Born to burn

L’omicidio di George Floyd, brutale e spietato, era già destinato all’insabbiamento dietro il solito rapporto di routine se le circostanze del caso non avessero assunto le sembianze, stavolta, di chi ha coraggiosamente ripreso l’accaduto col suo smartphone, svelando al mondo intero ciò che i neri d’America già conoscono sulla propria pelle: e, cioè, che le strade dell’Impero sono per tanti di essi una “sala della morte” a cielo aperto, dove un gruppo di agenti rigorosamente bianchi, razzisti e non di rado “suprematisti” fanno in un sol colpo il lavoro da sbirro, investigatore, giudice e boia.

I fautori del “law and order” (il binomio giustizialista, divenuto slogan nixoniano, poi reaganiano e oggi rivendicato da Trump) esaltano la durezza dei cops come assioma dell’efficacia e dell’efficienza punitiva di un sistema che, da solo, ospita nelle prigioni tra le più violente sulla faccia della terra un quarto (!!!) dei circa dieci milioni cui ammonta la popolazione carceraria mondiale censita: senza nessuna remora a tacere, né un qualunque straccio di spiegazione sulla macroscopica divergenza tra l’entità di questo dato e l’entità della popolazione USA in rapporto a quella mondiale: su quasi sette miliardi e mezzo di persone al mondo, il poco più del 4 % di statunitensi vanta l’incredibile primato del 25 % sul totale mondiale dei carcerati.

Se si sostituisce al denominatore la quota di Pil mondiale, la divergenza numerica si appiana di molto, rivelando senza pietà l’immediata e implacabile funzionalità del sistema punitivo nordamericano in difesa dello sfruttamento, della ricchezza, della proprietà privata e dei privilegi censitari.

Ma stavolta il diavolo ci ha messo la coda (filmata) e, con un’umiliazione senza precedenti (salvo che per il vice Dick Cheney  nel giorno delle Torri Gemelle). Il presidente americano – reduce dal recente convegno col partner israeliano per l’annessione dei Territori Palestinesi (sotto benedizione saudita) e già pronto, sviando dalla pandemia/Covid19, all’escalation pre-elettorale verso la nuova guerra fredda contro la Cina in nome dei diritti umani a Hong Kong – ha dovuto subire l’onta del prelevamento ad opera del Secret Service per la discesa nel bunker della Casa Bianca, assediata dall’esplosione di collera di migliaia e migliaia di manifestanti, neri e bianchi, d’ogni età e genere, al grido di “I can’t breathe”.

Non serve qui ripercorrere i fatti, ormai ampiamente sotto i riflettori globali e veicolati attraverso diverse forme mediatiche con una diffusione così fulminea e potente da varcare i confini di ogni continente, paese e città.

Su una rivista come la nostra vale la pena interrogarsi sulla natura, sulla composizione, la forza e gli obiettivi della mobilitazione che sta mettendo a ferro e fuoco gli Stati Uniti d’America, fino al coprifuoco in oltre 40 città e al pre-allerta dell’esercito minacciato da Trump con la Bibbia in una mano e l’Insurrection Act del 1807 nell’altra.

Sulla natura della mobilitazione, la sintesi più efficace l’ha fatta un senatore dem del Delaware: «… come se la Spagnola del 1918, il crack del 1929 e le rivolte del 1968 stessero accadendo tutte assieme…».

La battuta coglie in pieno la convergenza di tre impulsi “causali”: la pandemia in atto (gestita in puro laissez-faire, laissez-mourir), che ha reso gli USA il primo paese al mondo per contagi e morti, con una percentuale (stimata per difetto) in entrambi i casi ad un soffio dal 30 % su ciascun totale; la crisi economica innescata dal lock-down, che ha mandato in fumo, secondo stime approssimative, oltre venti milioni di posti di lavoro (ma c’è chi dice trenta e chi teme possano aggiungersene altri quindici a breve), portando il tasso di disoccupazione a sfiorare il 15 % (il più alto dalla Grande Depressione del 1929); infine, l’ennesima irruzione nelle strade della lotta antirazzista e per i diritti civili, che cova costantemente sotto la cenere di un paese storicamente fondato sulla pulizia etnica, sullo sterminio e sul saccheggio delle popolazioni autoctone “pellerossa” e, coevamente, sull’importazione schiavistica dei “pellenera” prelevati armi in pugno dai suoli d’Africa per innescare la più violenta, repentina e gigantesca accumulazione capitalistica originaria della storia moderna a beneficio dei “pellebianca” (WASP).

Il mix è dinamite allo stato puro, perché riannoda le istanze schiettamente classiste, quelle più immediatamente economiche, quelle rivendicative di stampo civile, politico e solidaristico in un unico fronte di lotta aperto alla potenziale confluenza del proletariato urbano di colore, dei settori giovanili anche bianchi e di altre minoranze etniche condannati alla marginalità metropolitana e, infine, di una buona fetta di quel ceto medio in via di proletarizzazione già precipitato nei bassifondi della scala sociale con la crisi del 2008.

Quindi, una mobilitazione di natura e matrice sociale, politica e culturale, ad un tempo, con una radicalità sulla quale agisce da amplificatore e moltiplicatore il mix “costituente”, alimentato incessantemente dalla frontale contrapposizione trumpiana che ha puntato l’indice contro “Antifa”, contro la “sinistra radicale”, contro la “feccia che distrugge le nostre città”, in un crescendo ovvio perché il presidente fa leva proprio sul terrore che la radicalità dei riots incute nel ceto medio-alto/wasp per saldarlo senza fronzoli alla propria base militante suprematista (anzi, l’A-D/League conta già diversi episodi di infiltrazioni/provocazioni dall’esterno delle mobilitazioni per tenerne rovente la temperatura) e tuttavia impotente a ricondurre la situazione sotto una parvenza di controllo.

