… di buono
Per diversi anni, francamente troppi, la sinistra di opposizione ha guardato alla magistratura come ad una interlocutrice privilegiata, con la quale era possibile fare un bel tratto di cammino comune.
Pur sapendo come fossero molti i reazionari e i conservatori in quel mondo, si è pensato che, vista nel suo insieme, la magistratura si presentasse come un presidio democratico e di legalità. Anzi, a confronto del ceto politico di prima e dopo “mani pulite”, appariva “una spanna sopra” perfino sul piano etico.
In nome dell’antiberlusconismo si è costituito una specie di fronte comune, le cui finalità si sovrapponevano: la difesa della legalità diventava un valore in sé anche per chi criticava il capitalismo; gli abusi del ceto politico acquisivano il ruolo di male principale della società; la tutela dei deboli veniva affidata essenzialmente alle aule dei tribunali.
Guai ad attaccare, in tale contesto, la magistratura, la sua autonomia, il suo ruolo di tutore della democrazia; il rischio era quello di essere collocato immediatamente nella schiera degli amici dei potenti, tra quelli che non sopportavano i “lacci e lacciuoli” della legalità, e quindi, automaticamente, tra i liberisti più sfrenati. Come se le leggi, in questo Paese, fossero giuste di per sé, costantemente ispirate ad un profondo senso della cooperazione e della collettività…
Per carità, alcuni meriti vanno riconosciuti a determinati settori della magistratura. Se non fosse stato per la tenacia di alcuni pubblici ministeri di Genova, i massacratori della Diaz non sarebbero mai stati individuati e puniti. E poi, effettivamente molti magistrati, anche in nome di una cultura sacrale dello Stato (cultura che, come Giano bifronte, ha sempre una doppia faccia, mai dimenticarlo), hanno messo sotto la lente di ingrandimento la corruzione diffusa nel mondo politico; e alcune pronunce della Cassazione hanno saputo cogliere le spinte più innovative dello spirito dei tempi, in materia di diritti civili e dignità delle persone, più e meglio della cultura di massa, contribuendo all’evoluzione di una società per troppi versi bloccata e conservatrice.
Detto questo, però, l’innamoramento della sinistra di opposizione per la magistratura è diventato davvero eccessivo e poco comprensibile. E non basta a spiegarlo la ovvia soddisfazione per la giusta repressione dei poteri mafiosi, portata avanti, del resto, anche dalle forze di polizia, che hanno dato, per questo, un tributo di sangue pari, se non superiore, a quello versato dai magistrati. Di fatto, per un paio di decenni è sembrato che non vi fossero persone degne di essere candidate alle più svariati cariche elettive (dal Parlamento, alle Regioni, ai Comuni), se non provenienti dalla magistratura. Una sorta di serbatoio della rettitudine, della cultura democratica, dell’impegno sociale: questo era diventato, anche agli occhi dei militanti della sinistra di opposizione, l’ordine giudiziario.
La circostanza che anche negli ultimi vent’anni continuassero alacremente i processi contro i manifestanti, i militanti e gli oppositori, non di rado con teoremi politicamente orientati, oltre che giuridicamente fantasiosi (per tutti, il processo per associazione a delinquere ed estorsione contro i disoccupati napoletani, o i processi contro i Notav) sembrava un dettaglio quasi trascurabile, un incidente di percorso lungo il cammino di una feconda e quasi granitica comunanza.
A voler essere ancora più precisi, in nome di questa visione, si è anche troppo a lungo taciuto sul nostro sistema penale, caratterizzato da una giustizia a due velocità: rapida e rigorosa per il mondo dei devianti marginali; lenta e disattenta verso il mondo dei colletti bianchi. Un sistema penale in grado di offrire, in sostanza, molte scappatoie a chi ha i mezzi per difendersi a lungo; e che invece destina una giustizia di serie b ai marginali, mortificati oltretutto da un sistema di sostegno economico (il cosiddetto gratuito patrocinio) ai limiti dell’offensivo (difensori pagati dopo 3-4 anni, con tariffe ridotte al minimo).
