Nell’esordio della sua famosa lettera a Meneceo, conosciuta come “Lettera sulla felicità”, Epicuro (siamo tra il III e il II secolo a. C.) ci avverte che il sentiero della felicità coincide senz’altro con la preoccupazione per il benessere dell’animo nostro. Più oltre ribadisce: “Quando dunque diciamo che il bene è il piacere non intendiamo il semplice piacere dei crapuloni… ma quanto aiuta il corpo a non soffrire e l’animo ad essere sereno”.
Epicuro, dunque, non esalta affatto il piacere edonistico – cosa che gli verrà riconosciuta senza problemi da Seneca, che pure, nel suo De vita beata, contesterà risolutamente la connessione tra piacere e virtù proclamata dalle scuole tardo-epicuree -, bensì invita al piacere misurato, a perseguire, soprattutto, la serenità dell’animo. I precetti attraverso i quali si arriva alla serenità d’animo sono sostanzialmente due. Il primo è non aver paura degli dei, poiché essi, dice Epicuro, “sono materia eterna e felice”. Proprio questa loro condizione di felicità li porta a non desiderare il male degli umani. Gli dei, anzi, riconoscono come loro simile chi è perfettamente felice, e restano indifferenti nei confronti di coloro che non riescono ad esserlo. L’altro precetto è la non paura della morte. L’affermazione è nota: “quando noi viviamo la morte non c’è; quando c’è lei non ci siamo noi”. La morte, in sostanza, che pure è giusto definire come il più atroce dei mali, non esiste per noi. Essa esiste solo “per sé”.
In questo quadro di fuoriuscita dalle paure ancestrali, si delinea una funzione attiva dell’essere umano, nel senso – cito ancora Epicuro – che “il futuro non è del tutto nostro ma neanche del tutto non nostro”. È però quest’azione effettiva bisogna che si svolga non a casaccio, e a ciò spinge la filosofia (o almeno la filosofia come la intende Epicuro). L’essere umano individuo può darsi, infatti, una meta chiara, desiderabile e raggiungibile: può camminare, cioè, verso la serenità dell’animo, e può farlo anche sulla base dei piaceri materiali, a patto però che essi non siano perseguiti per se medesimi. In questo senso, sottolinea il filosofo, “non il tempo più lungo si gode ma il più dolce”. E questo concetto di dolcezza, è facile intuirlo, rinvia linearmente all’unico piacere compiuto, che è comunque quello dell’animo, non il piacere del corpo.
Per citare sempre Epicuro: “i sapori semplici danno lo stesso piacere dei più raffinati, l’acqua e un pezzo di pane fanno il piacere più pieno a chi ne manca. Saper vivere di poco non solo porta salute e ci fa privi di apprensione verso i bisogni della vita ma anche, quando ad intervalli ci capita di menare un’esistenza ricca, ci fa apprezzare meglio questa condizione e (ci rende) indifferenti verso gli scherzi della sorte”. In sintesi, ed è questo il messaggio fondamentale di Epicuro, “non si dà vita felice senza che sia intelligente, bella e giusta, né vita intelligente, bella e giusta priva di felicità”. In una battuta: “le virtù sono connaturate alla felicità e da questa inseparabili”.
Questo nesso strettissimo di “felicità” e “virtù” – largamente frainteso sul versante del collegato, ma anche subordinato, nesso di “felicità” e “piacere” (Epicuro si riferisce, a tal proposito, non ai piaceri mondani e transeunti, quelli che chiama piaceri cinetici, bensì al piacere spirituale che egli definisce piacere catastematico, e cioè “stabilizzato”) – è probabilmente il lascito fondamentale venutoci dalla filosofia morale dell’età antica.
Gli stoici romani – per esempio, il già citato Seneca, ma anche Epitteto e Marco Aurelio – negarono risolutamente il nesso di “virtù” e “piacere” proposto da Epicuro, nesso largamente frainteso dai suoi stessi più tardi discepoli, i quali effettivamente inclinarono al primato logico del piacere sulla virtù. Contro la torsione edonistica dei tardi epicurei, “sustine et abstine” diceva Epitteto (lo riporta lo storico Gallio), e cioè: sopporta il dolore e astieniti dai beni apparenti. E però gli stessi stoici romani (non sempre consapevoli delle affinità col filosofo greco) mantennero, a loro volta, non solamente il richiamo alla “virtù”, ma proprio l’essenziale del ragionamento di Epicuro, ovvero il sentimento di distacco dalla “terrenità”.
