uno. Il termine “comunismo” nella tradizione marxista è stato sempre evocato in maniera confusa e ambigua. Lo stesso Marx non voleva scrivere “ricette per le osterie del futuro” e il più delle volte i marxisti si sono limitati a ripetizioni di descrizioni generiche (“il movimento reale che supera lo stato di cose presenti”) e di generiche prescrizioni (“da ciascuno secondo le proprie possibilità, a ciascuno secondo i propri bisogni”). Ma il sobrio rifiuto della vecchia abitudine utopistica di prescrivere maniacalmente le forme di convivenza si è trasformato sempre più in una comoda corazza ideologica con la quale giustificare dispotismi, cinismi e capovolgimenti di senso.
due. Le origini del termine sono proprie della cultura occidentale antica. Il comunismo – secondo diverse ricerche – si riferisce alla “comunità di compagni”, nel senso di persone che spezzano il pane insieme (cum-pane). La matrice storica e simbolica del comunismo occidentale sarebbe dunque la mensa comune dei primi cristiani, sull’esempio di Gesù e dei suoi apostoli. La mensa comune era soltanto il momento culminante della vita comune (koinovion), modello ereditato dalle culture precedenti ed esaltato dall’epicureismo.
tre. Questo comunismo metteva in comune solo il consumo e non la produzione. Nelle condizioni tecnologiche del tempo, in assenza della produzione meccanizzata di massa moderna, ed in presenza della piccola produzione artigianale ed agricola, il comunismo era pensabile e praticabile solo come comunismo del consumo, e non come comunismo della produzione. In tutto il Novecento è stato, invece, un assioma indiscutibile il fatto che – al contrario – il comunismo del futuro dovesse innanzitutto “socializzare la produzione”. In realtà, intanto a questa socializzazione ci ha pensato il capitalismo nella sua fase di sviluppo imperialistico con il modello fordista della grande produzione di massa. E proprio questa “collettivizzazione” forzata dell’industrialismo nel secolo breve è stata la base per la costruzione dell’assioma di cui sopra: la grande fabbrica centralizzata si è presentata come l’ultima frontiera dello sviluppo, destinata ad assicurare la massima potenza sociale degli agenti della produzione ed è sembrato abbastanza “logico” che questa dimensione fosse la base del passaggio dalla preistoria (la storia come storia di lotte di classi) alla storia degli uomini (la storia come storia di liberazione degli individui).
quattro. Eppure lo sviluppo del sistema delle macchine e il concentrarsi delle abilità e delle capacità nel general intellect sta riproponendo come “mezzo di produzione” il ritorno allo strumento di lavoro individuale nella forma arricchita della intelligenza artificiale: dalla falce e dal martello, strumenti del lavoro manuale, passando per la grande catena di montaggio del fordismo, nella quale l’operaio è solo un’appendice, per arrivare oggi agli apparati automatici (robot) controllati dai personal computer degli operai. Naturalmente le forme più avanzate della organizzazione produttiva convivono sempre con forme meno avanzate e la descrizione è tendenziale. Anche la produzione moderna, che effettivamente non dipende più semplicemente dalla prestazione lavorativa diretta, ma dall’insieme della potenza produttiva che la cooperazione sociale mette in moto continuamente, non esclude (al limite marginalizza) la prestazione diretta e la “fatica”. Così la produzione comunista dovrebbe tendere ad utilizzare le forme più avanzate (la microfabbrica automatica di oggetti riproducibili sulla base di software progettuali scaricabili liberamente dalla rete ed eseguiti da minirobot ad alta capacità non è più una realtà tanto avveniristica) ma dovrebbe convivere per tutta una fase con forme di produzione centralizzata (edilizia, trasporti, energia) sebbene in tendenza anche queste produzioni dovrebbero via via cedere il passo a forme “decentrate” e a minimo impatto ambientale (tendenza conservativa-ristrutturativa, veicoli leggeri, energia solare ed eolica), mentre l’agricoltura dovrebbe riconquistare una autonomia dall’industria meccanica, recuperando le modalità armoniche con la natura.
