Undici note sulla rivoluzione

Ci è sembrato il caso, per la compiutezza e l’attualità delle riflessioni contenute, di ripubblicare le “Undici note sulla rivoluzione”, originariamente intitolate “La rivoluzione totale”: il marxismo come pensiero eretico ed estremo, la storia “senza” filosofia e l’indeterminatezza della soggettività, il rapporto inscindibile tra nuova società e nuova umanità, sono altrettanti capisaldi della riflessione che si fa strada tra le pagine di questa rivista e che vive in queste undici note una sua provvisoria (come tutte le cose della vita e del pensare) ma interessante sistemazione. (NDR LEF)

Uno

Siamo appena all’inizio di un percorso di riflessione, che è anche di definizione e di azione, ma già possiamo dare per acquisiti, e comuni tra noi, alcuni tratti di una possibile riscrittura del linguaggio e della pratica rivoluzionaria. Ad esempio, siamo fin d’ora tutti convinti (e nel dire “tutti” mi riferisco a coloro che si riconoscono, in qualche modo, nel progetto della rivista on-line LEF) che nuova società e nuova umanità debbano essere inscindibili: non soltanto nell’orizzonte – indefinito – del futuro, ma anche nel percorso concreto della fuoriuscita dal capitalismo; e che non ci sia trasformazione possibile, se non quella in cui il soggetto che trasforma venga anche trasformato dal suo stesso agire. O è così, o, come ci insegna la storia del ‘900, semplicemente non è. La rivoluzione, ovviamente.

A dirla così, sembra un’affermazione semplice, quasi scontata. Ma, a parte che tutte le rivoluzioni del ‘900 si sono basate (e sono fallite) sullo schema esattamente opposto, con la trasformazione in due, o anche in tre tempi: dittatura del proletariato, socialismo, comunismo; oppure: sviluppo vertiginoso delle forze produttive e poi le grandi trasformazioni sociali; a parte questo, ciò che oggi appare semplice è, in realtà, frutto di un nostro cammino più che decennale, partito con la nascita , trent’anni fa, della rivista “Officina” a Napoli.

Cosa ha prodotto di veramente nuovo e importante quella esperienza? Soprattutto la riflessione sulla “Totalizzazione del rapporto di capitale”, riflessione per la quale siamo tutti in grandissimo debito con Rino Malinconico e col suo intenso lavoro teorico.

L’estensione (oltre che in orizzontale, anche in profondità) del rapporto di capitale, con la tendenziale acquisizione, dentro il processo di riproduzione allargata dell’individuo produttivo sociale, di tutto il tempo di vita e di lavoro di tutti gli individui, ovunque geograficamente e socialmente collocati, ci ha imposto di pensare la rivoluzione come inevitabilmente “totale”. Il che implica immettere, dentro il pensiero rivoluzionario, la visione della totalità, con l’inevitabile intreccio dialettico di politica ed etica, di sentimento e ragione, di soggettività della trasformazione ed oggettività del processo.

Ma non era stato già Lukàcs ad insistere su questa idea di “totalità”, ripigliando a piene mani dallo hegelismo? E non si era già detto che, in fondo, tutti i marxisti “eretici” del ‘900 fossero figli, più o meno legittimi, di Lukacs, operaisti e neohegeliani compresi?

Per carità, personalmente mica mi sentirei offeso ad essere definito “nipotino” di Lukacs, e forse un po’ lo sono, assieme a tutti gli eretici della “vecchia” Officina. Ma il punto è che anche Lukàcs appartiene al secolo passato, benché la sua idea di rivoluzione “totale” sia decisamente più convincente dello schema neopositivista del marxismo  ufficiale. Non poteva che essere così nel ‘900, poiché la “totalizzazione” non era ancora compiuta. Così anche nel filosofo ungherese, il processo rivoluzionario resta affidato al proletariato, o meglio, alla rappresentazione politica del proletariato, il partito. È infatti il proletariato l’unica classe capace di esprimere la “totalità” del processo rivoluzionario ed emancipativo, di modo che il suo rappresentante politico resta, per definizione, la compiuta e “totale” espressione di questa attitudine. Anche la “rivoluzione totale” di Lukcàs prevede, perciò, la presa del potere da parte della classe nella sua forma politica organizzata; e solo poi (un “poi” che inevitabilmente ritorna) prevede di mettere mano al rivolgimento dell’assetto sociale in tutte le sue manifestazioni. Sicuramente è un’idea più ricca di rivoluzione, ma è ancora un’idea dei due tempi, forse tre. E però, si tratta di uno schema non più riproponibile.