La felicità equivaleva, tanto per Epicuro quanto per Seneca, al distacco intellettuale dagli affanni e dalle preoccupazioni (è la pratica, della atarassia, ovvero la imperturbabilità di fronte o ciò che di brutto, o anche di buono, ci capita), e coincideva perciò con una sorta di aponia assoluta, cioè con la liberazione dalla condizione di pena (tale è il significato letterale della parola “aponia”) degli esseri umani, pena continuamente alimentata dalla nostra insopprimibile finitudine. Siamo immersi, di fatto, nel “male di vivere”; e però possiamo sottrarci al gorgo, vivendo, appunto, con equilibrio e armonia, al di sopra delle passioni della vita.
Indubbiamente in età romana, e ancor più in età cristiana, si insisterà particolarmente sul primato nettissimo della virtù rispetto al piacere: quest’ultimo avrà ancora un valore, almeno presso la cultura romana, ma come mero effetto della virtù (Seneca, De vita beata, IX: “voluptas non est merces nec causa virtutis sed accessio”, il piacere non è né il premio né la causa della virtù, ma un elemento accessorio”). In sostanza, la virtù (areté) cammina adesso di forza propria, ed è semmai collegata maggiormente alla conoscenza e al sapere, piuttosto che alla eudaimonìa di Epicuro (la parola è composta da εὖ «bene» e δαίμων «demone; sorte», e letteralmente significa “essere posseduti da un buon demone”, ovvero da una positiva spinta interiore. Si traduce perciò con “felicità”, ma forse è più pregnante la parola latina “beatitudo”, poiché sottolinea maggiormente la curvatura spirituale del termine).
Tornando al punto, io ritengo che non debbano essere enfatizzate più di tanto le differenze tra stoici ed epicurei. Per entrambi, infatti, il rapporto con la felicità rimane esclusivamente un fatto privato, segnato dalla “interiorizzazione” della vita, non dalla sua estrinsecazione nel mondo. Per dirla con Marco Aurelio (A se stesso, IV, 3): “Un uomo non può ritirarsi in un luogo più quieto o indisturbato della propria anima… e per benessere non intendo altro che il giusto ordine interiore”.
Non è un caso, in effetti, che i filosofi siano stati lungamente rappresentati come nemici intemerati della convivialità e della gioia di vivere, come persone incapaci di gettarsi a capofitto nelle pulsioni della vita, come intelletti astratti e solitari; e che poi fossero puntualmente derisi quando mostravano il loro lato più terreno: il bere, il mangiare, i piaceri sessuali, l’ambizione, i desideri, eccetera.
L’idea della felicità come fatto “interiore”, concettualmente separata dal mondo terreno e dalla vita sociale, sarà ulteriormente accentuata dalla cultura cristiana, la quale per lunghi secoli ha visto con sospetto persino il discorso sulla possibile felicità terrena (cosa che, pur se in modo più attenuato rispetto ad Epicuro, ancora aleggiava nello stoicismo romano). Col Cristianesimo, il sapere assumeva, come sua funzione prioritaria, proprio la dissacrazione della terreneità. Si contrappongono risolutamente, insomma, la Civitas Dei e la Civitas homini.
L’imperfezione del mondo umano discenderebbe linearmente dal peccato originale, e cioè dall’allontanamento di Adamo ed Eva dalla condizione di unità assoluta col Creato. Quell’allontanamento simboleggia il volgersi irrimediabile dell’animo alla molteplicità dispersiva del mondo (il concetto veniva ai cristiani dalla stessa cultura greca, segnatamente da Plotino, che restò un riferimento costante per Agostino). Ma da questa condizione dispersa, argomentavano i pensatori cristiani, non potrà venire alcun percorso di felicità. E anche il solo sperarlo, anche il solo affaccendarsi intellettuale sulla felicità, rischia di tramutarsi in una offesa al Signore. Non siamo più nel Paradiso terrestre; siamo su questa terra, e ci stiamo per soffrire: questo il quadro indicato dal pensiero occidentale lungo il Medioevo e fino all’avvio dell’Età moderna.
