Prisca iuvent alios; ego me nunc denique natum / gratulor haec aetas moribus apta meis: “Gli altri apprezzino pure i vecchi tempi; io mi compiaccio di essere nato oggi, perché questa è l’epoca adatta al mio stile di vita!”
In questo distico, l’irriverente poeta Ovidio, che osò sfidare i divieti e il conservatorismo della società romana riformata dal “restauratore” Augusto, ha sintetizzato anche per noi posteri, e con grande efficacia, le implicazioni della doppia antinomia antico/moderno e tradizione/innovazione. Varrebbe la pena soffermarsi sugli elementi costitutivi della “novitas” ovidiana, perché la modernità che l’autore delle Metamorfosi diceva attagliarsi bene al proprio ethos si caratterizzava per il ripudio della rusticitas, di quella grossolanità, cioè, che includeva anche i portati di un feroce controllo patriarcale su ogni fenomenologia dell’eros, incompatibile con sensibilità artistiche ed umane ormai imbevute profondamente di cultura greco-ellenistica.
Ovidio, dunque, faceva consistere il progresso sociale in un graduale movimento di emancipazione dall’unidirezionalità monovalente delle relazioni interpersonali: un dato qualitativo, questo, con risvolti sociali e politici tanto dirompenti da indurre il potere autocratico ad arginarli con una legislazione intrisa di moralismo e familismo, oltre che con la programmazione minuziosa di campagne di pervasiva propaganda.
Da quando il modello pedagogico della Scuola pubblica, unitario sia a livello territoriale che disciplinare, è imploso – e ciò è avvenuto a partire dalla legge Bassanini 59/97, integrata successivamente con il D.P.R. 233/8 ed il D.I. 44/01, che ha introdotto l’autonomia scolastica – è parimenti saltato il riconoscimento della validità di quel “dispositivo culturale per cui le novità più significative avrebbero teso immancabilmente a presentarsi sotto forma di una ripresa … di motivi e testi antichi” … sicché “spesso, i più appassionati apologeti dell’antichità” … “nell’arte, nel diritto, nella filosofia politica” venivano a coincidere “con gli innovatori più determinati e coraggiosi” (La citazione la riprendo da A. Schiavone, I giganti dell’antichità, una recensione al libro di M. Fumaroli, Le api e i ragni. La disputa degli antichi e dei moderni, Adelphi 2005², pubblicata sul quotidiano «La Repubblica» del 16 aprile 2005).
Ciò ha innescato un processo di drammatica erosione degli spazi e dei paradigmi conoscitivi delle discipline umanistiche, dipinte, nell’età dei vantati trionfi della tecnologia avanzata, come il patetico cascame di un mondo da archiviare definitivamente o, peggio, come lo statico e tronfio contrassegno della presunta superiorità di un Occidente che attinge in modo indifferenziato e interessato al remoto passato per legittimare pretese o mire neocolonialistiche.
Non si tratta, ovviamente, di un arretramento “naturale”, ma di una precisa strategia politica che, a livello europeo, a partire dalla fine degli anni ’90, seguendo le indicazioni della potente lobby dell’European Round Table of Industrialists, ha pianificato la sostituzione sistematica della semantica dell’educazione e della costruzione dei saperi con quella della produzione seriale e dell’addestramento funzionale di docenti e studenti ai desiderata del volubile mondo dell’impresa, portando a termine, nel primo decennio del nuovo millennio, anche grazie alla crisi speculativa e al “commissariamento” de facto della democrazia parlamentare, la riconversione della Scuola, da istituzione garante della mobilità sociale e della perequazione formalizzata nella seconda parte dell’art. 3 della Costituzione, ad agenzia territoriale di formazione tenuta a rendicontare i suoi “prodotti” agli stakeholders (portatori di interesse) esterni.