Due

So bene che molti marxisti che definiscono se stessi “autentici” ci guarderebbero con grande severità di fronte alla seguente, così apparentemente semplificativa, asserzione: nuova società e nuova umanità dovranno nascere contemporaneamente, in un intreccio tale che l’una cosa non possa dirsi compiuta senza l’altra. Direbbero di noi quello che, se non ricordo male, fu detto anche di Lukàcs, ovvero che vorremmo sostituire all’oggettività dei processi sociali, alla loro materialità, una estrema soggettività, trasformando la rivoluzione in una sorte di sollevazione etica delle coscienze. La nostra “nuova umanità” – non solo come prodotto, ma proprio come condizione della rivoluzione – verrebbe perciò accusata di attentare a tale principio basilare, vuoi perché riguarda gli individui prima ancora che le classi, vuoi perchè non si àncora immediatamente alla dialettica dello scontro sociale.

Marx, spiegherebbero tali “marxisti autentici”, aveva collegato la possibilità, e anzi, la necessità della rivoluzione sociale allo sviluppo delle forze produttive (per come messo in moto dallo stesso capitalismo), e segnatamente al conflitto, o meglio alla contraddizione che si generava, irrisolvibile, tra quello sviluppo e i rapporti sociali instaurati dal capitalismo. La “nuova umanità”, ci direbbero gravemente, è sì prevista nello schema di Marx, ma appunto come “prodotto indiretto”, quasi accidentale (esagero un poco, ovviamente), della rivoluzione proletaria. Avverrebbe, in altri termini, esclusivamente in forza della particolarità storica toccata alla “nostra parte”, ovvero, per il fatto che la classe proletaria si presenta, per definizione, come l’unica classe che “emancipando se stessa emancipa l’intera umanità”.

Il corollario è che, se la contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali non raggiunge la “piena maturazione”, ovvero se il proletariato non prende piena coscienza della propria condizione di classe sfruttata (cosa che avviene solamente a un determinato sviluppo delle forze produttive, ed in virtù del lievito politico/culturale rappresentato dalla teoria rivoluzionaria e dalla sua incarnazione concreta che è il partito), non ci sarà possibilità alcuna di rivoluzione. Insomma: niente partito, niente coscienza rivoluzionaria; niente coscienza rivoluzionaria, niente trasformazione del proletariato in classe rivoluzionaria; niente  classe rivoluzionaria, niente rivoluzione; e addio emancipazione della classe e dell’intera umanità.

Tre

Che la rivoluzione sociale abbia bisogno di una condizione materiale, è fuor di dubbio. E che essa debba esistere, come opposizione all’esistente, già dentro l’esistente stesso, in quanto sua negazione possibile (e quindi materialisticamente determinata), non mi sembra potersi mettere in discussione. Se è questo che intendiamo per “oggettività dei processi rivoluzionari”, allora è addirittura lapalissiano che non potrà esistere alcuna rivoluzione che non sia oggettivamente fondata. Anzi, proprio nello schema della “totalizzazione” diventa decisivo il riferimento al lungo lavorìo della storia Basti pensare, per esempio, ad alcune potenzialità del vivere sociale che giudichiamo già mature socialmente e culturalmente (e perciò le rivendichiamo nelle nostre stesse iniziative di lotta) e però obiettivamente bloccate dal sistema capitalistico e dalle sue relazioni sociali: dalla definitiva sconfitta della penuria e delle povertà al superamento delle logiche militari. Orbene, non possiamo non convenire sul fatto che sia stato esattamente lo sviluppo del capitalismo a scala planetaria a creare le “condizioni oggettive” che rendono realistici, oggi, entrambi gli obiettivi.