E contro questa sofferenza l’unica salvezza sta nel volgersi completamente a Dio. Così leggiamo nel Libretto della vita perfetta, redatto da un Anonimo francofortese (probabilmente un cavaliere teutonico della fine del Trecento) e poi stampato e divulgato da Lutero agli inizi del XVI secolo col titolo di “Teologia tedesca”: “Per dirla in breve, la beatitudine non sta in alcuna creatura od opera creaturale, ma solo in Dio e nell’opera sua. Perciò io dovrei fare attenzione soltanto a Dio e al suo agire, distaccandomi da ogni creatura con tutte le sue opere, e prima di tutto da me stesso” (cap. IX).
Si approda, in sostanza, all’uomo della noluntas, all’uomo privo di volizioni e desideri, un uomo che espunge da sé persino il desiderio dell’armonia interiore. Ed è proprio per questa propensione all’annullamento dell’essere umano che, tre secoli dopo Lutero, Arthur Schopenhauer esalterà nuovamente quel libretto, paragonando il suo sconosciuto autore addirittura a Platone e a Buddha.
In verità, non bisogna dare troppo credito all’immagine cupa del Medioevo che ci viene dalle rappresentazioni fattane, ovviamente in chiavi diverse e finanche opposte, tanto dall’Illuminismo quanto dal Romanticismo. Il lungo Medioevo cristiano presenta, infatti, molte sfaccettature. La stessa filosofia si è svolta lungo quei secoli con un profilo di grande ambiguità: da un lato, riaffermava il precetto di derivazione stoica (o meglio: stoico-epicurea) sul lavorio di rasserenamento dell’anima che ciascuna persona doveva perseguire; dall’altro, intimava di tenersi a distanza dalle lusinghe del mondo, anche dalle lusinghe di tipo intellettuale a proposito della virtù, poiché il mondo degli uomini era quello della falsa verità e non della verità assoluta, la quale apparteneva esclusivamente al mondo di Dio.
S’incontravano queste due spinte (l’impegno per arrivare alla serenità d’animo e il confidare soltanto in Dio) su un punto preciso: il depotenziamento, e persino la condanna e la mortificazione, del corpo. Indubbiamente siamo agli antipodi di Epicuro, nel quale non c’era alcun disprezzo per il corpo: i piaceri dell’anima subordinavano sì i piaceri corporali, e però non sentivano affatto il bisogno di cancellarli. Ma siamo anche lontani da Seneca, che sottolineava il valore della virtù umana nella costruzione della felicità.
Nella società cristiana la virtù filosoficamente elaborata, necessaria dal punto di vista del filosofo proprio perché dava una ragione allo stesso filosofare (nel senso che il filosofare si qualificava come un’attività nobile proprio perché poneva capo a un miglioramento della umana dimensione), è anch’essa insufficiente: per quanto non sia impura come il corpo, la virtù resta comunque una sorta di sfida a Dio. Dovrà trasformarsi in “virtù cristiana” per essere accettata, perdendo ogni connessione con la dimensione “impura” della terreneità.
E arriviamo, a questo punto, alla svolta epocale costituita dalla modernità. Essa si impone nei secoli XVII e XVIII, e poi soprattutto con quello che avviene alla fine del XVIII secolo, e cioè la Rivoluzione Francese. Tutto cambia in questa nuova era. E cambiano anche i paradigmi discorsivi sulla felicità. Se fino ad allora la contesa era stata tra virtù e piacere, e poi tra virtù umana e affidamento a Dio, ora lo scenario viene modificato profondamente dalla intromissione inedita dell’altro. L’altro: cioè l’altro essere umano che sta di fronte a me come altro da me.
