“Rivoluzione? Rivoluzione? Per favore, non parlarmi tu di rivoluzione. Lo so benissimo cosa sono e come cominciano: c’è qualcuno che sa leggere i libri che va da quelli che non sanno leggere i libri, che poi sono i poveracci, e gli dice Oh, oh… è venuto il momento di cambiare tutto… (…) Io lo so quello che dico, ci sono cresciuto in mezzo alle rivoluzioni… e la povera gente fa il cambiamento. E poi i più furbi di quelli che leggono i libri si siedono intorno a un tavolo e parlano, parlano. E mangiano. Parlano e mangiano! E intanto che fine ha fatto la povera gente? Tutti morti! Ecco la tua rivoluzione! Quindi per favore non parlarmi più di rivoluzione… E, porca troia, lo sai cosa succede dopo? Niente… tutto torna come prima!”
“Giù la testa”, Sergio Leone. La rivoluzione per Juan Miranda
Rivoluzione vs ribellione
Siamo abituati a concepire (ci ha abituato la storia del Novecento) la rivoluzione come negazione dialettica della ribellione. L’idea di fondo è che la ribellione consista nella critica specifica di alcune ingiustizie e alcune oppressioni. Soltanto quando si generalizza acquisirebbe il carattere di critica pratica e radicale contro l’ingiustizia e contro l’oppressione in quanto tali. Ogni ribellione resterebbe così nell’ambito degli equilibri di potere, concorrendo, sia pure in forma oppositiva, alla costruzione degli assetti storicamente dati. La rivoluzione, quella del ‘900, sarebbe invece tutt’altra cosa: una attività finalizzata alla costruzione di un’altra società e di un altro potere, attraverso cui, alla fine, potrà manifestarsi “l’uomo nuovo”. In sostanza, per i rivoluzionari del Novecento la ribellione era la manifestazione dell’“in sé” proletario, la rivoluzione la manifestazione del “per sé”. Una distanza genetica, insomma, tra il concetto di ribellione e quello di rivoluzione, e perciò propriamente una opposizione.
L’incidente e la storia
Eppure, le ribellioni sono un movimento reale. E lo sono tanto più oggi, poiché lo stato-di-crisi, che è la caratteristica tipica della fase della totalizzazione del rapporto sociale di capitale, rappresenta una opportunità permanente per l’obiettivo vero che sta al fondo di ogni ribellione: la messa in discussione dei poteri costituiti e la insorgenza del potere costituente.
La ribellione, d’altra parte, non è un processo lineare: la sua caratteristica è l’improvvisazione, l’accadimento che nasce da un incidente. Anzi, a ben vedere, col livello di sviluppo delle forze produttive e delle capacità di controllo e di direzione della società raggiunte dal sistema capitalistico, la rottura della gabbia è sostanzialmente impossibile senza “l’incidente”.
Il silenzio e l’urlo
Così, per esempio, la ribellione silenziosa cresciuta nella pandemia ha sfondato il muro dei sovranisti, da Trump a Bolsonaro fino ai nostri Johnson, Orban e Salvini, e ha impedito quasi dappertutto il lasseiz faire, lasseiz mourir richiesto dai funzionari del rapporto sociale di capitale. Ed in pochi mesi ha imposto priorità e sensi di marcia anche alle regole di finanza pubblica: quello che era intoccabile fino a ieri (il pareggio di bilancio, il fiscal compact) sembra oggi il retaggio di un passato lontano. E alla ribellione silenziosa è seguita quella urlata, costringendo la politica mondiale a fare i conti con il “I can’t breathe” che milioni di persone scandiscono scontrandosi con la polizia, con un “saper fare” che sembra innestato nella memoria genetica di una generazione “nata per bruciare”.
