In una lettera ai dipendenti Fiat Chrysler Automobiles, dei vari paesi del mondo, l’amministratore delegato Mike Manley ha tracciato le linee generali di come sarà il lavoro del futuro all’interno del colosso dell’auto.
Oltre a lodare il personale che ha lavorato senza sosta in questi mesi, adeguandosi alle protezioni individuali e collettive e alle nuove procedure di distanziamento e sanificazione dei locali, egli non fa mistero dei mesi difficili che aspettano il gruppo a causa degli effetti di lungo termine della crisi del covid 19 sull’economia mondiale. Si dice certo, però, che la multinazionale uscirà da questo periodo ancora più forte e preparata, tesaurizzando appieno le esperienze di lavoro da remoto fatte nei giorni di chiusura dovuti al lockdown
Fra le esperienze segnalate, c’è quella che riguarda la vendita delle auto. La casa automobilistica ha sviluppato soluzioni digitali molto avanzate, attivabili tranquillamente da remoto: la “retailing Experience” negli Stati Uniti e il “progetto car@home” in Europa. Niente di particolarmente difficile: è la commercializzazione generalizzata attraverso il web che si integra con la vecchia rete dei concessionari.
Ma non è solo la rete di vendita. Nuove modalità di organizzazione del lavoro sono state messe in campo dall’inventiva dei team anche nei comparti della produzione. Per quanto riguarda gli step ingegneristici, ad esempio, il personale ha adattato con inaspettato successo i sistemi operativi al lavoro da remoto. È l’approccio del “progettare da casa”. Durante la chiusura, rileva soddisfatto Mike Manley, “gli ingegneri hanno trasformato stanze degli ospiti, seminterrati e garage in officine e laboratori per i test, impiegando brillantemente la propria competenza e inventiva per continuare a lavorare da remoto sui programmi di prodotto, dando il via alla trasformazione digitale dell’azienda e realizzando in poche settimane un processo innovativo che normalmente richiede mesi se non anni di esperienze”. Inutile dire, insiste l’amministratore delegato, che tali esperienze risulteranno preziose per il futuro, “specialmente in un’epoca in cui il nuovo modello operativo digitale è destinato a diventare la normalità.”
Per F.C.A. è iniziata, dunque, una nuova epoca di modernità capitalista, legata alle tecnologie digitali. Quella che sembrava una pratica emergenziale, adatta al solo lavoro d’ufficio, la si vuole estendere quanto più possibile anche alla produzione di merci. Del resto, che la nuova modernità capitalista confidasse, per quanto concerne la composizione tecnica del lavoro, proprio sulle tecnologie all’avanguardia nel campo della digitalizzazione applicata alla robotica, è cosa risaputa da alcuni decenni almeno. Pressate ora dalla crisi e dai possibili ritorni della pandemia (che non è affatto debellata, come hanno sottolineato tutti i capi di governo), le dirigenze aziendali chiedono ovunque l’accelerazione verso un tale salto tecnologico.
Avverrà dunque, come tante volte nella storia, che il capitalismo trasformerà gli strumenti di produzione, e con essi cambierà non poco del nostro mondo. Ma non c’è da gioirne a cuor leggero: come in passato, la prima ricaduta dei cambiamenti tecnologici sarà verosimilmente la sottomissione ulteriore della società al rapporto di capitale. Quanto più in F.C.A si respira aria di nuova modernità, con la prospettiva di una nuova e più consistente creazione di plusvalore per uscire dalla crisi, tanto più lo scenario per i lavoratori e le loro condizioni di vita e di lavoro promette peggioramento.
Il punto critico deriva dall’uso alienante che la produzione capitalistica fa delle tecnologie. Chi ha lavorato da casa lo ha sperimentato in modo inatteso. Operando dal proprio domicilio durante il lockdown, tutti hanno conosciuto un maggiore stress individuale e hanno visto una crescita davvero sorprendente delle ore di lavoro. Gli ambiti di vita e di lavoro si sovrapponevano continuamente e divenivano indistinguibili.
Ma le novità potrebbero non consistere solo nell’aumento dell’intensità e delle ore di lavoro, o nel ritorno al lavoro a domicilio, tipico dell’era protocapitalista con i computer al posto dei telai nelle abitazioni – pratica, tra l’altro, tutt’ora diffusa in alcuni territori ed in particolare nel Meridione d’Italia (calzature, pellami). E forse neppure basta a dar conto delle novità il “lavoro per obiettivi”, così naturalmente adatto al “lavoro smart”, come forma moderna del tradizionale lavoro a cottimo. Con in più la probabile assenza e destrutturazione di tutele giuridiche per malattia o incidenti sul lavoro. E il centro della questione forse non sta neppure nella ulteriore scomposizione del proletariato e nell’aumento dell’atomizzazione sociale che la produzione digitalizzata comporta, con intuibili, nefaste ricadute sulla stessa praticabilità delle lotte sociali.
Il cambiamento fondamentale, quello di spessore storico, è collegato invece alle nuove forme di mobilitazione del corpo produttivo sociale attorno agli interessi del sistema capitalista, e ciò proprio in virtù della notevole elasticità delle nuove tecnologie.
La tecnologia e l’organizzazione lavorativa del modello fordista di produzione puntavano a determinare il minimo spreco dei tempi morti, e perciò prevedevano postazioni più o meno rigide, raggruppate spazialmente nei capannoni delle fabbriche e suddivise per segmenti di operazioni ripetitive (la catena di montaggio), sottoposte a cadenze temporali determinate esclusivamente dal sistema macchinico. Con le nuove tecnologie digitali, l’anima della produzione diventa invece la flessibilità.