Soprattutto si realizza, in uno con la costruzione concettuale dell’altro, l’io individuo, la persona umana in quanto tale. Si costruisce, cioè, sul piano storico, ciò che io qualificherei come “paradigma antropocentrico”. Occorre averlo chiaro: l’individuo, la persona umana in quanto tale è stata una conquista faticosa. Non era un concetto noto ai greci, i quali si pensavano appunto come greci, non come individui in sé, e consideravano il mondo diviso in greci e non-greci (oi barbaroi). Altrettanto valeva per i romani: esistevano i romani e i non-romani. E parimenti hanno fatto i cristiani e tutte le grandi religioni, dall’Islam all’Ebraismo alle molteplici religioni indiane ed orientali, dividendo tra fedeli e infedeli, e considerando quest’ultimi in uno stato di minorità. La condizione propriamente umana, per dirla in breve, non era appannaggio di tutti i nati da donna; e ancora agli inizi del Seicento c’erano uomini coltissimi che sostenevano la tesi che i selvaggi d’America non avessero propriamente un’anima…
In sostanza, prima dell’età moderna, l’essere umano non viene mai concettualmente separato dalla koiné che lo circonda (il vocabolo indica l’assetto comunitario; dal verbo greco κοινόω che significa “rendo comune”, “metto in comune”, “partecipo”, “condivido”). L’individuo dell’età pre-moderna non è riconosciuto come entità distinta dalla appartenenza geografica, sociale e culturale che lo comprende, non è mai pensato fuori dal contesto comunitario nel quale è nato. Di contro, lo straniero, il senza patria, vive una condizione umana assai diminuita. Egli è un transfuga, un precario della vita.
Presso i greci era perciò la pòlis, la Città-Stato, che dava vera sostanza all’esistenza umana, o era la romanità negli anni dell’Impero, oppure la religione in età cristiana. La substantia umana in sé, separata dalla koiné cui si appartiene, è stata riconosciuta solo con difficoltà: si è trattato, di fatto, della principale conquista della modernità, della svolta storica che noi ancora viviamo.
Ma la conquista concettuale dell’individuo in sé, della persona umana in quanto tale, comporta due precise conseguenze a proposito del discorso sulla felicità. La prima conseguenza è il valore che si riconosce al corpo. Ritorna, per così dire, di attualità Epicuro; e però con ben altre coordinate di riferimento.
Di fatto, il corpo si riafferma anche con molti eccessi: è il bastone che si storce dall’altra parte. Dopo secoli di misconoscimento, il corpo reclama la pienezza della scena, e con essa il trionfo della “materialità” in generale. Avremo una cultura dell’identità materiale un po’ in tutti i campi del sapere, dalla ricerca storica alle scienze applicate alla stessa filosofia (un nome per tutti, Michel Foucault, che così si esprimeva, in una conferenza radiofonica del 1966 – ora in M. Foucault, Utopie. Eterotopie, Cronopio, Napoli 2006: “Il mio corpo, in effetti, è sempre altrove, è legato a tutti gli altrove del mondo e, in verità, è altrove rispetto al mondo. È infatti, intorno a lui che le cose si dispongono, è rispetto a lui – e rispetto a lui come rispetto a un sovrano – che ci sono un sopra, un sotto, una destra, una sinistra, un avanti, un indietro, un vicino, un lontano. Il corpo è il punto zero del mondo; laddove le vie e gli spazi si incrociano, il corpo non è da nessuna parte: è al centro del mondo… Il mio corpo è la Città del Sole, non ha luogo, ma è da lui che nascono e si irradiano tutti i luoghi possibili, reali e utopici”).
Ma su questo non mi dilungo: è sotto gli occhi di tutti come la felicità, e direi anche la dignità, del corpo (e dei piaceri del corpo) sia un elemento centrale dei progetti di vita delle persone nel nostro mondo contemporaneo. Più significativo, ai fini del nostro discorso, è la conseguenza che ci viene dall’insorgere inaspettato del “doppio dell’io”, e cioè l’altro, l’entità che necessariamente si costruisce “assieme a me”, proprio in quanto depositaria, come uno specchio, della mia nuova identità di individuo eslege, di “io” già definito in sé, prima della stessa comunità che lo circonda. Attenzione: non sto parlando di un “altro” specifico, di chi appartiene magari alla mia stessa famiglia, al mio stesso clan, alla mia stessa polis, alla mia stessa religione; mi riferisco, invece, proprio all’altro in generale, l’altro essere umano, quello che definisco tale esattamente per potermi definire a mia volta “umano”. Ed entrambi, sia io che lui, siamo ora entità concettualmente indipendenti dalle koiné che pure concretamente viviamo.
