Municipalismo e cittadinanza attiva.
Dirò subito come la penso: prima il crack del 2008, poi la pandemia del 2020 hanno mostrato come gli stati-nazione siano diventati troppo “piccoli” per affrontare le conseguenze delle crisi contemporanee. Di più: la stessa democrazia rappresentativa, per come l’abbiamo conosciuta soprattutto nella seconda metà del Novecento, non solo ha mostrato tutto il suo carico di ipocrisia ma anche la sua distanza dal movimento reale.
Il potere costituito nel corso di questo secolo si è inchinato spesso al potere costituente, da un lato e dall’altro della barricata.
Dal lato del capitale, le classi dominanti (le “persone” del capitale) si sono impegnate per la fuoriuscita anche formale dai complessi meccanismi di controllo della democrazia della seconda metà del Novecento e per affermare in maniera sempre più netta l’egemonia sui governi e sui parlamenti di “istituzioni altre” non elettive, nominate dagli stati e dagli apparati di gestione dei sistemi-paese; e ciò con la finalità di entrare in un’epoca a-democratica, dove a decidere è l’espressione diretta dei sistemi-paese, che non coincide immediatamente con la rappresentanza.
Ma anche dal lato delle classi popolari il potere costituente di movimenti diversi ha sopravanzato il potere costituito della rappresentanza. Il movimento reale condiziona pesantemente l’azione dei sistemi-paese, attraverso proprio quei meccanismi di comunicazione, funzionali e necessari alla totalizzazione del rapporto di capitale e alla misurazione e al controllo del consenso, costruiti sulla base della tecnologia dell’informazione automatica in rete. Si è visto già nel 2008, ma nel corso della pandemia del 2020 l’impatto è stato molto evidente: imponendo il tempo sospeso del lockdown al ciclo della riproduzione e aprendo, in piena pandemia, proprio in questi giorni, una crisi politica e sociale planetaria sull’onda dell’assassinio di George Floyd in USA.
Le istituzioni del potere costituito sono andate, insomma, in fibrillazione, aperte a svolte improvvise. In Europa il cambio di passo “keynesiano” e “europeista”, assolutamente in controtendenza rispetto alla crescita impetuosa dei sovranismi, ha segnalato la consapevolezza dei gruppi dirigenti di una dimensione adeguata ai livelli di competizione e di posizionamento strategico lungo la catena imperialista: nella dinamica di contrapposizione tra USA e Cina, l’Europa frammentata e indebolita dalle politiche liberiste e di austerity, correva (e corre) il rischio di finire a gareggiare con la Russia; mentre dall’altro lato dell’Oceano, affondato il progetto di una America Latina unita, con il golpe bianco in Brasile e l’annientamento economico del Venezuela e del Cile, il subcontinente americano sta precipitando nel girone infernale insieme all’Africa, proprio mentre l’Asia ne emerge con forza.
I sistemi-paese, da quando esistono non come contesto, ma come colonna portante della valorizzazione, e cioè dalla Grande Guerra in poi, tendono ad assumere le forme organizzative della produzione industriale: più lentamente di ciò che avviene nell’attività diretta della produzione di beni immediati perché la loro trasformazione è più vischiosa di quella industriale, ma con un parallelismo evidente sui tempi lunghi. In realtà la lentezza della trasformazione è solo superficiale: il modello della produzione e quello del sistema paese si determinano reciprocamente. Non c’è una legge, come piacerebbe ai meccanicisti o ai filosofi della storia, né c’è un piano o una progressione determinata, ma salti, scontri, pause, in cui a volte batte il tempo la soggettività capitalistica (come, restando nel Novecento, è stato il caso della marcia dei capi e capetti Fiat dell’ottobre 1980 contro i 40 giorni di blocchi operai), altre volte è la soggettività operaia a imprimere il segno (come nel biennio ‘68-‘69). Dipende, direbbe il vecchio Marx, dai rapporti di forza e dalle occasioni.
I sistemi-paese attuali sono legati tra di loro sul mercato globale da una lunga catena di scambio diseguale, dove avviene il grosso della valorizzazione: minuti dei piani alti contro le ore o i giorni dei piani bassi. È una catena che avvolge l’intero pianeta e le illusioni nazionalistiche si infrangono continuamente sul tema delle dimensioni: solo alcuni stati, che peraltro sono in sé delle confederazioni (USA, Cina, Russia, India) hanno dimensioni tali da poter competere così come sono per il podio della lunga catena neo-imperialistica, incentrata appunto sullo scambio diseguale del valore-lavoro. Tutti gli altri devono in qualche modo o aggregarsi ad uno di questi poli, come per esempio ha di fatto scelto di fare l’Inghilterra con gli USA, o provare a costruire un polo indipendente, come sta facendo l’Europa; oppure debbono rassegnarsi ad occupare i gradini più bassi della scala, subendo gli effetti dello scambio diseguale, come succede a gran parte dell’America Latina, soprattutto dopo la sconfitta di Lula e del sogno pan-americano.