L’imposizione di pratiche di valutazione econometrica e standardizzata (presuntamente oggettive ma in realtà orientate a monte) sulla libera programmazione dell’insegnante; la riduzione dei collegi docenti a meri organi di ratifica delle decisioni del dirigente monocratico; la trasformazione dei sindacati in mediatori al ribasso del conflitto tra padrone e servi; il ricorso all’ideologia divisiva del “merito”, allo scopo di esaltare e incentivare forme di competizione devolute alla fidelizzazione dei lavoratori, sono stati altrettanti strumenti di imposizione, ad un settore che ne era costitutivamente estraneo, di un regime di “quasi mercato”.
La retorica dell’innovazione, doviziosa di anglicismi spesso grotteschi e di acronimi insensati, ha accompagnato e giustificato l’umiliante burocratizzazione della funzione docente e la riduzione del dialogo pedagogico a servizio “on demand”. L’appropriazione indebita del termine e del campo semantico dell’innovazione da parte dei sacerdoti dell’iperliberismo ha determinato la collocazione di tutto quanto osasse resistere alla liquidazione del valore e del ruolo paideutico della Scuola nella sfera negativamente connotata del superato, dell’inadeguato, del “vetusto” (aggettivo utilizzato dall’attuale ministra della P.I. in una delle sue prime dichiarazioni pubbliche per accreditare la didattica digitale). E come se non bastasse, lo schiacciamento della vita associata sulla sola dimensione del presente si traduce in un irrazionale affidamento ai ritrovati della tecnologia, che, da soli, consentirebbero di prospettare un futuro di prosperità e di superamento di ogni limite: biologico, materiale, cognitivo.
Non a caso, Lucio Russo ha parlato, in relazione all’approccio odierno, di una “concezione dogmatica della scienza” e di “commistione tra metodo scientifico e misticismo” (la stessa idolatria investe anche il “dio Mercato” e la sua presunta capacità autoregolativa), proscrivendo l’espulsione progressiva, dai programmi scolastici, dello studio di civiltà come quella greca, la cui lingua pure costituisce l’intelaiatura lessicale e concettuale della scienza moderna, e il cui approccio alla conoscenza fu unitario e laico (Si veda L. Russo, L’alfabeto della scienza in “Di fronte ai classici. A colloquio con i Greci e i Latini, a c. di I. Dionigi, Bologna 2002, p. 201-208).
Applicate alla didattica, dalla scuola primaria all’università, le tecnologie, additate come la concrezione stessa del moderno e del nuovo, dissimulano perfettamente la finalità classista e regressiva del sistema liberista: quella di archiviare le conoscenze per far spazio alle competenze, cioè a pratiche di immediata “spendibilità” nel mondo del lavoro flessibilizzato, il cui radicamento e la cui eziologia restino inindagate e quindi ignote a chi apprende, in modo che interiorizzi la necessità della sua precarizzazione e si sottoponga a infinite riprogrammazioni, come fosse il beneficiario di un’occupazione octroyée.
La colonizzazione del linguaggio pedagogico da parte dell’economia di mercato rende desolatamente evidenti queste constatazioni: nel cosiddetto Piano Colao per il rilancio del paese dopo la quarantena dovuta alla pandemia, si postula un aggiornamento dei docenti tutto e unicamente incentrato sull’utilizzo delle piattaforme telematiche private predisposte per la “didattica a distanza”, e ci si spinge a parlare addirittura di un “diritto alle competenze”, inconsapevolmente maturato da discenti che, tramite il passivo indottrinamento unidirezionale garantito dalla videolezione disincarnata e asfittica, implementano il proprio “capitale psicologico”!
I MOOC (massive open online courses) garantiranno la riconversione continua cui ci si riferisce quando si parla di longlife learning. I docenti che non vogliano essere rottamati vengono invitati ad abdicare al più presto al loro specifico compito, che è quello di interrogarsi sulle cause e gli effetti dei fenomeni e dei noumeni e a porsi il problema del loro upgrade metodologico. La pandemia ha spalancato inaspettate porte ai teorici dello smart learning finalizzato all’infarinatura culturale dei futuri lavoratori usa-e-getta, e i documenti programmatici del governo o di organismi molto vicini a Confindustria, come l’Associazione nazionale presidi, ultimamente pubblicati, sono la chiara dimostrazione di come si possa strumentalizzare un’emergenza sociale per accelerare i processi di disintegrazione dei legami comunitari, della collegialità e dei diritti esigibili. Non a caso, questi proclami grondano retorica dell’innovazione da ogni virgola.