La ribellione necessaria
Se qualsiasi rivendicazione, anche quella più “ragionevole”, va ad intaccare i meccanismi di riproduzione allargata del rapporto di capitale nei singoli sistemi-paese; se appare irricevibile (e immediatamente antagonista al recinto autoritario e liberista) qualsiasi tentativo di riforma che non sia nella direzione di approfondire il dominio “obiettivo” delle regole (ovvero delle leggi per la riproduzione allargata del capitale) sui bisogni; se i riformismi, anche i più “morbidi”, anche quelli impermeabili a una vera discussione sul modello economico e sociale, sulla distribuzione della ricchezza e sul rapporto con l’ambiente, si ritrovano a fare i conti con gli aut aut della storia; se la strada del compromesso è sempre più accidentata e sottoposta a rigide discipline di compatibilità gestite da organismi tecnocratici fuori da ogni controllo democratico; se, insomma, qualsiasi avanzamento della comunità proletaria sul terreno dei diritti economici e sociali, degli affetti, della cultura e della natura – ovvero, il che è lo stesso, qualsiasi sottrarsi intenzionale dell’operaio sociale (il lavoratore contemporaneo) alla sua condanna – diventa immediatamente antagonista al sistema; se è vero tutto questo (ed è vero, perché il capitale dell’età della “totalizzazione” ha bisogno di ogni risorsa, di ogni spazio e di ogni tempo, per la sua riproduzione allargata come rapporto sociale), la ribellione si presenta davvero come l’unica risposta possibile e l’unica risposta efficace.
E nella ribellione non vi è “politica” – nel senso che la politica autonoma dal sistema può darsi solo come critica della politica; così come il potere autonomo dal sistema può darsi solo come critica del potere. Solo mettendo in discussione radicalmente le decisioni politiche del potere costituito e contestando i luoghi e le forme con cui esse vengono assunte è possibile riaprire la partita. Anche una singola partita: così, nella fase della totalizzazione e dello stato-di-crisi, la ribellione tende a contenere, in nuce, anche la messa in discussione complessiva della società e la prospettiva della rivoluzione.
La ribellione ricca
La ribellione è dunque anche una risposta ricca; o almeno potenzialmente più ricca del passato, poiché, diversamente delle fasi precedenti, adesso il lavoro proletario non è solo un lavoro di gestione delle macchine ma anche un lavoro di gestione delle conoscenze. Anzi, sempre più il lavoro cognitivo entra in quello materiale e lo riconfigura; e contestualmente precipitano continuamente, nella condizione proletaria, figure con conoscenze ampie anche dal punto di vista tecnico, con un bagaglio di saperi e di pratiche che risana almeno in parte, la frattura tra volontà e capacità di liberazione, tra sistema macchinico e produttore sociale; o meglio, la frattura si sposta verso l’alto: tra il proletariato (il 99% della società) e quelle macchine che hanno indelebili le stimmate dell’ingiustizia sociale che le ha partorite, la cui produzione non è utilizzabile in una società a misura di essere umano (ad esempio, il nucleare o i comparti non riconvertibili dell’industria bellica o le tecniche di manipolazione delle coscienze). Il proletariato del rapporto totale di capitale si ricostruisce non solo maggiormente diverso da come lo ha modellato il capitale, ma anche più ricco di proposte.
La lotta contro il degrado ambientale, per esempio, non ha alcuna possibilità di successo se chiusa nel recinto del “not in my garden” o dentro le strettoie della resistenza istituzionale. Essa può vincere solo se mette in discussione in maniera determinante il ciclo delle merci. Così come la ribellione contro il razzismo, a differenza di altri momenti della storia, si colora di bianco e si arricchisce di capacità elevate di critica sociale. Nell’inferno proletario, infatti, stanno precipitando milioni di persone della classe media: e nell’inferno conta poco il colore della pelle. Ovvero: può essere usato dai reazionari per fomentare la guerra tra poveri, ma può anche essere superato nel gesto di rivolta che restituisce umanità e dignità.
Comunità e territori ribelli
Per definirsi, insomma, la ribellione tende ad essere più ricca, a rielaborare il proprio alfabeto, coniugando comunità e territorio, non più come spazi ma come relazioni che nascono nel farsi del conflitto. Si pone quindi, immediatamente, il tema di una nuova società: non come ciò che verrà, ma come ciò che è già in atto e che dobbiamo prendere e pretendere. Il “vogliamo tutto e subito” riecheggia come una “realistica pretesa dell’impossibile”.