Il lavoratore si trasforma in controllore del sistema macchinico, e se opera da remoto potrà connettersi in qualsiasi momento e da qualsiasi luogo, raccogliere un’infinità di informazioni e dare input al processo stesso. Dal lavoro tayloristico rigido, verticale nel comando ed orizzontale solo tra le diverse parti che interagivano, con una scansione incentrata sul rapporto univoco causa-effetto (un certo tipo di input dava un certo tipo di output), il tutto replicato all’infinito e magari reso più efficiente con piccoli accorgimenti partecipativi (si pensi al just in time), adesso, nell’era digitale, il processo produttivo tende a farsi davvero “complesso”.
Il lavoro, infatti, pur continuando ad ubbidire alla relazione causa-effetto (una sorte di taylorismo digitale), non è più lineare e replicabile come nelle forme precedenti, ma si attiva con interazioni e interconnessioni collegate in modo multiplo ed indiretto, che rendono il processo produttivo veloce in termini di accesso, di divulgazione, di richiesta, di rielaborazione e di risposta alle informazioni. Una tale dinamica deve basarsi necessariamente sui fattori sociali e sulla mobilitazione produttiva del corpo sociale, generando in questo modo il “lavoratore smart”, che opera in un contesto complesso ed è continuamente alle prese con le nuove tecnologie e col flusso di informazioni. Deve essere perciò permeabile ai saperi e alle conoscenze; ed è chiamato ad avere attiva esperienza della società in generale, alla quale egli stesso da subordinato partecipa e con la quale in condizioni subordinate coopera.
Succede, insomma, che quando il sistema di lavoro funziona come uno “sciame”, ogni piccola componente, presa in sé, può essere tranquillamente dotata di un’intelligenza limitata; e tuttavia, una volta interconnessa con le altre, porterà il proprio contributo qualitativo nella produzione di una intelligenza effettivamente ampia, flessibile ed adattiva. La conseguenza è che lo stesso singolo lavoratore digitale – nei servizi, come nella produzione applicata – tende a divenire elemento attivo di un più generale meccanismo digitale in grado di apprendere dall’ambiente che lo circonda, generando così, come sistema macchinico, comportamenti evolutivi in tutta la filiera produttiva.
Da un punto di vista organizzativo la nuova modalità di lavoro ridisegna l’organizzazione e la struttura ad essa legata, rendendola più flessibile alle esigenze del mercato e del capitale. Lo stesso controllo gerarchico sulla produzione e sull’efficienza del lavoro da remoto è molto più stringente di quanto sembra apparire. Controllo e efficientamento, infatti, sono dettati dalla linea degli obiettivi prefissati dall’azienda, oltre la quale scatta l’attenzione verso il singolo lavoratore o nei confronti del team da parte del management. In un certo senso, assistiamo alla manifestazione concretamente operativa dell’“individuo produttivo sociale” e della “mobilitazione collettiva” per generare plusvalore: la struttura organizzativa passa dal comando centralizzato alla responsabilità diffusa lungo tutto lo “sciame produttivo”.
Va da sé che un tale sistema debba necessariamente tradursi in ulteriore e generalizzata alienazione. Le mistificazioni prodotte dal modernismo degli strumenti tecnologici non riescono a velare il dato di fondo: l’alienazione resta l’elemento determinante, e non eliminabile, nella produzione capitalistica di merci e di servizi. È connaturata alle relazioni sociali incentrate sulle dinamiche di mercificazione e valorizzazione, e nel lavoro digitale tocca sia i tempi di lavoro che i tempi di vita, chiamati a sovrapporsi come non mai, e ciò a danno specificamente dei tempi e degli spazi di vita.
L’attivazione dell’individuo produttivo sociale e la mobilitazione collettiva attorno agli interessi del capitale comportano, inoltre, il formarsi continuo di una quota, piccola o grande, di marcescenza di esseri umani: quelli che vivono ai margini o che comunque non sono integrabili nel sistema, poiché in quel dato luogo e in quel dato momento non è prevista una loro funzione nella interagenza dei fattori che regolano la produzione. Analogamente alle altre merci in eccedenza, il capitale li accompagna verso la dissoluzione.
Per il capitalismo questa è una nuova epoca di modernità, nell’ambito di ciò che noi di LEF definiamo “totalizzazione del rapporto di capitale” a tutta la società, con il lavoro salariato, intellettuale e non, sempre meno scindibile in produttivo e improduttivo; e quello attivato nei servizi più o meno pubblici o nella catena di distribuzione delle merci sempre più qualitativamente simile, ai fini della valorizzazione, al lavoro dei segmenti di produzione più direttamente collegati agli oggetti-merci. Ma positivamente moderna non lo è affatto dal punto di vista della condizione umana, che ne esce invece ulteriormente mortificata. In particolare, le classi proletarie si ritrovano ancora più oppresse e sfruttate.
E però coloro che questo processo lo subiscono potrebbero entrare in aperta contraddizione e conflitto col sistema che ancora li incatena, in forme nuove, all’alienazione di sé. E le contraddizioni ed il conflitto potrebbero partire da un percorso pratico prima che teorico, legato propriamente ad una condizione umana costretta vivere, con inaspettato bagaglio di saperi e conoscenze, la riduzione tradizionale a merce. In sostanza, ci sono le condizioni, forse, perché si possano rivendicare accanto agli obiettivi della “logica emancipativa”, anche le più compiute, ed oggi più attuali, ragioni della “liberazione”. Si è chiamati, detto in altre parole, al salto concettuale dai temi della produzione sociale ai temi della riproduzione della vita materiale (e spirituale), integrando le proposte sui contenuti e tempi di lavoro con le proposte sui contenuti e tempi di vita.