Appunti per il forum “il meridionalismo che cambia”
Una storia sbagliata
Il dilagare del rapporto sociale di capitale in ogni attività umana e in ogni luogo del pianeta non è solo un dato quantitativo: per vincere la sfida mortale contro la sua stessa tendenza alla crisi e contro l’assalto al cielo del proletariato, il capitale produce, nel corso del ‘900 una vera e propria rivoluzione del proprio sistema: il pilastro della produttività, la valorizzazione degli investimenti capitalistici e la stessa crescita della ricchezza accumulata, in conseguenza di quella estensione in ampiezza e profondità, non resta più ancorato alla forza-lavoro del singolo operaio, ma si sposta sul sistema-paese nel suo complesso (come finanche gli scienziati dell’economia politica riescono a comprendere) o, per dirla con Marx, sulla mobilitazione produttiva del corpo sociale, sul general intellect, sull’individuo produttivo sociale.
Il rapporto di capitale non solo si estende a tutte le attività e in tutti i luoghi, insomma, ma la sua riproduzione non è più il risultato della somma di tanti segmenti confliggenti. Anzi, è la riproduzione del general intellect a consentire ai diversi capitali di continuare ad operare: è l’insieme che regge i singoli segmenti, e non il contrario.
La competizione “minore” nei sistemi-paese cede il passo alla competizione “maggiore” tra i sistemi-paese per occupare i gradini più elevati della scala imperialista e dominare il mercato globale. Perché la ragione di scambio dipende, “naturalmente”, dai rapporti di forza dei soggetti in competizione.
Il mondo capovolto
Questo cambio di passo aumenta la produttività in misura gigantesca: e più il sistema ingigantisce più una quota parte degli uomini e delle donne non sono più utili, diventano non-integrabili dentro le coordinate del sistema medesimo. Diventano una pura “eccedenza”, sono “in più”.
Lo scambio di valore continua ad avvenire secondo la regola apparentemente obiettiva dello scambio di merci. Non solo nella testa dei cocciuti marxisti, ma anche nell’inferno del mercato capitalistico le cose funzionano infatti in maniera abbastanza semplice: il valore di una merce corrisponde in ultima analisi al valore del tempo necessario alla sua riproduzione per cui una merce prodotta in un luogo che “vale poco” costerà di meno e non converrà produrre quella stessa merce in un luogo che “vale molto”.
Nel mondo globalizzato dell’imperialismo una parte, quella meno forte, produce a basso costo alcune merci ed un’altra parte le utilizza consumandole soprattutto per sviluppare merci di maggior valore.
I sud del mondo da luoghi di prelievo forzato delle braccia, con lo schiavismo e da luoghi di rapina delle materie prime, con il colonialismo, diventano, all’inizio del secolo scorso e in tutta la fase del primo imperialismo, l’inferno del plusvalore assoluto: le ragioni di scambio diseguale imposte prima dalle cannoniere e poi dalle borse consentono ai nord del mondo uno sviluppo pagato con i sovrapprofitti. La putrescenza prevista da Lenin non arriva e il capitale, nella sfida con se stesso e con il fantasma del comunismo, rilancia, costruendo un mondo interamente a sua immagine e somiglianza, in cui convivono schiavismo, colonialismo, imperialismo in un contesto in cui, però, a differenza del passato, l’eccedenza della forza-lavoro è strutturale e c’è bisogno di aree in cui concentrare il degrado del sistema, il risultato estremo della sua entropia, insieme alle attività basilari di più scarso valore
I Sud ed il Sud
Due terzi della produzione mondiale di cobalto, minerale fondamentale per le batterie al litio di telefonini e auto elettriche, arriva dalle miniere del Congo, dove viene estratto in condizioni proibitive, spesso da bambini destinati a morire di cancro in giovane età.
Ecco: dove la colonna portante della riproduzione, ovvero il sistema-paese, ha un valore di produzione in termini di unità temporali, più basso di un altro, la merce prodotta avrà un valore più basso. E così i giorni di quei bambini del Congo saranno scambiati con i minuti del prodotto finale realizzato in Cina e assemblato negli USA.