cinque. Insomma: anche dopo “l’inferno capitalistico” il comunismo può essere simbolicamente connotato come società amicale di compagni e non – per forza – di colleghi, cioè di persone con cui si mangia in comune, e non con cui si lavora necessariamente in comune, perché la cooperazione sociale è già nel general intellect e può realizzarsi – in gran parte – in forme libere ed individuali, non per forza nelle grandi fabbriche. D’altro canto non sono sufficienti le condizioni materiali (la semplice comunità produttiva di lavoro) per fondare un nuovo legame sociale. E’ necessario che vi siano gli adeguati rapporti umani, tra questi l’amicizia e la fraternità.
sei. Possiamo dire che proprio la totalizzazione del rapporto di capitale, consegnandoci una possibilità di liberazione dal lavoro, consente di ripensare il comunismo di nuovo come comunità di cum-pane, nella forma arricchita dal processo storico. E come per i primi comunisti, non c’è bisogno di mettere “tutto in comune”. Al di fuori della mensa comune c’erano infatti altre sfere della vita che non si mettevano affatto in comune, come ad esempio la vita familiare. Per il comunismo del futuro la critica della famiglia borghese ed in generale della famiglie nelle società divise in classi , basata sullo scambio economico e sulla sottomissione della donna, non significa abolizione della famiglia tout court. Così come bisogna sgomberare il campo dai miti sulla trasparenza assoluta dei comportamenti individuali nel comunismo, che costituiscono la giustificata sostanza dell’incubo del controllo totale. La mensa comune, cioè il mettere in comune i bisogni biologici e culturali, permette la vita di tutti ma si ferma prima della irrigimentazione e del passaggio dalla comunità di compagni (cum-pane) a quella di camerati (nel senso di chi vive sempre insieme appunto in un’unica camerata, in maniera collettiva e militaresca). E proprio l’irrigimentazione militaresca agitata nel socialismo reale è stato l’argomento più usato – e anche il più fondato – contro il comunismo del XX secolo.
sette. L’aspetto fondamentale del comunismo è la libertà dell’individuo. Paradossalmente questa dimensione della libertà e dell’individuo, potentemente proposta da Marx, ha subito nella vulgata del Novecento un drastico capovolgimento. Nei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Marx sostiene che: “I rapporti di dipendenza personale (all’inizio su una base del tutto naturale) sono le prime forme sociali, nelle quali la produttività umana si sviluppa soltanto in un ambito ristretto ed in punti isolati. L’indipendenza personale fondata sulla dipendenza materiale è la seconda forma importante in cui giunge a costituirsi un sistema di ricambio sociale generale, un sistema di relazioni universali, di bisogni universali e di universali capacità. La libera individualità, fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla subordinazione della loro produttività collettiva, sociale, quale loro patrimonio sociale, costituisce il terzo stadio. Il secondo crea le condizioni del terzo”. “Marx parla di schiavismo e feudalesimo (dipendenza personale), capitalismo (indipendenza personale) e comunismo (libera individualità). Si tratta, in estrema sintesi, delle figure antropologiche tipiche e caratterizzanti di questi tre diversi tipi di legami sociali (correttamente definiti da Marx “sistemi di ricambio sociale generale”).
otto. Marx distingue fra in-dipendenza ed in-dividualità. Questo in- corrisponde al greco a, ed è un prefisso unicamente privativo, dunque negativo. Nel capitalismo si è in-dipendenti, perché non si dipende più come ai tempi degli schiavi e dei servi della gleba, ma non si è ancora pienamente in-dividui, perché il processo di in-dividualizzazione dell’uomo sociale non è stato portato a termine, e non lo sarà finché saremo ancora dipendenti non più da persone, ma dal rapporto di produzione capitalistico.
nove. Il comunismo è dunque il regno dell’individuo e della libertà, della “libera individualità, fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla subordinazione della loro produttività collettiva, sociale, quale loro patrimonio sociale”. Attenzione: lo stesso Marx, quando usa l’espressione “libera individualità”, parla di libertà e non di eguaglianza. L’eguaglianza è solo la forma del comunismo, mentre solo la libertà ne è il contenuto. In questo senso appare del tutto infondata la classica interpretazione, stabilita da Engels e da Plechanov (e ripresa da Lenin) per cui la libertà coincide con la coscienza della necessità. Per Marx la libertà (attributo indiscutibile della libera individualità) coincideva con l’espansione di tre fattori creativi (le relazioni universali, i bisogni universali e le universali capacità).