Si è taciuto anche su una giustizia civile ancora più “classista” di quella penale, caratterizzata non solo dalla lunghezza, per cui chi ha più mezzi resiste meglio, ma anche da poderosi ritorni a posizioni conservatrici (emblematica la parabola del diritto del lavoro, dove sempre di più le ragioni dell’impresa assumono valenza prevalente).
E si è taciuto troppo (o parlato troppo poco) di un sistema penitenziario nel quale le previsioni costituzionali dal reinserimento sociale e del divieto di trattamento disumano sono state diffusamente disattese.
Ma soprattutto, si è taciuto sul fatto che la magistratura, in quanto potere dello stato, ha dinamiche e comportamenti tipici di ogni potere centralizzato, con lo strascico inevitabile della autoreferenzialità, della autoconservazione e della tendenza all’espansione, al personalismo e all’avidità.
Lo scandalo Palamara, quasi come una doccia fredda, ci ha sbattuto davanti agli occhi la realtà: spregiudicatezza, arroganza, avidità, uso personalistico del potere, giochi di palazzo, scambio di favori. Insomma, tutto l’armamentario di una casta di potere, ormai non più semplicemente asservita ai cosiddetti “poteri forti” (finanza, politica, industria, ecc.), ma pienamente inserita tra quei poteri, forte tra i forti, consapevole di essere il baluardo – addirittura, secondo un paradigma molto diffuso tra i giudici, l’ultimo e insuperabile baluardo dell’ordine costituito, la linea del Piave, oltre la quale vi è solo il baratro. Talvolta ha dimostrato capacità di adattamento ed elasticità maggiore di altri segmenti del potere, ma indiscutibilmente si sente votato alla stessa missione. E il fatto che Palamara e gran parte del suo cerchio magico appartenessero alle aree “di sinistra” della magistratura, ci chiarisce ancora meglio le idee…
Intendo dire che è un grave errore prospettico parlare di “magistratura” come di un insieme indistinto che, per funzione e natura, sarebbe uno spontaneo presidio di democrazia e legalità. È come dire che l’avvocatura, in quanto tale, sia un presidio di tutela contro l’ingiustizia. Queste generalizzazioni, oltre a tipizzare funzioni che nella pratica hanno declinazioni diversissime, addirittura opposte, costituisce una mistificazione evidente anche sul piano meramente definitorio.
I giudici applicano le leggi, qualunque esse siano. Sono i custodi delle leggi, non della democrazia. Se le leggi sono antidemocratiche, repressive o razziste, i giudici le applicano, non le contestano. A loro volta gli avvocati difendono le ragioni di una parte, offrendo l’interpretazione delle leggi che maggiormente coincide con gli interessi della parte. Sono i tutori degli interessi, non della giustizia; e gli interessi li tutelano anche quando sono moralmente, socialmente o economicamente ingiusti.
Certo, tra i giudici, come tra gli avvocati, vi sono persone con una sensibilità sociale e con una cultura democratica, che tentano, nei margini angusti offerti da singole norme, interpretazioni più favorevoli ai soggetti svantaggiati. Allo stesso modo, vi sono i convinti difensori dello status quo, i reazionari tutori, senza riserve, dell’autorità dello Stato, i consapevoli difensori dei potenti, i bramosi di potere che usano le guarentigie riconosciute all’ordine solo per accumulare potere e ricchezza.
Insomma, la vicenda Palamara ci indica che ormai è tempo di archiviare l’idillio con la magistratura, nel segno del realismo e del buon senso. Si può senz’altro interloquire con i magistrati, se essi sono davvero disponibili al confronto col mondo degli oppressi e degli sfruttati; ma occorre farlo fuori dai ruoli istituzionali e dalle aule dei tribunali,. Senza illudersi (lo dico provocatoriamente) che possa mai esistere una via “giudiziaria” alla rivoluzione.