Il nazionalismo europeo di marca sovranista (come quello leghista in Italia) è, in questo senso, subalterno agli interessi USA: far saltare il progetto europeo taglierebbe ogni possibilità di una riduzione dell’egemonia USA sul mercato e sulla politica europea.
D’altro canto, come contrappeso alla necessità di “aumentare la dimensione”, pena il precipitare all’inferno, non si può dire che abbiano funzionato, almeno in Italia, le istituzioni decentrate. Le Regioni soprattutto, nella pessima ingegneria istituzionale della riforma del titolo V della Costituzione, appaiono un punto di criticità enorme, poiché si presentano con la velleità dei mini-stati, con poteri concorrenti e sovrapposizioni di funzioni. E mentre le Province sono cadute sotto l’accetta della riformetta istituzionale e i Comuni sono stati falcidiati dalle politiche rigoriste dei governi, i Presidenti delle Regioni si sono sentiti sempre più Governatori all’americana. E così – tra il ridicolo (Fontana) ed il faceto (De Luca) – hanno affrontato anche l’emergenza Covid-19, determinando danni in alcuni casi, come in Lombardia, o aggiungendo poco (in Veneto) o niente (in Campania) all’azione del governo; e in alcuni casi attribuendosi meriti che, invece, andavano ascritti, come in Emilia-Romagna o nello stesso Veneto, alla tradizionale strutturazione della medicina preventiva e al peso che hanno le associazioni di cittadinanza attiva (come il Tribunale dei Diritti del Malato) nella dinamica operativa della sanità pubblica.
Ma le dimensioni contano anche per il campo proletario: il livello di contrattazione nazione per nazione è inadeguato, stretto, complicato, perdente. È necessario un salto di qualità della lotta di classe, che adegui la capacità di movimento dell’“operaio” contemporaneo, cioè del 99% della società attuale, alle capacità di movimento del capitale, alla sua velocità di riproduzione, alla sua potenza. Non è un’utopia: l’abbiamo visto all’opera, in gran parte in maniera inconsapevole, ma ciò nonostante estremamente efficace, quando si è trattato di fermare la mano di chi voleva imporre la linea del laissez faire, laissez mourir durante la pandemia.
Il punto è che se il processo di superamento degli stati nazionali usciti dal Novecento va indubbiamente in direzione di forme confederali a-democratiche, la battaglia “nostra” non può limitarsi alla richiesta di democratizzazione, che sicuramente è necessaria, ma deve investire la struttura stessa del potere. Il tema si allaccia necessariamente, da un lato, alla pratica solidarista agita localmente, con la creazione di istituzioni-altre permanentemente costituenti, senza chiusure normative, attraverso il riconoscimento della piena agibilità, del diritto di critica, e anche di veto, alle associazioni che abbiamo la capacità di farsi riconoscere; e si riallaccia, dall’altro, alla capacità dei movimenti generali di rivendicare obiettivi globali (o, almeno, sul piano europeo, per quel che ci riguarda) come per esempio sui livelli minimi garantiti di cura, reddito e diritti civili.
Inoltre, se i movimenti generali possono agire globalmente, è evidente che l’azione locale può avere efficacia solo con le istituzioni di prossimità per eccellenza: la connessione tra municipalismo e cittadinanza attiva e solidale consente di tenere aperta una tensione costituente dentro una istituzione ed un potere costituito.
In questo senso municipalismo e cittadinanza attiva (dentro un orizzonte almeno europeo di democratizzazione delle istituzioni sovranazionali) mi sembrano assi strategici su cui sviluppare la critica sia del regionalismo che dello statalismo: in nome di quella dimensione “comune”, intesa come bene comune e come comunità aperta, costruita sulla prossimità e sulla solidarietà.
La soggettività rivoluzionaria che critica il capitalismo è rimasta orfana del “partito”, mezzo diventato fine nel corso del Novecento e poi sepolto dalla nuova fase della modernità. Di fronte alla ricchezza di valori e di conoscenze espresse nel lavorio continuo della cittadinanza attiva e nelle improvvise insorgenze a livello planetario, la soggettività rivoluzionaria non ha più il problema di rappresentare o di guidare le moltitudini, ma piuttosto quello di servire e supportare, stimolare il “link”, il collegamento tra la prossimità e la globalità.
In sostanza, il capitalismo oggi lo si combatte soprattutto creando e alimentando strutture di potenziamento e facilitazione del “dialogo di massa”; un dialogo che ha già dalla sua l’empatia, ma manca ancora di strutture di servizio all’altezza della sfida propriamente rivoluzionaria che si declina sotto i nostri stessi occhi.
Perché la ribellione ricca e diffusa che vediamo svilupparsi come contrasto di massa su temi decisivi – dal razzismo all’ambiente, dalla precarietà ai diritti di cura – non è più la possibile premessa delle rivoluzioni, ma essa stessa, qui e ora, una concreta modalità di liberazione dell’umano.