E così giungiamo davvero alla novità di fondo. Prima della modernità, non c’era un effettivo concetto né del “sé” e né dell'”altro”. E però proprio il discorso umano sulla felicità presupponeva un “io” che ragionava su se stesso. Qui si annidava un’impasse gigantesca. Non possedendo realmente il concetto di “io”, i filosofi pre-moderni oscillavano tra la precettistica spicciola sui piaceri o la virtù e l’ideale del discorso filosofico (o teologico, a seconda dei casi) come unico compimento dell’uomo: esattamente in quanto discorso, in quanto logos. Sicché l’uomo e il discorso sull’uomo divenivano la medesima cosa. Chi sosteneva che l’uomo doveva impadronirsi della virtù, o del piacere o di Dio, intendeva, in realtà, che la virtù, o il piacere, o Dio, dovessero impadronirsi dell’uomo.
Ora invece, nel tempo della modernità dispiegata, l’essere umano si ritrova inaspettatamente nudo: è egli il prius, proprio in quanto tale. Di conseguenza, la felicità potrà concepirla solo “a sua propria misura”.
Ma allora? Poiché gli uomini e le donne sono tanti e tante, avremo forse tante felicità diverse, ciascuna ritagliata su ogni particolare individuo? Sì e no. Nella modernità, un io che ragionasse esclusivamente su di sé incontrerebbe subito un limite invalicabile. Intanto, si scontrerebbe, sul piano pratico, con la circostanza ineludibile che abbiamo sempre a che fare, fin dalla nascita, con l’altro da noi.
Ma la fragilità della inseità come pura ipseità, come “se stesso e basta”, esiste proprio sul piano teoretico, poiché in un contesto di affievolimento delle koiné, delle appartenenze, i discorsi che mi concernano riuscirò a sentirli validi soltanto se emergeranno come discorsi “in-universale”, e cioè come discorsi che qualunque essere umano, al di là del mio tempo e del mio spazio, potrebbe far propri. Solo in quanto l’altro da me li fa propri (o potrebbe senza difficoltà farli propri: sul piano teoretico l’assunto non cambia), essi mi torneranno confermati come discorsi effettivamente “a misura” anche di me; di me, appunto, in quanto essere umano in sé compiuto.
Di fatto, Epicuro e Seneca parlavano a Meneceo, a Lucilio, ai filosofi come loro, cioè a chi era sapiente già di suo, e che perciò, come chiariva Platone, restava rigidamente separato dai guerrieri e dagli artigiani, a loro volta rigidamente distinti dagli schiavi; e tutti assieme distinti e distanti dai “barbari”. Ora, invece, siamo arrivati all’io moralmente eslege, che può sorprendentemente pensarsi come libero dai condizionamenti della propria nascita; e questa identità dell’io-in-quanto-io mi viene testimoniata proprio dall’altro in generale che mi sta di fronte, il quale mi riconosce uguale a lui e mi spinge, di conseguenza, a riconoscerlo uguale a me.
In tal modo, la stessa precettistica sulla felicità non potrà più essere riservata a pochi, a me e ad altri come me: in partenza dovrò pormi il problema di una precettistica che valga coram populo, erga omnes, per tutti. Ma – ed è questo il punto decisivo – sarà proprio la stessa felicità a non poter più presentarsi come un fatto privato.
Ecco il messaggio che davvero ci consegna la modernità: come i precetti dovranno valere per tutti, anche la felicità potrà vivere solo a scala collettiva. È una dimensione che può respirare solo in mezzo agli esseri umani in quanto tali, complessivamente intesi; e che concretamente dovrà coinvolgere quanto più esseri umani possibile, e in tendenza tutti gli esseri umani nel loro sforzo di vivere e migliorare se stessi: e sto qui parafrasando l’espressione contenuta in una bella lettera di Antonio Gramsci al figlioletto Delio, una delle sue ultime lettere, sul valore della storia. Egli parlava del valore della storia: ma la storia è esattamente la storia degli esseri umani; e il valore della storia equivale al valore che concretamente noi stessi assegniamo agli esseri umani.