Ciò non potrebbe avvenire, non ve ne sarebbero le condizioni, se la ribellione non possedesse in sé, già in partenza, una ricchezza culturale molto più estesa grazie alla nuova composizione di classe. Nel suo farsi conflitto e ribellione, l’agire di questo nuovo, inedito “operaio” socialmente diffuso è già nelle condizioni di rielaborare la critica del potere e della politica, declinandola anche in positivo. Può farlo proprio perché è più intera la sua alienazione, più insopportabile il processo di disumanizzazione in cui, nonostante la grandezza dei saperi che possiede, rimane imprigionato. Avviene perciò che il suo “no ribelle” non rimandi al semplice sogno utopico, ma tende a porsi come possibilità concreta, qui e ora, della liberazione, anche una liberazione specifica e parziale.
In questo mondo, ma non di questo mondo
Le ribellioni sono così sempre più “lotte di lunga durata”, si caricano di rivendicazioni universali, rompendo con la tradizione dei tumulti monodimensionali e legati a rivendicazioni ad alta specificità. Adesso sedimentano soprattutto cultura e sentimenti. Ed autorganizzazione sociale.
Certo, il porsi intenzionalmente fuori del rapporto sociale di capitale non le garantisce, data la capacità del capitale di riassorbire nella propria capacità produttiva anche queste spinte; e tuttavia, si sedimentano visibilmente elementi culturali di nuova umanità.
Mi riferisco alle esperienze delle zone ribelli degli zapatisti o del confederalismo democratico del Rojava; ma anche al lascito qui da noi, in termini di spazi occupati e di attività autogestite, dei movimenti variegati degli ultimi decenni; o alla stessa esperienza – contraddittoria e disseminata d’insidie ideologiche e, ciò nonostante, estremamente prefiguratrice di nuove relazioni umane – del volontariato, che afferma la pratica fraterna “da me a te, chiunque tu sia”. E mi riferisco a quei presidi di civiltà (alcune istituzioni formative, i gruppi di acquisto solidale, le banche del tempo, i gruppi di socialità alternativa, anche istituzionali) dove si esercita una critica, non solo culturale ma anche pratica, alla mercificazione dell’esistenza e la rinuncia volontaria al superfluo.
La potenza ribelle
Ricapitolando: la ribellione oggi assume una potenzialità generale nell’immediatezza del suo farsi, produce nel suo agire presidi di civiltà, semina elementi di nuova umanità che sono il presupposto per la nuova società. Ciò avviene oggi più, e più pienamente, di ieri per due ordini di motivi: il primo è che qualsiasi ribellione, qualsiasi lotta rivendicativa radicale tocca direttamente il cuore della riproduzione del capitale ed è immediatamente incompatibile, e dunque o retrocede o, se prosegue, deve necessariamente fare i conti, volente o nolente, con questa incompatibilità e con la necessità di generalizzarsi, unirsi ad altre lotte, crescere in termini di forze e di ragioni; il secondo è che proprio il precipitare nella condizione proletaria del lavoro cognitivo e tecnico consente al proletariato contemporaneo di dispiegare entro se stesso, accanto alla volontà di trasformazione, anche la sapienza di questa trasformazione nelle sue premesse materiali. In altri termini, proprio per l’effetto combinato della ricchezza culturale della nuova composizione di classe e del carattere universale del processo di alienazione (e, dunque, nella stessa dinamica di valorizzazione e riproduzione allargata del rapporto sociale di capitale) le resistenze al “destino della merce” sono costrette ad assumere sempre più un carattere “ricco” e “pieno”, e un sostanziale respiro universale.