I sud del mondo sono il motore sporco del sistema e anche la sua discarica: il regno del plusvalore assoluto ma anche dello spreco assoluto, dove concentrare miseria e degrado, allontanandolo quanto più possibile dalla metropoli che, però, continua a succhiare, indifferente al dolore e alla morte, tramite lo scambio diseguale neo-imperialista, il valore necessario alla sua riproduzione allargata.
Tutta la catena sovrastante aspira valore, scambiando il tempo, concedendo minuti del proprio sistema in cambio di giorni di misera vita: quelli più grandi, i nord del nord, scambiano con quelli minori, lungo una catena che finisce in quelle miniere e in quelle fabbriche.
I sud sono il necessario corollario dei nord: a scala planetaria sono avviate ad un drammatico destino vastissime zone del mondo e centinaia di milioni di persone. All’interno dei singoli sistemi-paese, anche quelli più avanzati, ad aree di grande concentrazione della potenza produttiva corrispondono aree dove l’economia si configura soprattutto come lavorazione di scarti e di rifiuto. “Rifiuto” come cose da buttare, e “rifiuto” come persone da cancellare, o contenere comunque in uno stato “di minorità”.
Totalizzazione e intelligenza artificiale
La rivoluzione informatica dota questa fase dello sviluppo del capitale di una immensa risorsa, perché permette il trasferimento massivo dell’intelligenza nel sistema macchinico, rendendolo autonomo dalle persone: e soprattutto, permette un balzo in avanti del processo della totalizzazione perché con l’intelligenza artificiale ogni attività può essere “tecnicamente” finalizzata ad aumentare la capacità produttiva del sistema: in prospettiva tutto il tempo di vita può essere sussunto nel processo di valorizzazione.
Il suo funzionamento a rete potenzia enormemente la macchina del capitale, aumenta ulteriormente la velocità dei cicli di riproduzione e la conseguente necessità di dismettere sempre più velocemente merci-rifiuto, di ridurne la durata del ciclo di vita.
Questa tendenza segna uno stato-di-crisi permanente: mentre i valori d’uso (cioè l’utilità delle “cose” e delle “attività” per gli utilizzatori) aumentano a dismisura (si pensi alle tecnologie della comunicazione) il loro valore di scambio (cioè il prezzo sul mercato) si riduce.
La valorizzazione capitalistica si basa, però, sui valori di scambio.
In questa corsa per recuperare frazioni di valore il capitale è costretto, così, a comprimere i cicli di vita delle merci, ovvero il loro valore d’uso nel tempo ovvero il tempo in cui il valore d’uso permane: a trasformarle il più presto possibile e nella misura più ampia possibile in rifiuti. E tra le merci trasformate in tempi sempre più brevi ed in misura sempre maggiore in rifiuti c’è la merce per eccellenza: la forza-lavoro.
La questione meridionale
Per questo motivo in ogni nord c’è sempre un sud, c’è un luogo in cui è necessario concentrare il degrado, i rifiuti, l’eccedenza di manodopera.
La riproduzione dei Sud da parte dei Nord funziona in maniera quasi perfetta.
La si può disegnare seguendo i grandi flussi migratori dall’inizio del processo di totalizzazione, dopo la Grande Guerra, nel secondo dopoguerra, dopo il crollo dei regimi dell’Est e nei giorni nostri tra le nazioni e all’interno delle stesse nazioni.
In ogni nord si riproduce, nei limiti possibili, una differenziazione interna al sistema-paese, funzionale a determinare la possibilità di una riserva interna di scambio diseguale.
In Italia sia i governi liberali che poi il fascismo si posero in continuità da questo punto di vista, mutuando dal primo colonialismo dei conquistatori piemontesi la violenta repressione di qualsivoglia pretesa di allineamento delle condizioni di vita e di lavoro, trasformando i meccanismi di rapina in obiettive regole di scambio di merci.
Il tentativo della riforma agraria e della riforma sanitaria avviata dalla DC nel secondo dopoguerra, in risposta alle lotte del movimento operaio e contadino, insieme alla stagione dell’intervento straordinario avevano rallentato questa tendenza, inducendo la formazione di una classe operaia sindacalizzata.
