittatura violenta, che cancellò fisicamente l’insieme delle opposizioni, a cominciare da migliaia e migliaia di comunisti anti-stalinisti. In tale contesto, anche nella comunità italiana gli anni ‘30 furono anni duri. E tuttavia, persecuzioni su base etnica, rivolte specificamente contro gli italiani in quanto tali, non ci furono.

Queste avvennero, invece, dopo il 22 giugno del 1941, allorché iniziò la cosiddetta “Operazione Barbarossa”, e cioè l’invasione dell’Unione Sovietica da parte della Germania hitleriana, nonché dell’Italia fascista, che pure partecipò fin da subito all’invasione. Già nell’agosto del 1941 l’esercito di invasione italiano aveva il suo primo scontro armato con i russi.

Il punto è che è difficile capire la vicenda della deportazione degli italiani di Crimea, che si concretizzò soprattutto nella giornata del 29 gennaio del 1942, e poi ancora tra l’8 e il 10 febbraio 1942, se non si pone mente all’inedita tragedia che fu il fronte orientale. Era una guerra, dal versante dei nazisti, e in parte anche dei fascisti italiani, molto ideologica, combattuta con odio implacabile verso il comunismo e con l’obiettivo di affermare la superiorità razziale sugli slavi. Specialmente nella prima fase, raramente i tedeschi facevano prigionieri, e comunque avevano l’ordine di fucilare subito i funzionari del partito comunista russo.

Tutta la Seconda guerra mondiale è stata una sequela ininterrotta di barbarie e atrocità. Ma ciò che avvenne, per quattro anni, sul fronte orientale fu enormemente più sanguinoso e enormemente più spietato del conflitto nei paesi dell’Occidente, in Francia o in Italia. Del resto, anche solo il conteggio dei morti lo testimonia: su 56 milioni di caduti, militari e civili, che costituiscono il macabro risultato della guerra in Europa, in Africa, nel Pacifico e in Cina, circa 21 milioni furono di nazionalità russa. I soli prigionieri di guerra russi furono all’incirca 5 milioni e mezzo durante tutto l’arco del conflitto.  Di vivi non ne restarono, a fine guerra, che un milione (e forse ad essi si potrebbero aggiungere un altro milione arruolato dai nazisti nelle unità collaborazioniste). E il resto?

Ma al di là dei prigionieri, furono indicibili le sofferenze della popolazione civile. Nella sola Leningrado, per esempio, assediata per 900 giorni, la fame e il freddo colpirono molto più delle bombe e dei cannoni. Quasi 700.000 abitanti, circa 800 al giorno, morirono, spesso insepolti, tra le macerie; e forse ci furono perfino casi di cannibalismo sui cadaveri…

Dopo il 22 giugno del 1941 anche la Crimea fu investita dall’avanzata tedesca. Odessa fu assediata e resistette 73 giorni; Sebastopoli resistette per otto mesi. Quando ci fu la deportazione degli italiani siamo a questo: con la Crimea interamente conquistata, tranne Sebastopoli, che cadrà nel maggio del 1942 assieme all’ultimo lembo controllato dai russi, appunto la striscia di Kerč. Tra l’altro, proprio da quella cittadina i russi tenteranno l’ultima sanguinosa offensiva a sostegno di Sebastopoli, conclusasi con un autentico disastro.

Così, il 29 gennaio 1942, quando circa 2000 italiani sono costretti ad imbarcarsi sulle navi – e peraltro una di queste viene affondata dai tedeschi, con l’annegamento di equipaggio e deportati – la Crimea è quasi del tutto in mano agli invasori, i quali vi spadroneggiano coi loro disumani metodi, aiutati non poco, in questo, dalle unità collaborazioniste tartare. I deportati, sia quelli del 29 gennaio sia le altre centinaia rastrellate tra l’8 e il 10 febbraio del 1942, furono avviati verso il Caucaso; e di lì poi, con un viaggio lunghissimo, giunsero nei territori dell’attuale Kazakhistan. Stavolta la persecuzione era rivolta non agli oppositori, ma agli italiani in quanto tale.

Ma perché i russi se la presero con gli italiani, indipendentemente dalle loro convinzioni? Dal loro punto di vista era una ritorsione per l’aggressione dell’Italia fascista; ma era la logica barbara della guerra che stravolgeva il buon senso e rendeva ogni italiano d’origine sospetto di simpatie per la madrepatria e pronto ad aiutare gli invasori. Un po’ la stessa cosa successe ai giapponesi della costa orientale degli Stati Uniti, che furono tutti internati dopo Pearl Harbour, anche quelli nati in America da genitori, e finanche nonni, nati anch’essi in America.

Solo che le condizioni di vita, in questa Unione Sovietica diventata un inferno di guerra, erano terribili. E furono terribili anche nei Gulag dove furono inviati gli italiani, poi successivamente dispersi nei vari villaggi in piccole unità. La fame, la carestia, il freddo e la mancanza di riscaldamento attanagliavano in una ferrea morsa l’intera popolazione russa. Si moriva facilmente.

Oggi, dunque, se ne parla di quella odissea. Ed è giusto perché molti furono i morti, nell’ordine delle centinaia, forse alcune migliaia: vittime dell’inclemenza del clima, della fame, delle malattie, della brutalità dei carcerieri. Fu una sorte comune ai 300.000 di origine tedesca che vivevano in Russia, e che pure furono deportati nelle zone asiatiche allo scoppio della guerra; e comune a quella dei tartari, che abbiamo già ricordato.