Sono esempi semplici,  ma lo schema può applicarsi a questioni anche molto più complesse: dalla risoluzione non conflittuale delle controversie alla educazione estetica delle persone; dalla circolazione dei beni senza scambio diseguale al pieno rispetto delle identità di genere e sessuali.  Se tutte queste cose non appartenessero ad uno sviluppo “attuale” del livello di civiltà (così mi piacerebbe definissimo lo sviluppo delle forze produttive, ma sulla questione terminologica ritornerò più avanti), neppure riusciremmo a pensarle come elementi della rivoluzione possibile.

Attenzione, però, a non semplificare eccessivamente. La storia ci ha insegnato che le “condizioni materiali” della rivoluzione possono avere poco, molto poco a vedere con le contraddizioni materiali che attraversano le società moderne. Abbiamo assistito, e continuamente assistiamo, a situazioni estreme: paesi dove enormi masse povere assistono inermi e senza ribellarsi alle nefandezze di piccole elite di ricchi; paesi dove l’insorgenza popolare ha incrociato non già idee e percorsi di liberazione, ma più contorte risposte populistiche e identitarie, magari a sfondo religioso; paesi dove, a fronte di condizioni sociali non particolarmente disagiate, si registra un attivismo di settori sociali, magari limitati ma sicuramente rappresentativi, spesso denso di contenuti effettivamente liberatori. Insomma, la fondazione materiale della rivoluzione non va mai confusa con le condizioni sociali in cui vivono parti più o meno ampie di popolazione, cosa questa che può connotare sì una eventuale insorgenza di massa, ma non ne garantisce affatto la direzione di marcia.

Quattro

Dato, dunque, per acquisito che la base oggettiva del processo rivoluzionario non risiede semplicemente nella materiale condizione in cui vivono gli attori sociali, cosa mai dovremmo intendere quando parliamo di contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione, ed indichiamo nello sviluppo al massimo grado di tale contraddizione la condizione oggettiva della rivoluzione?

Considerando, secondo lo schema classico, le forze produttive in quanto elemento dinamico dell’agire sociale (ovvero: ciò che, sviluppandosi, permette l’espansione della civiltà umana) e i rapporti sociali in quanto elemento statico (ovvero: ciò che mira a tenere fermo nel tempo un dato sviluppo delle forze produttive), è evidente che la contraddizione tra di loro genera la necessità della trasformazione solamente se le forze produttive non possono più essere contenute nei rapporti sociali che li definiscono. La qual cosa può anche dirsi, filosoficamente, nel seguente modo: subentra realmente la necessità storica della rivoluzione allorché la concreta fenomenicità degli assetti sociali non garantisce più, in alcun modo, l’incessante “movimento in avanti” della struttura sociale, di cui proprio le forze produttive costituiscono l’ossatura portante.

Tuttavia, nell’epoca della totalizzazione, quello schema classico deve essere decisamente contestualizzato: non fosse altro perché ora i rapporti sociali sono diventati, essi stessi, “forza produttiva”; anzi, sono diventati, proprio essi stessi, la forza produttiva fondamentale. Si tratta di un concetto assolutamente decisivo della “teoria della totalizzazione”. Ma se nel capitalismo contemporaneo è oramai la “potenza degli agenti” la principale forza produttiva, e la loro combinazione nell’individuo produttivo sociale  rappresenta il vero pilastro della riproduzione allargata, dove sarà mai andata a collocarsi la contraddizione tra forze produttive e rapporti sociali? Ed essa opererà ancora come condizione oggettiva di un eventuale processo rivoluzionario?

Cinque

Il punto da considerare è che il concetto di forze produttive si è ampliato a dismisura rispetto all’idea che se ne aveva nel Novecento, finendo per comprendere oltre alle macchine, al lavoro applicato alle macchine e all’energia che muove le macchine, anche tutto ciò che, a monte e a valle dell’immediato atto della produzione, concorre a rendere possibile la riproduzione allargata.