Non solo: il fatto che la pandemia abbia colpito  – tanto per cambiare –  i neri in misura quasi tripla rispetto ai bianchi, le classi sfruttate e i non-abbienti in misura pressoché totale rispetto alle classi agiate, così come, nella sequenza parallela, la crisi e la disoccupazione stanno gravando all’incirca nelle stesse proporzioni sulle medesime vittime sociali, rischia ora d’incrociare un fattore potenzialmente micidiale nella recente ripresa della politica dei dazi contro Pechino, che ha scelto di rispondere per le rime comprimendo la sua domanda di soia e carni suine americane, una delle voci di maggior peso pro/USA nella bilancia commerciale con la Cina.

La mossa è destinata a ridimensionare i profitti dei farmers del settore, provocando un forte contraccolpo occupazionale in un bacino socio-elettorale di storica tradizione repubblicana, senz’alcuna reale o efficace prospettiva di uno scatto compensativo in altri settori produttivi.

Paradossali solo in apparenza sembrano i cospicui rialzi di Wall Street durante i riots.

In realtà, due motivi spiegano in termini convincenti la tendenza: primo perché la liquidità di cui la FED sta inondando gli States si incanalerà in mille rivoli  – dai sussidi ai farmaci, dal cibo ai prodotti della grande distribuzione, dagli acquisti on line alle polizze sanitarie –  tutti confluenti a foce negli assets finanziari delle grandi corporates; secondo, perché Trump con la Bibbia sollevata pare dire alle dynasties del dollaro “sono io il solo e autentico custode del nostro potere e delle nostre ricchezze”, al suprematismo etnico-religioso “sono io la vostra guida” e ai ceti medi in bilico tra benessere e povertà “sono la vostra sola garanzia che non finiate nel girone infernale”.

Ma qual è la composizione del “girone infernale”? Tutti hanno visto le immagini delle manifestazioni che, ormai a cadenza quotidiana dal 25 maggio, scuotono centinaia di città americane.

Ed è stata evidente sin dall’inizio la presenza, insieme ai manifestanti di colore e di altre minoranze come quella ispanica, anche di bianchi, giovani e meno giovani, e di tantissime donne.

A differenza di altre rivolte, come quella di Los Angeles del 1992 a seguito del feroce assassinio di Rodney King da parte di un gruppo di agenti del LAPD, quella attuale non somiglia al “ghetto in  fiamme”, ma piuttosto rivela la tendenziale unificazione nella lotta di tutte/i quelle/i “nati per bruciare” le loro esistenze nel ciclo mortifero e alienato del lavoro sfruttato/precario/marginale, senza le più elementari tutele per via della moderna “Lynch law” con esecuzione sommaria per strada o, se non basta, della spietata “Three strikes-law” (adottata sotto varie forme in 28 States su 50) che spalanca l’ergastolo dopo il terzo reato “a prescindere”.

Questa composita moltitudine ha reagito con una mobilitazione senza precedenti e diversa sia dal Sessantotto americano (in cui i movimenti studenteschi e pacifisti, essenzialmente bianchi, e quelli di colore per i diritti civili, marciando paralleli si sfiorarono senza però unificarsi) che dallo stesso  Movimento No Global che tenne il suo “battesimo del fuoco” a Seattle con una sostanziale assenza delle comunità di colore.

La rabbia metropolitana è oggi un fattore potente di unificazione, al di là dell’attivismo di sigle molto impegnate e presenti (da BLM a diverse organizzazioni sindacali, fino ad Antifa e alla rete informale di gruppi che si organizzano mediante l’app “Citizen”) e riesce a sfidare il coprifuoco inglobando nella “pancia” anche la più che comprensibile rivalsa di chi non esita a saccheggiare i “templi delle merci” del più grande sistema socio-economico-politico di saccheggio che la Storia ricordi.

E tuttavia, conscio anche dell’impatto mediatico fiutato dai media con le troupe inviate a riprendere “da dentro” i saccheggi, il movimento ha preferito, a metà della seconda settimana di mobilitazione, spingersi in direzione dell’allargamento numerico e sociale, capitalizzando anche alcuni episodi d’indubbio valore simbolico (come i cops inginocchiati davanti ai manifestanti in alcune città o come il capo-plotone che si toglie il casco e scavalca il fronte, e persino la palpabile contrarietà dell’esercito all’evocato utilizzo nei riots) che denotano l’idea di durare e non solo di scioccare, anche perché alle porte ci sono le Presidenziali e nessuno si augura il bis trumpiano.

L’idea rivela un abbozzo di strategia, che sembra aver compreso molto bene l’enorme potenziale di forza del movimento in atto onde evitare, da un lato, che questa forza di consumi in una intensa ma sterile fiammata, dall’altro che venga incanalata verso obiettivi di facciata, in attesa che tutto rientri nei ranghi della normalità capitalistica.

Il sommovimento scuote in profondità le viscere della società americana, facendo affiorare l’onda lunga di una nuova polarizzazione classista.

E il segnale, come già accaduto in altri tornanti della storia degli States, potrebbe avere valenza premonitrice e annunziare una nuova stagione di lotta generale, di cui s’avverte assoluta impellenza. 

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