Con il cambiamento epocale, dopo la caduta del Muro di Berlino ed il trionfo del neo-liberismo, i rapporti di forza tra le classi, anche in Italia, hanno subito un brusco cambiamento, e l’offensiva egemonica del pensiero unico della globalizzazione neo-liberista insieme all’attacco dei funzionari del capitale alle conquiste degli anni ’60 e ’70 hanno fermato il pur timido processo di riparazione verso il Mezzogiorno: una intera generazione è stata condannata a bruciare ogni speranza e ogni sogno e a riprendere la strada seguita, subito dopo le guerre, dai nonni e dai genitori.
Per una carta dei diritti del Sud
Il Sud dell’Italia fa, dunque, parte della totalità capitalistica italiana proprio con la sua caratterizzazione specifica: è il luogo elettivo dei processi di marcescenza, altrettanto indispensabili, nella fase della “totalizzazione del rapporto sociale di capitale”, dei processi di crescita.
Il capitalismo è giunto a sviluppare pienamente, proprio nel Sud, la contraddizione fra le relazioni produttive che costruisce e la concreta qualità della vita degli esseri umani: e la lotta contro il destino di marcescenza di milioni di persone diventa perciò la parola d’ordine necessaria, da agire in tutta Italia e non solo nel nostro Sud.
E’ un conflitto propriamente moderno, che ricomprende in sé tutti i conflitti storici e tutte le contraddizioni prodotte dal capitalismo nel corso del suo cammino: è il manifestarsi dello scontro tra capitale e vita quello che davvero emerge nelle latitudini meridionali del nostro paese.
La questione meridionale non può essere letta col semplice paradigma della “arretratezza”, come si trattasse di un puro retaggio storico dovuto alla spoliazione sistematica delle risorse del Sud a beneficio dei comparti industriali del Nord.
Ovviamente, tale spoliazione c’è stata e ancora oggi continua in vari modi.
E contro di essa è necessario tentare il possibile, praticando obiettivi “realistici”, commisurati ai rapporti di forza e cogliendo le opportunità che la storia o anche la cronaca può offrire.
Una carta dei diritti del sud dovrebbe, per esempio, avere tra le proprie premesse la critica del principio della “spesa storica” delle Regioni, per cui chi ha speso di meno per l’istruzione, la sanità e la cura dei beni comuni rimane inchiodato, anno dopo anno, alle stesse cifre di sempre e avere tra i propri obiettivi la richiesta dei decreti attuativi della legge n. 18/2017 che corregge parzialmente questo principio e, anche, l’immediata cancellazione della proposta nel DEF di rimettere gli investimenti diretti dello Stato e i Fondi strutturali europei, destinati per principio alle aree deboli, nell’unico calderone del contrasto agli effetti del Covid 19. E sulla base di una redistribuzione di risorse funzionali a combattere il degrado dovrebbe richiedere di affrontare, anche con provvedimenti parziali e tenendenziali le grandi criticità del Mezzogiorno: dalla precarietà dell’esistenza alla distruzione dell’integrità della natura, dalla inefficienza dei servizi di cura al decadimento degli assetti urbani.
Cultura meridiana e liberazione
Obiettivi minimi, è vero. Apparentemente realistici, di buon senso.
Eppure dirompenti, perché il Sud è l’area in cui si è sperimentato, in maniera avanzata e moderna, il lato oscuro dello sviluppo capitalistico contemporaneo.
E la pratica di obiettivi anche minimi può mettere in discussione il destino segnato e indicare una più complessiva proposta di trasformazione degli assetti sociali.
Ma questo “tentare il possibile” se slegato da una cultura critica che voglia “raggiungere l’impossibile” rischia di affogare nella banalità della cronaca, di non essere all’altezza della sfida del fare storia.
La sfida è innanzitutto nell’ambito dei confini del Sud, nei confronti di una cultura oscurantista, largamente presente nelle relazioni civili del nostro Mezzogiorno, di un “plebeismo” accattone del moderno sottoproletariato metropolitano.