In verità, se proprio vogliamo dirla tutta, è stato sempre così nel capitalismo, tanto che l’individuo produttivo sociale (o “general intellect”: ovvero, combinazione dell’insieme delle attività anche non direttamente produttive di merci) è una nozione già presente in Marx: non lo hanno inventato né la vecchia “Officina”, né Rino Malinconico nel suo ampio testo sulla “teoria della totalizzazione”. Solo che la forma moderna del capitalismo vede un gigantesco accumulo di “lavoro morto”, un sistema macchinico così complesso che finisce col comprendere anche le strutture della formazione, della cura, della ricreazione; di modo che il “lavoro morto” non è più il solo tempo di lavoro accumulato nelle macchine, ma proprio tutto il tempo di vita degli individui, in quanto esattamente come individui partecipano, giorno dopo giorno, alla riproduzione dell’individuo produttivo sociale.

Per intenderci: le forze produttive, nell’attuale fase del capitalismo, hanno raggiunto un livello di sviluppo straordinario, tale da non essere soltanto quantitativamente differenti dal passato, ma anche qualitativamente. E la loro più pregnante qualità attuale è che esse hanno sviluppato, a livelli inimmaginabili prima, le capacità degli individui di avere conoscenza e coscienza di sé, del mondo, del loro essere e del loro agire sociale: se la quota di sapere che ciascuno possiede, anche il più sapiente degli esseri umani, è una infinitesima parte del sapere socialmente accumulato, non c’è dubbio che la maggioranza degli individui contemporanei possieda oggi, in assoluto, più conoscenze di quante le persone più sapienti ne abbiano mai avuto in passato.

Diciamola così: all’avvio del XVI secolo Leonardo da Vinci, che era il più saggio di tutti, possedeva un sapere che corrispondeva, poniamo, a 1/100000 di tutto il sapere accumulato dall’umanità fino ad allora; di contro, un uomo di media cultura del mondo d’oggi possiede un sapere che, in proporzione al sapere complessivo è certamente molto meno di quello di Leonardo (poniamo 1/1000000000 del sapere accumulato), ma in assoluto sarà immensamente più sapiente di Leonardo. A prescindere dai suoi meriti specifici e dalla sua personale intelligenza, qualunque essere umano acculturato del XXI secolo la “sfida” con Leonardo la vince senz’altro. La vince perché oggettivamente le forze produttive, di cui gli individui costituiscono ora l’elemento più importante e decisivo, hanno visto moltiplicarsi in maniera esponenziale il loro contenuto in sapere socialmente accumulato, e ciò sia quantitativamente che qualitativamente.

Si tratta di una differenza che ha straordinarie conseguenze. Dentro l’enorme accumulo di lavoro morto, che comprende tutti gli altri agenti che cooperano alla riproduzione sociale allargata, con tutto il loro sapere e tutte le relazioni personali, si consolida un livello di civiltà umana elevatissimo. Si situa, cioè, la capacità storica effettiva di poter rendere la vita di ciascuno armoniosa e felice, e amichevoli e fraterne le relazioni tra tutti gli individui.

Sei

Insomma il capitalismo moderno ha creato le condizioni materiali (nel senso di storicamente possibili, e quindi “materiali” in senso stretto, ma anche culturali ed etiche, compresa la sensibilità degli individui e la loro disposizione al buono e al bello) affinché gli esseri umani possano liberarsi da ogni forma di oppressione, di sofferenza e di divisione, “prendere il potere in se stessi” ed “educare compiutamente i cinque sensi”, praticando la fraternità e l’amicizia universale.

La differenza con l’Ottocento e con quasi tutto il Novecento è che immaginare questo modello di società equivaleva, in quelle epoche, a formulare un pensiero astratto: la prefigurazione di un paradiso in terra aveva, più o meno, la stessa materialità concreta del paradiso dell’aldilà. Si trattava, insomma, di una semplice speranza, inutilmente affidata alla buona volontà degli uomini. Ma oggi gli individui, benché in modo del tutto contraddittorio e incompleto, sono messi realmente di fronte a condizioni di vita che solo a causa della divisione sociale e internazionale del lavoro e delle necessità di riproduzione allargata proprie del capitalismo, non riescono a divenire compiutamente soddisfacenti per ciascuno.

Posto che lo sviluppo delle forze produttive possa essere sensatamente assunto come misura del livello effettivo di civiltà raggiunto da una società in una data epoca, io ritengo che siamo già nell’epoca storica in cui la civiltà effettivamente raggiunta consente di proporre per davvero un’altra società e un’altra umanità possibili. Il movimento no global tra il 1999 e il 2003 diede un embrionale, ma inequivocabile, segno  in tale direzione.