dieci. ma se il comunismo è – al contrario della vulgata novecentesca – più libertà e più individualità e invece viene percepito come l’esatto contrario è ancora più importante discuterne. Una società comunista è una società dove il valore di scambio tende ad essere residuale e dove la produzione è esclusivamente produzione di valori d’uso, realizzati grazie al lavoro volontario organizzato nella forma più libera che la tecnologia consente e scambiati “da me a te chiunque tu sia”. Una società dove diventa totalmente senza senso l’accumulazione della proprietà delle cose, e dove acquisisce sempre più senso la cura degli affetti, del corpo, della natura e della cultura. E’ una società dove la quota residua di lavoro “obbligatorio”, ove fosse necessario, è prioritariamente e fondamentalmente riservata alla cura delle persone e dell’ambiente e dove ognuno, dalla nascita, a prescindere dalle prestazioni che svolge, ha diritto ai bisogni essenziali della riproduzione biologica e culturale
undici. Certamente la storia del tentativo di realizzare il comunismo, l’assalto al cielo, è segnata da molti errori, alcuni fatali. Le donne e gli uomini che l’hanno percorsa hanno pensato di conquistare il potere nello stato e attraverso questo di cambiare la società. E’ successo il contrario, cioè che la logica del potere ha cambiato quegli uomini, spesso spingendoli a governare in modo autoritario e violento. Quella esperienza ci ha anche dimostrato che non basta la libertà da, cioè dal bisogno, dalla fame, dalla miseria, ma ci vuole anche la libertà di, cioè di esprimere il meglio di sé stessi, di costruire delle nuove esperienze di vita sociale, di praticare concretamente la libertà per tutti. Ci ha dimostrato che non si possono separare i mezzi dai fini, non si può pensare di essere i liberatori dell’umanità e però nel frattempo soffocare la libertà di chi ci sta accanto.
dodici. In questo senso se dal lato della produzione il comunismo dovrebbe tendere ad utilizzare le forme più avanzate, in cui l’individuo riprende il controllo sul mezzo di produzione, nella forma arricchita dell’intelligenza artificiale, dal lato della organizzazione sociale il comunismo dovrebbe “semplificare” l’attività “amministrativa” (già oggi sarebbe possibile una sostanziale autogestione delle attività anagrafiche con le carte elettroniche e la messe in rete dei servizi) e “politica” (riducendola alle attività essenziali di gestione dei servizi collettivi della comunità) capovolgendo gli attuali rapporti tra amministrati e amministratori: l’amministratore o il dirigente politico comunista non dovrà avere alcun privilegio e meno diritti dell’amministrato: l’attività sarà considerata “quota residua di lavoro obbligatorio” e sarà svolta a turno sotto il controllo dei consigli e delle assemblee.
tredici. Si può essere o forse, meglio ancora, si può diventare comunisti solo se e si nutre una grande fiducia nell’umanità nel suo complesso e contemporaneamente un sano scetticismo nei confronti di sé stessi. Se si è generosi con gli altri ma severi con sé. Se il comunismo è una società di “cum-pane”, dunque di individui che si vogliono bene e che si dividono il pane, non possiamo pensare che essa possa nascere senza che le sue forme sociali vengano prefigurate, anche parzialmente, nelle organizzazioni che la intendono promuovere. Certo le attuali organizzazioni comuniste sono ben lontane dal poter svolgere questa missione: chi conosce ed ha frequentato gli ambienti che si dicono “comunisti” può testimoniare che vi regna sempre la massima potenziale inimicizia ed antipatia reciproca. Questa litigiosità ed inimicizia dei comunisti non è casuale, è un segnale di un deficit antropologico specifico, determinato da una interpretazione meccanicistica e antidialettica del marxismo: ed è – di più – la conseguenza della trasposizione del modello della politica e della rivoluzione borghese, con la finalizzazione della conquista del potere, nell’agire comunista. In verità la rivoluzione comunista o è costitutivamente “contro il potere” (trasformando il potere in “servizio” e l’amministrazione in quota residua di lavoro necessario, senza privilegi) o rischia di essere l’ennesima variante borghese della gestione del capitalismo. In questo senso è importante il contributo del maoismo sullo sviluppo multineare della storia (antidoto alle concezioni eurocentriche e meccanicistiche) e sulla possibilità della “borghesia rossa” e sulla capacità del capitalismo di rivitalizzarsi anche “dopo la rivoluzione”.