Questo nostro Sud si presenta sfregiato certamente dalla logica generale del capitalismo, che costruisce, accanto ai poli della concentrazione produttiva, i poli della marcescenza; e però è sfregiato anche dal peso regressivo del senso comune solidificatosi nel tempo e largamente permeato di individualismo, nonché dall’esaltazione a-critica del proprio “particolarismo”, che alimenta ulteriormente la disgregazione sociale e, non a caso, viene sapientemente coltivato e promosso dalle classi privilegiate meridionali con le ideologie, obiettivamente conservatrici, della “napoletanità”, della “sicilianità”, della “calabresità”, eccetera.
Non si tratta, naturalmente, di una battaglia semplice ed univoca perché non basta ricondurre “semplicemente” la questione meridionale ad una battaglia tra il basso e l’alto della società, perché la storia ha lasciato il segno.
Ma è possibile recuperare, proprio in quanto lotta per i diritti di piena cittadinanza umana, per un’altra cultura contro tutte le barriere geografiche e tutti gli steccati storici, le culture solidali “della terra e del mare”, le culture “meridiane” dell’accoglienza emarginate e ridotte dalla tracotanza metropolitana, eppure ancora vive, soprattutto nelle piccole comunità paesane a misura di bambini e di vecchi, capaci di riannodare i fili tra umanità, cultura, natura e affetti.
La rottura possibile
Non esiste alcuna legge della storia: ma è vero che il processo di totalizzazione fornisce al soggetto alienato un potere grande almeno quanto grande è la sua alienazione.
Proprio perché la valorizzazione non dipende più solo dall’erogazione diretta di forza-lavoro ma dalla potenza dei sistemi-paese, dalla cooperazione volontaria, dalla mobilitazione sociale, nell’epoca della totalizzazione del rapporto di capitale, già nell’imperialismo e ancora di più nel neo-imperialismo contemporaneo, l’economia non è più il dominus, perché la politica, ovvero gli stati, non solo come stati-imprenditori ma ancora di più come stati-gestori, sono ad un tempo strumenti e cabine di comando dei sistemi-paese.
La politica si basa sul consenso, ed il consenso può rompersi. Le conseguenze di questa rottura proprio grazie alla potenza e alla velocità dell’intelligenza artificiale hanno conseguenze rapidissime e planetarie.
Questa rottura ha poco di oggettivo: senza incidenti di percorso non c’è un superamento causato dalla putrescenza come dinamica oggettiva del sistema.
Eppure l’incidente è sempre più probabile proprio a causa della necessaria indifferenza, nella totalizzazione, del rapporto di capitale ai destini dell’umanità e dell’ambiente naturale e allo stesso tempo proprio grazie all’enorme potere, conferito all’umanità dalla totalizzazione, dell’esodo improvviso e contestuale dalla condizione di merce.
Organizzazione e rappresentanza
La possibilità della rottura è data, come sempre nella storia, dalle condizioni oggettive che si vengono a determinare e nella costruzione delle condizioni soggettive. L’incidente, da solo, non determina la rottura, ma ne fornisce solo l’occasione ed allo stato attuale gli incidenti si ripetono in una vera e propria condizione di stato-di-crisi.
Cogliere l’opportunità potrebbe essere possibile se vi fosse consapevolezza della potenza della moltitudine e della sua possibile autonomia dalle necessità di riproduzione del rapporto sociale di capitale e dal suo comando.
Le condizioni della soggettività, da questo punto di vista, sono molto diverse da quelle dell’inizio dell’avventura della totalizzazione: la condizione proletaria si è estesa a praticamente tutta la società e dentro di essa la composizione sociale è mille volte più ricca, più capace ed anche più alienata perché non solo il tempo di lavoro ma anche il tempo di vita sempre più fugge dal produttore per cristallizzarsi nella macchina aliena del capitale. E dunque se all’inizio era necessario un partito di rivoluzionari di professione che guidasse le masse, in gran parte analfabete e con scarse capacità professionali, sulla base di parole d’ordine semplici, realistiche e però dirompenti per il decadente ordine costituito, oggi le moltitudini di individui depoliticizzati dalla vittoria della democrazia liberale, non hanno bisogno e non accetterebbero né il partito-guida, né delegherebbero ad un pugno di rivoluzionari di professione, il partito-avanguardia, i loro destini, né infine sentono il bisogno del paternalismo civico del partito-massa.