Tuttavia è un fatto che, nonostante lo straordinario livello di civiltà, l’umanità versi, in massima parte, ancora in condizioni di oppressione, sfruttamento e sofferenza. Il nodo irrisolto, la famosa “contraddizione” risiede appunto in questo essere gli individui enormemente sviluppati in coscienza e conoscenza e, contemporaneamente, nel non riuscire ad utilizzare questo loro livello di sviluppo per guadagnare la piena espressione umana.

Succede, infatti, che la gran parte della coscienza e della conoscenza applicate all’azione sociale venga “rapito” dal capitale per essere trasformata in nuovo lavoro morto e mantenere ed accrescere l’estensione  sociale dei rapporti capitalistici. Come questo avvenga, è spiegato in modo ampio ed analitico proprio nei tre volumi di Rino Malinconico Teoria della Totalizzazione, editi da Melagrana. E comunque la effettività di tale “rapina” può essere empiricamente costatata da ciascuno nella vita quotidiana: da un lato, la struttura politico-amministrativa pubblica, che, attraverso il controllo sociale, la distribuzione selettiva delle risorse e la pressione della fiscalità, mobilita l’insieme della società e la struttura come sistema-paese, finalizzando il tutto alla riproduzione allargata dell’individuo produttivo sociale; dall’altro lato, la trasformazione crescente di quote di lavoro intellettuale in lavoro dipendente, in semplice accessorio dei sistemi integrati di macchine, che si traduce in esproprio non soltanto di lavoro immediato, ma anche di intelligenza, creatività e fantasia; da un altro lato ancora, l’agire umano anche sul piano “privato” che viene tutto convogliato a mantenere intatte le divisioni sociali, le gerarchie, le “inimicizie”.

Sette

Come è noto, nell’epoca feudale, affinché il sistema delle corti, degli eserciti privati e degli apparati amministrativi-giudiziari si potesse reggere, gli artigiani e i mercanti dovevano cedere alla nobiltà una quota significativa del proprio lavoro. Il che significava cedere a quel sistema anche quote di inventiva e di intelligenza.

Quando la classe borghese fu cresciuta a sufficienza, prese ben presto consapevolezza del fatto che, se avesse recuperato per sé le quote di lavoro consegnate alla nobiltà, poteva cambiare non solo la propria particolare condizione, ma rimodellare l’intera società. La contraddizione coi rapporti feudali divenne perciò insopportabile, fino a generare nuovi pensieri, nuove teorie, e alla fine una nuova società.

Liberatasi dei rapporti feudali, la società si ritrovò radicalmente trasformata, e gli uomini si scoprirono presto rinnovati: nel pensare, nell’agire, nel relazionarsi. Nulla fu più come prima, e l’inventiva e la intelligenza prima annichilite fecero fare agli uomini passi da gigante.

La storia ci ha poi insegnato che artigiani e commercianti avevano sì cercato la universalità nella loro rivolta contro il feudalesimo, in modo da rappresentare se stessi come “l’umanità” tout court e le loro esigenze come quelle di tutti gli esseri umani, ma il loro tentativo aveva generato solo (non era assolutamente cosa da poco, e il “solo” è qui usato esclusivamente a comparazione con l’ambizione di partenza) il libero mercato e il “diritto eguale”. Nel libero mercato tutti gli agenti hanno apparentemente gli stessi poteri e le stesse facoltà e vengono misurati con lo stesso metro, mentre il diritto eguale rende gli uomini uguali, ma nella rappresentazione capo volta e virtuale della finzione giuridica.

Di fatto, la universalità restava preclusa dalla divisione del lavoro e dagli obblighi oggettivi della riproduzione allargata, la quale costringe il capitale ad estorcere valore al lavoro e comporta la inevitabile sottomissione ad un pugno di sfruttatori della parte maggiore, e sempre crescente, degli individui.