La ricerca della felicità equivale, in definitiva, al cammino storico degli esseri umani per conquistare a se medesimi (o reinventare, se si preferisce) la propria umanità. Anche questa ricerca, al pari di molte altre cose, è un “fatto politico”. E non c’è nulla di scandaloso nell’assegnare alla politica il fine della felicità umana: l’incontro possibile di ciascuno di noi con la felicità può realizzarsi, infatti, soltanto dentro una dimensione dialogica con i nostri simili. Il vivere, ci piaccia o no, non può essere più concepito – oggi, nella modernità dispiegata – come un vivere puramente individuale. Ineluttabilmente esso ci concerne tutti, proprio tutti, uno per uno e tutti assieme.
Questa nostra concreta modernità storica si è rivelata, tuttavia, terribilmente duplice. Non spinge solo nella direzione del sé e dell’altro e nella costruzione della loro relazione armoniosa; spinge anche, poiché una delle sue fondamentali forze agenti è esattamente il capitalismo, nella direzione del rimpicciolimento dell’essere umano alla misura della merce e alla singolarità specifica dei valori economici.
È vero: l’io contemporaneo non è più l’individuo impossibilitato ad essere altro dal proprio contesto di riferimento; e però, invece di divenire un concreto soggetto onnilaterale, liberamente consonante con ciò che ha davanti, questo io finalmente definitosi si ritrova quasi ovunque come individuo disperatamente solo. Da un lato, è in relazione costante con tutti gli altri che, come lui, nascono, si muovono, soffrono, agiscono, sperano e muoiono; ma, dall’altro lato, è occupato fondamentalmente nella autocontemplazione del sé; e questo avviene proprio perché, in tutti i lati del suo esser-ci storico, egli continuamente sperimenta che la propria esistenza dipende null’altro che dal suo valore specifico di mercato, dalla capacità che ha di vendere se stesso e le sue abilità. Di fatto, non ha più alle spalle una qualche koiné che lo sostenga per davvero: né polis, né religione, né entità politico-culturale.
Il mondo è diventato universale in senso proprio e ha rotto definitivamente i vecchi particolarismi. E però questo mondo universale è anche il mondo che addita, come sue fondamenta, il particolarismo minimo del singolo individuo ridotto a merce specifica e posto in opposizione e concorrenza con tutte le altre merci, anzitutto con le merci simile a lui, vale a dire gli altri uomini e le altre donne.
Lo scenario perciò si complica. L’essere umano è finalmente giunto alla costruzione del sé come individuo e a non dipendere ontologicamente dal segno della sua nascita, dal contesto storico, geografico e culturale che lo ha generato; anzi, proprio per questo, è ora riuscito a cogliere in coloro che gli stanno di fronte le stesse sue caratteristiche, e ciò lo ha portato linearmente a riconoscere insieme al sé anche l’altro.
Nondimeno, questo essere umano finalmente libero ed estroverso viene costretto dal sistema delle relazioni produttive e civili ad essere null’altro che una entità solitaria, sicché la parabola della modernità somiglia molto al gioco di un illusionista malvagio che dischiude un grande orizzonte pieno di colori e di suoni armonici e di dolcezza, e che però subito dopo lo ricaccia nell’ombra, facendo piombare gli esseri umani in una condizione di contrasto con i propri simili e con la propria stessa naturale propensione all’amicizia e all’incontro.
La parabola rivela la sua faccia negativa: dall’essere umano mutilo dell’età pre-moderna sembra che siamo passati semplicemente all’essere umano solitario dei nostri giorni.
Non solo. Questa modernità negativa, per rendere meno crudele la robustissima solitudine costruita attorno agli esseri umani, distribuisce anche molti allettanti surrogati di risoluzione: dall’incontro forzoso entro le regole del mercato, come consumo reciproco degli “io”, al simulacro vero e proprio dell’altro, come disegnato entro l’ambito delle nuove relazioni virtuali. Si tratta di surrogati che danno qualche sollievo, ma in realtà spingono ancor più l’io nel buio della solitudine. E nella stessa direzione vanno anche la quasi totalità delle nuove narrazioni sulla speranza umana. Si pensi, ad esempio, ai vagheggiamenti e alle nostalgie sui passati mitici.