Quale Scuola, quale Università avremo se prenderanno piede la didattica della distanza, l’apprendimento solipsistico e alienante, l’insegnamento universitario “blended”, con lezioni preregistrate e riproducibili all’infinito fruite dal divano di casa da chi non avrà più la necessità di frequentare un’aula né sentirà più quella di respirare e co-spirare con i compagni di corso, di prendere coscienza dei propri limiti, di mettere in discussione il canone culturale strutturato e via via integrato dalla selezione storica?
I fanatici apologeti della teledidattica, mentendo, parlano di democratizzazione di un sapere che finalmente raggiungerà tutti i possessori di un terminale. Ancora una volta si confonde lo sviluppo con il progresso. Democrazia è mettere tutte e tutti nelle condizioni di accedere a un sapere di alto livello e di partecipare alla sua costruzione, non ammannire a un alto numero di individui nozioni preconfezionate e formule non confutabili.
L’Università era democratica quando i costi di iscrizione erano sostenibili; è diventata di nuovo elitaria con la “fasciazione” del 1995/1996, che ha parametrato le tasse sui redditi delle famiglie, sancendo la trasformazione del diritto allo studio in servizio a prestazione.
Le deprecate aule, scomode, sì, affollate, certo, ma palpitanti di un’umanità in trepido ascolto di verità messe a fermentare nell’anima, hanno accolto la scrivente, studentessa di provincia, per anni e anni fecondissimi di uno studio che, se si guarda agli attuali costi, era quasi gratuito. Spesso sedevo sui talloni e tenevo la computisteria sulle ginocchia, appuntandomi pure lo sputo e la battuta di spirito, ma su un trono non sarei stata meglio che lì per terra, ad esaltarmi, a incamerare con voluttà teorie che mi spalancavano orizzonti di senso, interpretazioni inusitate di testi noti, prospettive accuratamente nascoste da insegnanti di scuola omissivi o perbenisti, citazioni da “sparare” per accreditarmi, verità probabili o estorte dalla passione di chi le enunciava, e perciò più convincenti.
Senza la necessità di recarmi nel capoluogo a seguire quei corsi che oggi si possono seguire da casa e a comando, sarei stata privata di esperienze di autovalutazione, analisi, ridimensionamento e maturazione politico-ideologica essenziali e irrinunciabili. Proprio il 1995, infatti, mi vide partecipe di un’occupazione periodizzante, che culminò in un drammatico episodio di guerriglia urbana. In quei momenti, davanti agli autobus che bruciavano e alle gambe di un ragazzino di terza media spezzate da un cellulare della polizia, compresi che la morfologia marxista della storia era più che un capitolo del testo di Filosofia, che lo Stato può diventare nemico o può ridursi a usbergo della violenza del potere finanziario, e che le Facoltà erano luoghi costantemente assediati da chi, brandendo parole di libertà, è pronto a soffocare ogni atto di liberazione.
Fu durante quell’occupazione, inoltre, che avviai una raccolta di firme per l’approvazione di quella che poi sarebbe stata la Legge 66/96, che finalmente annoverò la violenza sessuale tra i reati contro la persona, una campagna che condussi con compagne più giovani ma politicamente più scaltrite e impegnate, che segnò per sempre il mio cammino di donna e di atipica “militante”.
Non tutto il nuovo, dunque, è eo ipso buono. Ma per arrivare a capirlo, chi scrive ha avuto bisogno di una Scuola e di un’Università libere e orientate a favorire la sua crescita intellettuale, non a quantificare la sua potenziale produttività.
Bisogna battersi strenuamente per impedire che alle giovani e ai giovani sia impedita la stessa lenta, gioiosa e dolorosa crescita umana. Il rischio è quello di diventare un popolo di individui eterodiretti ed egocentrici, che crederanno di avere a portata di smartphone tutte le risposte, ma non sapranno più porre o porsi alcuna domanda.