D’altra parte, tra XVII e XVIII secolo era realmente difficile immaginare le masse contadine servili (cioè una autentica folla di individui abbrutiti dalla fatica, devastati da malattie, estranei ad ogni sapere e grandemente preda di superstizioni),già pronte per l’autogoverno. Non che non vi fossero state rivolte contadine, anche molto radicali sul piano sociale; ma l’emancipazione di quelle masse fu, in larga misura e paradossalmente, affidata alla loro urbanizzazione e alla loro trasformazione in proletariato industriale. Si emanciparono, in sostanza, proprio passando per l’inferno della condizione proletaria, e cioè divenendo una mera appendice delle macchine, e da esse separati come entità giuridica, al punto da avere un distinto prezzo. Da lì poté prendere più proficuamente avvio la coscienza della propria condizione, mentre nell’epoca del servaggio, ossia della “incorporazione” del servo alla terra, come accessorio della proprietà terriera, le dinamiche della coscienza erano molto più fragili ed incerte.                                                                                                                                                      

Otto

La storia è, per certi versi, inesorabile. Consente che le cose accadano soltanto quando sono già socialmente possibili. Artigiani e mercanti si sollevarono solo quando fu chiaro che la straordinaria ricchezza, non solo materiale, che essi erano in grado di produrre veniva assurdamente sprecata da una nobiltà parassitaria e inetta, mentre avrebbe potuto far progredire, come poi fece, l’umanità intera. Ugualmente la classe proletaria ha cominciato a sollevarsi quando è apparso evidente che, pur essendo l’effettiva creatrice della ricchezza di tutte le società moderne, restava comunquea esclusa non solo dal godimento dei beni, la cui massa circolante si ergeva non per ma contro di essa, ma anche dal controllo e dalla gestione delle articolazioni sociali, che pure evolvevano grazie alla ricchezza prodotta dai lavoratori.

Va dato atto alla borghesia di aver gestito i contrasti “col popolo” molto meglio di quanto non avesse fatto la nobiltà feudale. Ha saputo soprattutto attutire la evidenza dello sfruttamento del lavoro attraverso il welfare e le politiche di inclusione sociale. Che poi sia stato il plusprofitto degli imperialismi e il connesso ampliarsi della  “aristocrazia operaia”; che sia stata la preoccupazione di depotenziare il conflitto sociale dopo il ciclo rivoluzionario degli anni ’20; che sia stata direttamente la parziale avanzata del movimento rivendicativo di parte proletaria; che, più verosimilmente, abbiano pesato l’insieme di queste tre cose: fatto sta che nel secolo scorso, e principalmente dopo la seconda guerra mondiale, nella parte più sviluppata del pianeta le classi subalterne hanno innegabilmente migliorato le loro condizioni di vita e il loro peso politico-sociale. Le società sono diventate meno “ruvide”, il conflitto meno aspro.

Il punto decisivo è che questa migliore condizione di esistenza dei proletari (almeno nei paesi avanzati, e al netto delle oscillazioni prodotte dai cicli di crisi economica) non ha risolto affatto la contraddizione lacerante del modo di produzione capitalistico. Intanto, perché essa ha continuato ad operare in tutta la sua asprezza nel resto del pianeta, dove ha raggiunto anzi livelli esplosivi, con situazioni devastanti per sfruttamento del lavoro e per miseria delle condizioni di vita. In secondo luogo, e soprattutto, perché in parallelo con l’attenuazione delle povertà e del conflitto è cresciuta, proprio nei paesi più avanzati, una forma modernissima ed efficacissima di sfruttamento ed alienazione.

Nove

“Oggi l’operaio vuole il figlio dottore…pensi che mondo ne può venir fuori…”. Ne è venuto fuori un mondo nel quale gli individui, in quanto tali, hanno conosciuto una crescita civile straordinaria: per accesso alla cultura, per flessibilità nelle attività lavorative, per capacità di relazione.

Certo, queste caratteristiche sono distribuite in modo ancora diseguale, e subiscono fortemente i condizionamenti derivanti dalla divisione sociale e dai rapporti di potere; ma sono caratteristiche diffuse in maniera così ampia da essere riconoscibili facilmente nella gran parte degli individui. Ed anche nei paesi dove il moderno capitalismo della totalizzazione si è sviluppato da poco o pochissimo tempo, la rapidità con la quale crescono i livelli di cultura, flessibilità e interazione degli individui si presenta molto elevata. 