Proprio questo nostro tempo, reso così tormentato da molte insicurezze globali – da quelle climatiche a quelle alimentari a quelle geopolitiche – sembra particolarmente esposto alla pratica obnubilatrice del rimpianto. Rimpianto di che? Di epoche che vengono ri-narrate in termini nuovi e falsi, con una coltre spessissima di irrealismo storico che le rende simili al mondo mitico delle fiabe o alle età felici di cui parlano un po’ tutte le religioni, dalla greca età dell’oro alla romana età di Saturno al paradiso terrestre delle “religioni del Libro”. “Retrotopia” l’ha chiamata efficacemente Zygmunt Bauman: vale a dire la tendenza a costruire lo éu-tòpos, il “buon luogo”, proprio nel passato, poiché il presente è incerto e il futuro si presenta minaccioso.
Ma davvero la vicenda degli esseri umani dovrà finire con un simile scacco? Io penso di no. Penso che il terreno guadagnato dalla modernità con la costruzione dell’io, e simmetricamente dell’altro, possa non andare disperso, che possa ancora fungere da leva feconda per costruire una condizione umana più compiuta, ovvero delle persone a tutto tondo e delle relazioni sociali nel segno dell’armonia. C’è però bisogno di lottare: una lotta culturale innanzitutto, ma anche politica e sociale. Il tema è quello della dignità delle persone: non della persona astrattamente concepita, ma proprio la dignità di tutti e tutte, uno per una.
Assumere la persona umana come chiave di volta della lettura degli avvenimenti del mondo e delle sue contraddizioni significa, di fatto, contrastare in radice la logica dei rapporti economici e sociali mercificati e, contemporaneamente, la logica della alienazione solipsistica che ci rimpicciolisce attorno al nostro singolo corpo. La prospettiva, insomma, dovrebbe essere quella che un autore forse poco accettato come filosofo e noto piuttosto come teologo, pedagogista e sociologo, Ivan Illich, chiamava “dimensione della convivialità”. E ciò nel senso letterale del termine: convivialità = cum alio vivere, vivere assieme agli altri.
Nel XIX e XX secolo questa spinta a vivere collettivamente in armonia, uguaglianza e fraternità è stata indicata spesso col termine “comunismo”. Io non so se nel XXI secolo dovremmo usare ancora questo termine. In mancanza di uno più convincente, va forse ancora bene; anche perché la questione concerne il contenuto sia di tale termine che del processo cui esso si riferisce. Il contenuto è quello della costruzione, in uno con una nuova società, anche di una umanità nuova.
Il processo è quello di un concreto impegno di speranza che implichi azione individuale e collettiva; e quest’opera intimamente costruttiva rinvia, a sua volta, a molti ulteriori terreni specifici d’azione: il piano della cultura e della consapevolezza, il piano delle istituzioni e della politica, il piano delle relazioni produttive e di consumo. Sono tutte cose che, oggi come oggi, hanno il segno dello squilibrio e della compressione dell’umano. Ma questi segni regressivi sono, essi stessi, in oggettiva contraddizione con il cuore del processo di modernizzazione, che è appunto l’io assieme all’altro.
Non è un caso che tutti riscontriamo con facilità come ci sia uno scarto impressionante tra la realtà miserabile che ci attornia e le grandi parole nate con la Rivoluzione francese del 1789 e sancite dalla Dichiarazione ONU sui diritti dell’uomo, le stesse che leggiamo nel Preambolo della Costituzione della Repubblica Italiana. Di fatto, gli esseri umani hanno elaborato parole incisive, grandiose e davvero nuove su se medesimi. Ma hanno fatto poco o nulla per attuarle.
Dobbiamo “semplicemente” – e ovviamente quest’avverbio lo uso con un po’ d’ironia perché so quanto è difficile; è però so pure che non è impossibile – far sì che alle parole grandi corrispondano davvero i fatti e le concrete vicende di noi esseri umani. È proprio questo, a mio avviso, il segreto storico della felicità oggi possibile.