La nuova umanità per la nuova società
Ma la liberazione, nel senso dell’oltrepassamento del capitalismo, non si dà “da sé”, non è immediatamente liberazione dell’umano. Non lo è se il suo farsi come nuova società non è immediatamente anche il farsi della nuova umanità. Il Novecento ha pensato la transizione dal capitalismo al comunismo come lo spazio tra il fine, l’uomo nuovo, ed il mezzo, la società nuova. La liberazione dell’individuo diveniva una “condizione successiva”, la immancabile conseguenza “a venire” della trasformazione sociale. In realtà, già non fu così per la rivoluzione borghese, che pure teorizzava i due tempi: si può ben dire, infatti, che proprio la nuova umanità borghese sia stata il presupposto della nuova società borghese. Ancora di più oggi, dopo il Novecento, appare chiaro che è esattamente la “nuova umanità”, la stessa che in forme ambigue e contraddittorie tende ad emergere dentro la storia medesima del capitalismo, a costituire il presupposto autentico della trasformazione sociale.
Ovviamente una nuova umanità non nasce per decreto. Essa si forma, con tutti i limiti di una costruzione incerta, soltanto dentro la critica pratica del capitalismo. E tale critica non potrà che configurarsi come critica anzitutto di sé, del proprio essere in questo mondo. La presa di distanza dalla macchina aliena del rapporto sociale di capitale non può che essere anche una presa di distanza da se stessi; così come la presa del potere è innanzitutto la presa del potere in se stessi. La ribellione al sistema è parimenti la ribellione nei confronti della propria internità ai consumi, ai riti, ai valori del sistema. E dunque la ribellione si sostanzia non solo di lotta ma anche di costruzione (volontaria) di estraneità e distanza dal capitale; e di vicinanza, fraternità e sorellanza con gli individui.
Sembrerà questa un’istanza buonista e francescana. Al contrario, è questa l’unica maniera per costruire la concreta scelta di antagonismo sulla base della quale si costruisce la comunità proletaria.
Eterogenesi dei fini
Finora chi ha preso il potere “sugli altri” per “cambiare il mondo”, alla fine è stato, sempre, egli stesso cambiato dal potere e sussunto dal sistema. E però oggi ci sono davvero nuove condizioni: il processo di totalizzazione del rapporto sociale di capitale, se da un lato ha reso pressoché “invincibile” il sistema sul piano tecnico e militare, dall’altro ha sviluppato la cooperazione sociale ad un livello tale che si sono già diffuse pratiche rilevanti di produzione volontaria non capitalistica. E più se ne inventano per potenziare la capacità di riproduzione del sistema (capacità produttiva e di controllo) e più quelle stesse modalità possono diventare per l’operaio “nell’incidente”, armi per resistere e strumenti per “distaccarsi” , qui e ora, dalla dimensione di merce.
Succede non solo nella produzione materiale, primaria e secondaria, ma anche in settori molto avanzati del terziario, come la produzione di sistemi operativi sulla rete. Non vanno sottovalutati questi esempi, né esaltati come isole di comunismo. Si tratta, tuttavia, del “venir fuori” reale – confuso, inadeguato, episodico – degli elementi di nuova umanità, l’autentico presupposto pratico (nel senso di prassi) della nuova società.
Ribellione e rivoluzione
La rivoluzione così si confonde con la ribellione, e viceversa. Non nel senso che siamo già nel comunismo e “basta prendere il potere”, ma nel senso che siamo nel capitalismo totalizzato e che il potere sugli altri non dobbiamo prenderlo, ma respingerlo, vivendo la libertà e la bellezza possibile dell’antagonismo al sistema e costruendo momenti, spazi, pratiche di cooperazione sociale nemiche della mercificazione. La lotta “non per il potere ma contro il potere” (la ribellione) si abbraccia e si confonde con la lotta “per prendere il potere in noi stessi” (la rivoluzione). E la lotta per “prendere il potere in se stessi” possiamo scorgerla già dentro le ribellioni che si generalizzano, dentro le pratiche dell’autorganizzazione sociale, che viene, già ora, già qui, a maturazione: rimodellando per quanto possibile, nella pratica sociale, le proprie relazioni sul principio del dono “da me a te chiunque tu sia” e della cooperazione volontaria nella comunità.
E dal “qui e ora” lo sguardo può allungarsi verso una storia nuova, fatta di individui che possono decidere, e donarsi, e vivere. Cooperando nella comunità che li ospita e che coopera con le altre comunità del pianeta.