Viene da pensare che proprio perché ha bisogno di estorcere da ogni individuo tutto il suo tempo, il suo sapere e la sua potenza creativa, l’individuo produttivo sociale debba generare, per obiettiva necessità, esattamente degli individui sempre più “ricchi” di potenza creativa e abilità. È un po’ come nella creazione di macchine che producono macchine: il loro contenuto tecnico deve essere sempre più alto per potersi trasferire utilmente, accrescendone il valore di scambio, nel prodotto finale.

Così il capitalismo moderno, nel momento stesso in cui ha integrato tra loro tutti gli agenti dell’azione produttiva, compresi gli esseri umani in quanto tali, non solo ha reso possibile l’attenuazione del conflitto sociale originario, ma ha trasferito la contraddizione di fondo sul piano più complessivo degli assetti di civiltà. E’ passato, in altre parole, dal rapporto contraddittorio tra sé e la classe proletaria, al rapporto tra sé e l’insieme degli individui. E ciò proprio perché ora esercita l’atto di estorsione di valore direttamente sugli esseri umani, il che rende quella contraddizione davvero irrisolvibile ed ultimativa.

Dieci

La prima conseguenza di questo ragionamento è che, come principale forza produttiva, va indicato oggi proprio l’individuo, cioè l’essere umano in quanto tale, così come è venuto formandosi in questa fase del capitalismo. La seconda conseguenza è che la ricchezza attuale dei processi di produzione e riproduzione può essere rappresentata e concretamente agita, sul piano sociale, solo se la si traduce in un valore che vada ben oltre il tradizionale valore-lavoro delle fasi precedenti la totalizzazione del rapporto di capitale.

Detto in estrema sintesi: come le prime macchine utensili potevano facilmente essere attivate da poveri contadini appena urbanizzati; come il più complesso sistema dell’insieme di macchine concentrato nei grandi opifici industriali richiedeva l’azione di operai professionalizzati; come le prime macchine a controllo numerico (utilizzate per la produzione, ma anche per controllare la distribuzione e organizzare  molte attività di servizio in forma non più di libere attività professionali, bensì come lavoro dipendente nell’ambito di strutture gerarchicamente organizzate) hanno richiesto la forte crescita di figure professionali e tecnici qualificati; così la complessa azione produttiva e riproduttiva del capitalismo totalizzato richiede che ad agire socialmente – nella diretta costruzione delle merci, ma anche, e forse ancora di più, nella attività di riproduzione, conservazione ed estensione del sistema di relazioni sociali – siano individui sempre più consapevoli, intelligenti, flessibili, disponibili alla cooperazione, ricchi di inventiva. Sono queste le concrete capacità umane scambiate disegualmente col capitale, secondo la logica della espropriazione e dello sfruttamento. Una volta in prevalenza era la forza fisica; oggi sono la forza mentale, le capacità intellettuali, l’intelligenza. 

E però, analogamente al passato, in questo scambio gli individui danno molto più di quanto ricevono; e se una volta la loro umanità era impoverita e annichilita dalla espropriazione di energia fisica, oggi la loro umanità è ingabbiata, zittita e spesso annullata dall’espropriazione della pienezza della vita creativa, affettiva, artistica, spirituale ed emozionale. E il tempo di tale esproprio tende sempre più a comprendere l’intera esistenza. La schiera degli sfruttati, insomma, si va estendendo a dismisura, e il loro sfruttamento è più profondo e totale di quanto sia mai stato prima.

Lo so. Mi rendo perfettamente conto di una difficoltà in quel che dico. La previsione marxiana di una massa proletaria crescente, ma la cui funzione sarebbe dovuta essere sempre più accessoria alle macchine, con mansioni sempre più povere di contenuto e più ripetitive, sembra configgere col ragionamento qui proposto. In sostanza, le tesi che Marx ha sviluppato ne Il Capitale prevedevano un futuro nel quale l’apporto umano al processo di valorizzazione sarebbe divenuto sempre più dequalificato dal punto di vista tecnico, mentre il sapere tecnico si sarebbe accumulato sempre di più nel “capitale costante”. La conseguenza era che non vi sarebbe stato alcun bisogno di accrescere il sapere, la creatività e la flessibilità intellettuale dei  singoli lavoratori.