E quelle deportazioni conobbero un’ultima fiammata nel giugno del 1944, quando i russi riconquistarono definitivamente la Crimea. I nazisti vi avevano tiranneggiato nel loro solito modo spietato, con uccisioni innumerevoli di partigiani o presunti tali, e di ostaggi. Gli animi erano inferociti da tutte le parti e quel giugno del ’44 gli italiani che ancora c’erano, tutti indiscriminatamente accusati di aver aiutato i tedeschi, furono presi e mandati a fare compagnia ai deportati di due anni prima.

In verità, i russi non fecero molte distinzioni, in nessuna delle tre ondate di rastrellamenti, tra comunisti e anticomunisti. Presero tutti, proprio in quanto italiani, sradicando un’intera comunità che da molti decenni, da circa un secolo, viveva in quei luoghi. Una persecuzione su basi etniche. Che però avvenne, e questo nell’indagine storica non può essere sottaciuto, nel fuoco di quella immane tragedia storica che fu la guerra sul fronte orientale.

L’ordine del giorno firmato da Stalin il 28 luglio del 1942, noto come prizak numero 227, ricordava senza perifrasi, a tutte le unità combattenti, l’estrema gravità della situazione: “Abbiamo perduto più di 70 milioni di abitanti, più di 800 milioni annui di pud di grano, più di 10 milioni annui di tonnellate di metallo. Non abbiamo più superiorità in risorse umane, né riserve di cereali… Se non smettiamo di ritirarci, resteremo senza pane, senza combustibile, senza metallo, senza materie prime, senza fabbriche, senza ferrovie”. E ovviamente, in questo quadro drammatico, la disciplina diventava severissima: “Codardi e seminatori di panico vanno fucilati sul posto… Nessun passo indietro senza ordine del comando”.

GLI INSEGNAMENTI CHE VENGONO DALL’ORRORE

Ma quali sono gli insegnamenti che da questo insieme tragico di avvenimenti è davvero possibile trarre oggi, in questi primi decenni del 2000, al cospetto di un secolo che sta venendo avanti con tratti forse ancora più angosciosi di quelli del Novecento?

Io credo, in primo luogo, che la conoscenza approfondita di tutte le tragedie grandi e piccole che abbiamo alle spalle serva soprattutto a farci comprendere che nelle guerre davvero si perde sempre. Perde anche chi vince; perde anche lui, soprattutto oggi che le guerre si caratterizzano non semplicemente come uno scontro tra eserciti ma come conflitti che hanno per bersaglio principale, dall’una e dall’altra parte, la popolazione civile. È con gli occhi di questo terzo protagonista, pochissimo contemplato nelle guerre del passato, e cioè la popolazione civile, che bisogna davvero guardare le cose. Di qui discende, non può che discenderne, la scelta di stare dalla parte degli inermi; e dunque la scelta di dire no alla guerra e alle logiche di guerra sempre e comunque.

Ci insegnano anche, queste indagini sul passato, un’altra verità: e cioè che le persecuzioni avvengono molto più facilmente in un contesto di guerra. Si perde il senso del limite; e i vincoli normali del buon senso e della socialità, per non dire della morale e del diritto, vengono infranti senza remore anche da chi, sul piano storico complessivo, combatte dalla parte “giusta”.

Ed infine c’è un terzo insegnamento: e cioè che nella ricostruzione degli avvenimenti bisogna fare molta attenzione alle parole.

E qui procedo con cautela, sperando che il discorso non venga frainteso.

Il punto è che nella Seconda guerra mondiale c’è stata davvero la pratica del genocidio: verso gli ebrei e verso gli zingari, soprattutto. Ma anche, in modo più limitato e concentrato nei luoghi, nei confronti delle popolazioni slave. Ed inoltre ci sono stati i massacri efferati. Ci sono state le deportazioni. Ci sono state le brutalità crudeli. Ci sono stati gli episodi innumerevoli di violenza feroce e gratuita. Come si vede è un elenco. Ma anche, proprio elencando questi orrori, li sto distinguendo l’uno dall’altro.

Esiste, in sostanza, una obiettiva, cinica gradazione dell’orrore. E se dal punto di vista morale, dal punto di vista della civiltà degli esseri umani, sono tutti orrori che vanno additati ugualmente come il peggio della vicenda umana, non bisogna però mischiare le parole. L’olocausto (la shoah) è l’olocausto. Una deportazione è una deportazione. Un massacro è un massacro. Sottolineo con particolare forza questo aspetto, perché c’è troppa faciloneria nel linguaggio, si fa un uso troppo iperbolico delle parole.

Intendiamoci: è senz’altro giusto indignarsi tanto verso un massacro gratuito, o un assassinio feroce, così come verso uno sterminio sistematico. Ma l’indignazione non deve confondere ciò che abbiamo davanti. Benché possa essere senz’altro plausibile che nella notte tutte le vacche diventino nere, se poi ci si ferma a questo puro dato, si farà molta, troppa fatica a distinguere il nero più nero quando esso si manifesterà per davvero. E nel nostro tempo, a distanza di decenni dalla Seconda guerra mondiale, oltre alle deportazioni, ai massacri e alle brutalità feroci, si è già davvero riproposta, in almeno due casi, la pratica effettiva del genocidio: in Ruanda; e parzialmente, in modo più episodico e limitato, nella ex Jugoslavia.

Ma soprattutto nulla vieta che possa ripetersi…

Ci stiamo abituando gradualmente ai morti che si moltiplicano: quelli che muoiono sotto le bombe, sia che vengano dal cielo sia che vengano da terra, con le macchine che esplodono o vanno addosso ai passanti; e ci stiamo abituando, atrocemente abituando, ai cadaveri nel mare.

Ma una umanità così fatta è pronta, forse già quasi pronta, per ripetere gli orrori di ottant’anni fa…

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