Le lotte e le ondate ribelli di inizio millennio (da Seattle 2001 a Minneapolis 2020) stanno disegnando via via una forma nuova in cui è centrale l’autorganizzazione. Migliaia di comitati autonomi tra loro connessi direttamente o indirettamente, grazie all’opera di organizzazioni di attivisti volontari di dimensioni ridotte, tendono ad autorappresentarsi nel conflitto, senza per questo sottovalutare il tema della rappresentanza istituzionale (è evidente, per esempio, che “l can’t breathe” sia interessato a che non venga rieletto Trump).
La rappresentanza, insomma, non coincide più con l’organizzazione e diventa una variabile legata alla pratica dell’obiettivo: l’organizzazione è sempre più “consiliare” e a rete, con snodi “attivi” di coordinamento “flessibile”, con una tendenza che è in certo senso speculare alla tendenza dell’organizzazione produttiva del capitale, così come le forme di partito del movimento operaio nel corso della storia del capitalismo sono state “tendenzialmente” speculari all’organizzazione produttiva.
Tentare il possibile per raggiungere l’impossibile
La rappresentanza diventa più una necessità funzionale alla pratica dell’obiettivo che una necessità esiziale: in molti casi appare utile avere punti di riferimento nello schieramento “meno lontano”, senza illusioni sul “potere costituito” ma senza neanche sottovalutare la loro importanza per gli avanzamenti rispetto agli obiettivi.
Le stesse organizzazioni di attivisti, spesso con posizioni estreme sui temi specifici (sullo scontro di classe come sul razzismo, sull’ambiente come sull’autodifesa delle donne, sui diritti delle altre specie viventi e sulla guerra) hanno punti di riferimento o addirittura sono interne ai partiti maggiormente rappresentativi: in USA al partito democratico, in Gran Bretagna al partito laburista o in Brasile al partito del lavoro, tanto per fare degli esempi.
Il loro riferirsi o la loro internità è a “geometria variabile” nel senso che non costituisce un dato effettivo di appartenenza ma piuttosto il manifestarsi di una capacità di sfruttare l’opportunità pur restando autonomi: un “tentare il possibile” assolutamente tattico per continuare non solo a pensare ma anche a costruire “l’impossibile”, ossia l’orizzonte strategico: consapevoli che ogni passo in avanti, anche piccolo, dell’esodo dalla condizione di merce è un passo nella direzione giusta.
C’è, infatti, spesso un errore d’ingenuità, soprattutto tra i rivoluzionari che non vogliono elaborare il lutto per la fine del ‘900: che per pensare l’estremo e l’impossibile bisogna anche essere estremi e impossibili e agire di conseguenza. Questo conduce inevitabilmente al settarismo ad azioni limitate, inefficaci, a volte controproducenti.
D’altra parte la sola pratica dell’obiettivo accompagnato a idee moderate, rimane subalterna alla realtà.
Non c’è più “peccato di riformismo” a praticare l’obiettivo, anche minimo: al contrario: la pratica dell’obiettivo permette esperienze positive ed è la strada giusta per accumulare la ragione e la forza. Ma, anch’essa, da sola, non basta.
C’è la necessità di una cultura critica della società, della politica e dell’economia che sia dentro le lotte, le pervada, ne costituisca l’alfabeto.
Una cultura che sia incomponibile con lo stato di cose presenti, inassorbibile dall’opinione corrente e irriducibile al senso comune. Una cultura radicale, nel senso proprio del termine, il cui sguardo parta dalle radici dell’alienazione e alzi gli occhi verso quell’impossibile dentro questa storia, la liberazione dell’umano e delle specie viventi, che pure possiamo volere e, che, nel volerlo, possiamo costruire.
E’ la connessione, la tensione tra la pratica dell’obiettivo e il pensare la liberazione, non come “lontana prospettiva che verrà” ma come pratica di vita qui e ora, che costituisce e restituisce la possibilità di fare storia viva e non solo grigia cronaca.