La difficoltà effettivamente c’è; ma non si può essere fedeli a Marx su questo aspetto. Non si può, perché nell’epoca della totalizzazione, il rapporto sociale non si risolve affatto nel modello binario dello scambio pluslavoro/plusvalore. In gioco entra, sempre di più, una sorta di valore totale, che rappresenta l’azione generale dei fattori propriamente “di civiltà” (la “terza serie” della riproduzione allargata, così come la descrive Rino Malinconico nel suo fondamentale studio sulla totalizzazione). E’ questo “valore totale” il principale artefice della stessa valorizzazione dei capitali specifici.

Undici

In sostanza, più cresce l’accumulo totale del valore – ossia, più progredite, sapienti e creative sono le società -, più s’incrementa la riproduzione sociale e più i rapporti sociali capitalistici si consolidano e si estendono. Ma, ed è questo il nodo gordiano non sciolto del capitalismo moderno, il valore totale genera necessariamente, in quanto accumulo sociale di capacità ed abilità, null’altro che individui più sapienti e coscienti. Il loro singolo apporto al processo produttivo immediato, materiale o immateriale che sia, potrà anche essere ripetitivo, seriale e, tutto sommato, povero di contenuti; ma la loro dimensione umana dovrà essere necessariamente sempre più ricca: perché è solo così che possono utilmente concorrere all’accumulo del “valore totale” e generare, per tale via, l’autentica potenza produttiva del capitalismo moderno.

Insomma, il capitalismo moderno ha bisogno di uomini e donne più capaci e coscienti, non perché questo serva a produrre le singole merci (la qual cosa è ormai affidata ampiamente alle macchine o ai paesi capitalistici meno sviluppati), ma perché solamente individui coscienti e capaci possono concorrere a riprodurre ed accrescere “la società” nel suo insieme, con tutte le sue relazioni sociali, economiche e giuridiche.

Così, davvero il capitalismo ha ridotto la grandissima parte dell’umanità alla condizione di servi del e per il capitale: ma non nella forma di una massa bruta e impoverita di uomini e donne privi di tutto. Al servizio (forzato) del capitale e della sua riproduzione sono oggi milioni e milioni di uomini e donne dalle enormi potenzialità e dalle straordinarie competenze e conoscenze. Ed è da essi che, già ora, potrebbe essere rimodellato il mondo come luogo della autonomia e della scelta,della creatività e del sapere, della solidarietà e della  fratellanza, della bellezza e del bene.

Ecco dunque la irrisolvibile contraddizione di questa fase del capitalismo, il quale, nello sviluppare le forze produttive, non ha potuto fare a meno di generare individui con un livello di coscienza e conoscenza ormai totalmente incompatibili col capitalismo medesimo.

In poche parole, l’assetto sociale capitalistico costringe gli uomini non soltanto alla schiavitù del lavoro salariato e a vivere, in larga misura, ancora ai limiti della penuria; ma li costringe anche a competere in modo distruttivo tra di loro, a praticare l’egoismo e l’utilitarismo immediato, a  contrarre le proprie capacità e la propria creatività, a vivere nella solitudine e nella cupezza, a coltivare la violenza e la sopraffazione, ad esser preda della paura e della rabbia. E però, contemporaneamente, la possibilità, per ciascun individuo, di esprime creatività, liberare l’attività umana dalla pura necessità, praticare concretamente la fratellanza e ricercare la felicità è non solamente oggi possibile, ma sempre più necessaria. Mi riferisco alla spinta pressoché spontanea degli individui in quanto tali, i quali, già sollecitati alla “pienezza umana” dal capitalismo per i suoi fini, non possono che spingere per divenire, in piena autonomia, ulteriormente “pieni di umanità”. Ed è proprio questa aspirazione profonda, ormai venuta a maturazione, che confligge irrimediabilmente con i rapporti sociali nei quali siamo tutti ingabbiati.

Se, dunque, la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione opera ancora? Certo, opera. Ma opera in forme completamente nuove rispetto all’Ottocento e al Novecento. In fondo, è proprio una “legge” della storia che non ha smesso di agire nella società degli uomini. Ed in questo, del vecchio Marx, credo francamente non ci sia niente da aggiornare.

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